In materia di sequestro cautelare c’è la competenza del Giudice Ordinario

17 Giu 2014
17 Giugno 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 13 giugno 2014 n. 834 afferma che in materia di sequestro cautelare ex L. 689/1981 vi è la competenza del Giudice Ordinario: “Trattasi, dunque, di atti che ineriscono ad un procedimento diretto alla irrogazione di una sanzione amministrativa ai sensi della legge n. 689/1981, con riferimento ai quali, ex art. 22 della citata legge n. 689, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario. Nella suddetta materia, infatti, la giurisprudenza amministrativa, esprimendo un orientamento condivisibile e con riferimento al quale il Collegio non vede ragioni per discostarsi, ha avuto modo di chiarire che la giurisdizione sul provvedimento di convalida del sequestro cautelare amministrativo spetta al giudice ordinario, inerendo ad un procedimento volto all’irrogazione di sanziona amministrativa (a titolo esemplificativo TAR Basilicata, 5 settembre 2011, n. 459; TAR Campania, Napoli, sez. III, 20 agosto 2010, n. 17205; questo stesso Tribunale, sez. I, 20 gennaio 2006, n. 103). Peraltro, la stessa Corte di Cassazione ha affermato che né l’atto che dispone la misura cautelare, né il provvedimento di rigetto dell’opposizione in sede amministrativa contro la medesima (ovvero dell’istanza di dissequestro) sono impugnabili in sede giurisdizionale, mentre l’accertamento dell’illegittimità della suddetta misura può essere richiesto con ricorso ex art. 22 della legge n. 689/1981 contro il provvedimento di confisca (Cass., sez. III, 9 agosto 2000, n. 10534).

In considerazione degli esposti argomenti, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione.

Alla declaratoria del difetto di giurisdizione del giudice amministrativo ed all'affermazione di quella del giudice ordinario consegue, peraltro, la conservazione degli effettivi processuali e sostanziali della domanda ove il processo sia tempestivamente riassunto dinanzi al Giudice territorialmente competente, nel termine di tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza, ai sensi dell’art. 11, comma II° del D. L.gvo 2.7.2010 n. 104, che regola la fattispecie sulla scorta dell’orientamento espresso da Corte Cost. n. 77/2007 e Cass. Sez. Un. n. 4109/2007 e poi recepito dal previgente art. 59 della legge n. 69/2009”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 834 del 2014

Per i professionisti non vi è l’obbligo del POS

16 Giu 2014
16 Giugno 2014

Nella risposta alla interrogazione parlamentare n. 5-02936, il Ministero dell’economia e delle Finanze sembra chiarire come debba intendersi l’art. 15, c. 4 del D.L. 179/2012, secondo cui: “A decorrere dal 30 giugno 2014, i soggetti che effettuano l'attività di vendita di prodotti e di prestazione di servizi, anche professionali, sono tenuti ad accettare anche pagamenti effettuati attraverso carte di debito. Sono in ogni caso fatte salve le disposizioni del decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231”.

Nello specifico il Ministero conferma l’interpretazione fornita dalla Circolare del Consiglio Nazionale Forense n. 100-C-2014 secondo cui vi sarebbe soltanto un onere e non obbligo per il professionista di dotarsi di POS.

In particolare nell’interrogazione, dopo aver ribadito “la necessità di promuovere la diffusione e l'uso dei pagamenti con carte di debito e credito su vasta scala, anche in considerazione della scarsa incidenza dei pagamenti elettronici in Italia, rispetto alla media degli altri Paesi europei, nonché l'eccessivo costo dell'uso del contante per il sistema economico e per i singoli imprenditori, si ritiene opportuno che – al fine di massimizzare i vantaggi connessi all'implementazione della tecnologia nei sistemi di pagamento e, nel contempo, minimizzare l'incidenza degli oneri a carico delle imprese, commercianti e professionisti – vengano attivati una serie di tavoli di confronto con le banche e con gli altri operatori di mercato per ridurre i costi legati alla disponibilità e all'utilizzo dei POS, e sfruttare a vantaggio del sistema i margini di efficienza esistenti, ottenendo così una significativa compressione dei costi ed una soluzione che consenta di superare le difficoltà insite nel cambiamento prospettato”, si legge che: “Per quanto riguarda la circolare interpretativa del Consiglio nazionale forense, ugualmente citata nell'interrogazione, essa interpreterebbe la normativa nel senso di introdurre un onere, piuttosto che un obbligo giuridico, il cui campo di applicazione sarebbe limitato ai casi nei quali sarebbero i clienti a richiedere al professionista la forma di pagamento tramite carta di debito. In tal senso, sembra in effetti deporre il fatto che non risulta associata alcuna sanzione a carico dei professionisti che non dovessero predisporre della necessaria strumentazione a garanzia dei pagamenti effettuabili con moneta elettronica”. 

dott. Matteo Acquasaliente

Circolare CNF 10-C-2014

Interrogazione Parlamentare n. 5-02936

Il mutamento di sesso dopo il matrimonio non determina automaticamente lo scioglimento dell’unione

16 Giu 2014
16 Giugno 2014

La Corte Costituzionale, nella sentenza dell’11 giugno 2014 n. 170, dichiara costituzionalmente illegittimi gli artt. 2 e 4 della l. n. 164/1982 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso) e gli artt. 31, c. 6 del D. Lgs. n. 150/2001 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione  e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione) nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio, consenta, ove entrambi i coniugi lo richiedano, il mantenimento del rapporto di coppia con un'altra forma di convivenza diversa dal matrimonio.

Nello specifico la Corte, facendo leva sul contenuto dell’art. 2 che tutela le “formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” giunge a riconoscere una autonoma rilevanza giuridica all’unione di due soggetti dello stesso sesso, invitando però “con la massima sollecitudine” il legislatore a voler disciplinare normativamente questa unione.

Ecco il passo saliente della sentenza: “Al riguardo questa Corte ha già avuto modo di affermare, nella richiamata sentenza n. 138 del 2010, che nella nozione di “formazione sociale” – nel quadro della quale l’art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo – «è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri».

In quella stessa sentenza è stato, però, anche precisato doversi «escludere […] che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio», come confermato, del resto, dalla diversità delle scelte operate dai Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette.

Dal che la conclusione, per un verso, che «nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette», e, per altro verso, che resta, però, comunque, «riservata alla Corte costituzionale la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni», nel quadro di un controllo di ragionevolezza della rispettiva disciplina.

5.6.− Sulla linea dei principi enunciati nella riferita sentenza, è innegabile che la condizione dei coniugi che intendano proseguire nella loro vita di coppia, pur dopo la modifica dei caratteri sessuali di uno di essi, con conseguente rettificazione anagrafica, sia riconducibile a quella categoria di situazioni “specifiche” e “particolari” di coppie dello stesso sesso, con riguardo alle quali ricorrono i presupposti per un intervento di questa Corte per il profilo, appunto, di un controllo di adeguatezza e proporzionalità della disciplina adottata dal legislatore.

La fattispecie peculiare che viene qui in considerazione coinvolge, infatti, da un lato, l’interesse dello Stato a non modificare il modello eterosessuale del matrimonio (e a non consentirne, quindi, la prosecuzione, una volta venuto meno il requisito essenziale della diversità di sesso dei coniugi) e, dall’altro lato, l’interesse della coppia, attraversata da una vicenda di rettificazione di sesso, a che l’esercizio della libertà di scelta compiuta dall’un coniuge con il consenso dell’altro, relativamente ad un tal significativo aspetto della identità personale, non sia eccessivamente penalizzato con il sacrificio integrale della dimensione giuridica del preesistente rapporto, che essa vorrebbe, viceversa, mantenere in essere (in tal ultimo senso si sono indirizzate le pronunce della Corte costituzionale austriaca – VerfG 8 giugno 2006, n. 17849 – e della Corte costituzionale tedesca BVerfG, 1, Senato, ord. 27 maggio 2008, BvL 10/05).

La normativa – della cui legittimità dubita la Corte rimettente – risolve un tale contrasto di interessi in termini di tutela esclusiva di quello statuale alla non modificazione dei caratteri fondamentali dell’istituto del matrimonio, restando chiusa ad ogni qualsiasi, pur possibile, forma di suo bilanciamento con gli interessi della coppia, non più eterosessuale, ma che, in ragione del pregresso vissuto nel contesto di un regolare matrimonio, reclama di essere, comunque, tutelata come «forma di comunità», connotata dalla «stabile convivenza tra due persone», «idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione» (sentenza n. 138 del 2010).

Sta in ciò, dunque, la ragione del vulnus che, per il profilo in esame, le disposizioni sottoposte al vaglio di costituzionalità arrecano al precetto dell’art. 2 Cost.

Tuttavia, non ne è possibile la reductio ad legitimitatem mediante una pronuncia manipolativa, che sostituisca il divorzio automatico con un divorzio a domanda, poiché ciò equivarrebbe a rendere possibile il perdurare del vincolo matrimoniale tra soggetti del medesimo sesso, in contrasto con l’art. 29 Cost. Sarà, quindi, compito del legislatore introdurre una forma alternativa (e diversa dal matrimonio) che consenta ai due coniugi di evitare il passaggio da uno stato di massima protezione giuridica ad una condizione, su tal piano, di assoluta indeterminatezza. E tal compito il legislatore è chiamato ad assolvere con la massima sollecitudine per superare la rilevata condizione di illegittimità della disciplina in esame per il profilo dell’attuale deficit di tutela dei diritti dei soggetti in essa coinvolti”. 

dott. Matteo Acquasaliente

C. Cost. n. 170 del 2014

L’ordine di bonificare un’area (cava dismessa con materiali di fonderia) non può essere dato al proprietario non colpevole

16 Giu 2014
16 Giugno 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 701 del 2014.

La sentenza accoglie il primo motivo di ricorso: "Illegittimità dei provvedimenti impugnati per violazione di legge (articolo 14 decreto legislativo numero 22 del 1997), eccesso di potere, carenza incongruenza della motivazione; nell’assunto che l’ordine alle ricorrente viene impartito con riferimento alla loro qualità di proprietarie e senza alcun’indicazione di loro colpa o dolo per la violazione contestata".

Si legge nella sentenza: "Nel merito il ricorso è fondato. Infatti, come esattamente puntualizzato con il primo motivo di ricorso, il Comune ha impartito alle ricorrenti l’ordine impugnato senza la previa individuazione di alcun profilo di colpa e men che meno di dolo a loro carico, come appare invece sicuramente ed incontrovertibilmente richiesto dalla normativa richiamata, addebitando quindi alle ricorrenti una sorta di responsabilità oggettiva derivante dalla proprietà del suolo. La stessa difesa del Comune, nelle proprie memorie, non individua alcun profilo di colpa o di dolo da addebitare alle ricorrenti e si limita a rilevare che le stesse avrebbero prestato una sorta di acquiescenza all'ordinanza del Sindaco di Verona n. 5473 del 25.07.90 che aveva loro imposto la predisposizione di un progetto di bonifica di recupero ambientale dell'area, che fosse idoneo a scongiurare rischi di  inquinamento della falda e ad assicurare la stabilità dell'accumulo dei rifiuti. Il richiamo all'ordinanza del 1990 appare peraltro del tutto irrilevante. Le attuali ricorrenti, infatti, senza con ciò riconoscere alcuna responsabilità da parte loro in merito al deposito dei rifiuti, avevano presentato un progetto di bonifica, che avrebbe dovuto essere portato ad esecuzione dalla società Edilcosta, che ha all’uopo intrattenuto direttamente i rapporti con Comune e Provincia. Dalla documentazione prodotta peraltro risulta espressamente e "per tabulas" che l'impegno alla rimozione dei materiali inquinanti nei confronti del Comune è stato assunto solo da Edilcosta (v. doc. 15 II fascicolo documenti del Comune) e che (v. doc. 20 II fascicolo documenti del Comune) "i materiali giacenti nell'area (copertoni e scorie di fonderia) in epoca remota sono stati rimossi ed accumulati secondo le disposizioni impartite dal Vs. tecnico geom. Lodi " il quale avrebbe "consigliato di accumularli in un angolo dell'area, così come ora giacciono". Il Comune pertanto non risulta essersi adoperato per acclarare se e quale tipo di responsabilità potessero avere le ricorrenti in merito all'inquinamento contestato, essendosi invece limitato ad attribuire loro una sorta di responsabilità "da posizione". Nei provvedimenti impugnati non viene fatto alcun riferimento ad eventuali comportamenti colposi o dolosi delle ricorrenti tali da comportare una responsabilità delle stesse per le violazioni contestate e nessuna istruttoria o indagine è stata infatti svolta dal Comune al fine di identificare i reali inquinatori che hanno sversato le terre di fonderia e i  copertoni; anzi, nell'ordinanza 713/98 lo stesso Comune riconosce espressamente che i rifiuti sono stati abbandonati nel tempo da ignoti. La giurisprudenza è invece consolidata nel ritenere che l'onere probatorio di individuazione delle cause dell'inquinamento e dell'identificazione dei responsabili spetta alla P.A. procedente, mediante espletamento di un'adeguata istruttoria ( da ultimo TAR Brescia, sez. I, sent. n. 50/2013), che nel caso concreto è pacificamente mancata".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 701 del 2014

Classificazione delle strutture ricettive alberghiere

16 Giu 2014
16 Giugno 2014

Sul Bur n. 59 del 13/06/2014 è stata pubblicata la DELIBERAZIONE DELLA GIUNTA REGIONALE n. 807 del 27 maggio 2014
Classificazione delle strutture ricettive alberghiere. Nuova disciplina per le procedure, la documentazione e i
requisiti di attribuzione del livello e categoria ai sensi degli articoli 29, 31, 32, 33 e 34 della legge regionale 14 giugno
2013, n. 11 "Sviluppo e sostenibilità del turismo veneto".Deliberazione n.10/CR dell'11 febbraio 2014.

La delibera provvede a definire il quadro complessivo dei requisiti strutturali e di servizio per la classificazione delle strutture ricettive alberghiere in seguito a quanto stabilito dalla nuova legge regionale n. 11/2013, in materia di turismo.

DGRV_807_2014-Classificazione strutture alberghiere

NB: dalla data di pubblicazione nel BUR del presente provvedimento, sono abrogate - ai sensi dell'articolo 51, comma 3, della legge regionale n. 11/2013 - le seguenti disposizioni della legge regionale n. 33/2002 limitatamente alle strutture ricettive alberghiere:

-      l'articolo 4, comma 1, lettera e) limitatamente al numero 41;

-      gli articoli 22, 23, 24, nonché gli articoli da 32 a 43;

-      gli allegati contraddistinti con le lettere da B a E;

-      gli allegati H, I e Q.

Linee guida in materia di trattamento di dati personali

16 Giu 2014
16 Giugno 2014

Pubblichiamo la Delibera 15 maggio 2014 del Garante per la protezione dei dati personali, contenente "Linee guida in materia di trattamento di dati personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato per finalita' di pubblicita' e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da altri enti obbligati. (Provvedimento n. 243). (Suppl. Ordinario n. 43)

L’altana realizzata da un condomino sul tetto richiede l’assenso dell’assemblea

13 Giu 2014
13 Giugno 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. II, nella sentenza del 20 maggio 2014 n. 641 afferma che la realizzazione di un’altana sul tetto di un condomino, essendo un’innovazione e non una semplice modifica realizzabile uti singulo della parte comune, richiede il consenso dell’assemblea dei condomini: “pur essendo generalmente riconosciuto che, in caso di realizzazione di un’opera da parte di un singolo su parti comuni dell’edificio, la quale sia tuttavia strettamente pertinenziale alla propria unità immobiliare, vale il principio dettato dall’art. 1102 c.c., in base al quale “ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purchè non ne alteri la destinazione e non ne impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”;

che, sulla scorta di tale disposizione, è stato più volte ribadito dalla Corte di Cassazione il principio generale per cui il singolo condomino può apportare, nel proprio interesse ed a proprie spese, modifiche alle parti comuni al fine di conseguire un’utilità maggiore e più intensa del proprio immobile, a patto che dette modifiche non alterino la normale destinazione della cosa comune e non ne impediscano l’altrui pari uso (cfr. C.Cass. 10453/2001; 12569/2002; 8830/2003);

che quindi, nell’ipotesi in cui l’intervento non sia riconducibile all’ipotesi contemplata dall’art. 1102, comma 1, l’intervento deve essere qualificato come innovazione, come tale comportante un mutamento della sostanza o l’alterazione della destinazione delle parti comuni, in quanto ne rende impossibile l’utilizzazione secondo la funzione originaria;

che , conseguentemente, in tali diverse ipotesi – quale è quella in esame, ove una porzione del tetto verrà coperta dall’altana e quindi risulterà di uso esclusivo dei fruitori della stessa – deve essere manifestata la volontà dell’assemblea dei condomini, coinvolgendo tutti i partecipanti alla cosa comune e quindi sia i condomini della scala A che quelli della scala B, con la maggioranza calcolata ai sensi dell’art. 1136, comma 5, così come disposto dall’art. 1120 c.c.;

osservato, altresì, attese le considerazioni svolte in ricorso, che l’ipotesi in esame è ben diversa da quella in cui vengono aperti sul tetto degli abbaini o delle finestre per dare aria e luce alla proprietà sottostante, in quanto tali opere, sempreché eseguite a regola d’arte e tali da non pregiudicare la funzione di copertura propria del tetto, né da impedire l’esercizio da parte degli altri condomini dei propri diritti sulla cosa comune, costituiscono soltanto modifiche e non innovazioni della cosa comune, non necessitando di conseguenza della previa approvazione dell’assemblea dell’edifico in condominio ex artt. 1120 e 1136 c.c.

per detti motivi, ritenuta la legittimità del diniego opposto dall’amministrazione, il ricorso deve essere respinto”.

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza TAR Veneto 641 del 2014

Il Comune deve pronunciarsi anche in mancanza del parere della Soprintendenza

13 Giu 2014
13 Giugno 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. II, nella sentenza del 22 maggio 2014 n. 698, afferma che il parere espresso dalla Soprintendenza, dopo il decorso del termine di quarantacinque giorni previsto ex lege, non rivesta più alcun carattere vincolante e che il Comune ha comunque l’obbligo di pronunciarsi: “Nel caso di specie lo stesso atto impugnato richiama l’art. 146 c. 8 del d.lgs 42/2004 ma, ad avviso del Collegio, l’art 146 deve essere letto nel suo insieme e, in particolare rileva il combinato disposto dei commi 5, 8 e 9 che, è bene ricordarlo, così dispongono:

“5. Sull'istanza di autorizzazione paesaggistica si pronuncia la regione, dopo avere acquisito il parere vincolante del soprintendente in relazione agli interventi da eseguirsi su immobili ed aree sottoposti a tutela dalla legge o in base alla legge, ai sensi del comma 1, salvo quanto disposto all'articolo 143, commi 4 e 5. Il parere del soprintendente, all'esito dell'approvazione delle prescrizioni d'uso dei beni paesaggistici tutelati, predisposte ai sensi degli articoli 140, comma 2, 141, comma 1, 141-bis e 143, comma 1, lettere b), c) e d), nonche' della positiva verifica da parte del Ministero, su richiesta della regione interessata, dell'avvenuto adeguamento degli strumenti urbanistici, assume natura obbligatoria non vincolante ed e' reso nel rispetto delle previsioni e delle prescrizioni del piano paesaggistico, entro il termine di quarantacinque giorni dalla ricezione degli atti, decorsi i quali l'amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione….

…8. Il soprintendente rende il parere di cui al comma 5, limitatamente alla compatibilita' paesaggistica del progettato intervento nel suo complesso ed alla conformita' dello stesso alle disposizioni contenute nel piano paesaggistico ovvero alla specifica disciplina di cui all'articolo 140, comma 2, entro il termine di quarantacinque giorni dalla ricezione degli atti. Il soprintendente, in caso di parere negativo, comunica agli interessati il preavviso di provvedimento negativo ai sensi dell'articolo 10-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241. Entro venti giorni dalla ricezione del parere, l'amministrazione provvede in conformita' .

9. Decorso inutilmente il termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il soprintendente abbia reso il prescritto parere, l'amministrazione competente puo' indire una conferenza di servizi, alla quale il soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto. La conferenza si pronuncia entro il termine perentorio di quindici giorni. In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente, l'amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione. Con regolamento da emanarsi ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro il 31 dicembre 2008, su proposta del Ministro d'intesa con la Conferenza unificata, salvo quanto previsto dall'articolo 3 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono stabilite procedure semplificate per il rilascio dell'autorizzazione in relazione ad interventi di lieve entita' in base a criteri di snellimento e concentrazione dei procedimenti, ferme, comunque, le esclusioni di cui agli articoli 19, comma 1 e 20, comma 4 della legge 7 agosto 1990, n. 241 e successive modificazioni.”

Pertanto la normativa delinea un sistema in cui, dopo la inutile scadenza del termine assegnato al soprintendente per l’emissione del parere, questo può ancora essere reso o conferito oralmente nell’ambito di una conferenza di servizi che l’amministrazione competente acquisisce il potere di indire, con le ivi previste regole specifiche ed evidentemente derogatorie rispetto al procedimento disciplinato dalla normativa generale ex artt 14 e segg della l. 241/90; la conferenza dei servizi ex art 146 c. 9 succitato è infatti disciplinata dalla normativa speciale fissata da tale norma e caratterizzata dal termine perentorio di 15 giorni per la conclusione dei suoi lavori, palesemente inconciliabile con qualunque possibilità di applicazione delle norme riguardanti la conferenza di servizi per così dire “ordinaria”, caratterizzata da termini molto più “rilassati”; invece il termine perentorio di cui sopra, unito anche al termine ultimativo generale di 60 giorni ed al più lungo termine iniziale previsto per la emissione del parere del soprintendente dimostrano che nel caso di specie non è applicabile la disciplina generale della conferenza di servizi, il che deve valere, ovviamente, anche per l’ipotesi in cui il parere, che intervenga in tale sede, abbia contenuto negativo. Se tale ipotesi si verifica non potrà quindi ad esso nemmeno riconoscersi alcun valore predominante e/o paralizzante e tale da far scattare il particolare meccanismo delineato dall’art. 14 quater c. 3^; il parere soprintendentizio dovrà invece essere preso in esame dalla conferenza alla pari con gli altri pareri istruttori delle altre amministrazioni chiamate a parteciparvi ed avrà l’effetto di richiedere una specifica valutazione e motivazione in relazione al suo eventuale disattendimento, non diversamente da quanto dovrà accadere per altre manifestazioni di opinione, in ossequio alle generali regole di trasparenza dell’azione amministrativa.

Se quindi deve ritenersi indubbia la perdita della natura vincolante del parere espresso in sede di conferenza di servizi è evidente che sarebbe illogico e contraddittorio riconoscere perdurante natura di parere vincolante al parere tardivamente espresso, se la conferenza di servizi non viene convocata e anche quei termini vengono lasciati inutilmente scadere. Invero, se una siffatta situazione si verifica, si deve riscontrare, anzitutto, che tutti i termini di legge risultano violati, non solo quello per l’emissione del parere del Soprintendente ma anche quello (ultimativo) di sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente dettato dall’art. 9 per l’adozione “in ogni caso “ di una decisione da parte della competente amministrazione (..”, l'amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione. “). Ci si trova, pertanto, in una situazione contraddistinta da una palese violazione di termini perentori da parte di tutte le amministrazioni interessate e questo pare al Collegio non possa giustificare in alcun modo il “recupero”, da parte del parere soprintendentizio di quella natura vincolante che aveva già pacificamente perso se l’amministrazione competente avesse proceduto nei termini ad indire conferenza di servizi ed esso fosse stato reso in tale sede.

Per tutte le considerazioni sopra esplicitate il Collegio ritiene di dover necessariamente concludere che l’inutile decorso dei 45 giorni di cui al comma 8 comporta la perdita del potere della Soprintendenza di emettere un parere con natura vincolante.

Nel caso di specie non vi è alcuna possibilità di dubbio circa la tardività di tale parere, che è infatti intervenuto in data 17.12.2013 mentre gli atti erano stati ricevuti il 13.8.2013; anche tenendo conto della comunicazione dei motivi ostativi (ricevuta in data 16.9.13) e non computando nei termini i dieci giorni concessi per la presentazione di osservazioni, è ictu oculi evidente che tutti i termini sono stati lasciati ampiamente scadere, sia quello a disposizione del Soprintendente per l’emissione del parere che quello fissato al Comune per indire una conferenza dei servizi e quello finale e conclusivo dei sessanta giorni per provvedere “in ogni caso”. In tale contesto è pertanto evidente che il tardivo parere della Soprintendenza si colloca del tutto al di fuori del quadro normativo e non può più rivestire natura di parere vincolante ( conforme la consolidata giurisprudenza del TAR Puglia Lecce di cui vedasi da ultimo T.A.R. Lecce (Puglia) sez. I n. 252 del 24/01/2014 e anche T.A.R. Trieste (Friuli-Venezia Giulia) N. 343 del 03/09/2012).

Il Collegio ritiene quindi che il parere soprintendentizio impugnato non abbia natura vincolante e che l’amministrazione competente ( nel caso di specie Il Comune di San Michele al Tagliamento) abbia sicuramente l’obbligo di concludere il procedimento valutando tale parere istruttorio e la motivazione su cui lo stesso poggia alla stregua e unitamente agli altri pareri istruttori acquisiti nel corso del procedimento.

Si deve quindi concludere che, non essendo ancora terminato il procedimento e trovandocisi in presenza di un parere meramente endoprocedimentale e privo di valenza vincolante, il ricorso si rivela inammissibile in quanto non rivolto avverso l’atto conclusivo del procedimento ( allo stato ancora non intervenuto) bensì avverso un atto endoprocedimentale che potrà essere, se del caso, impugnato in quanto atto presupposto unitamente all’eventuale atto comunale reiettivo dell’istanza del ricorrente”.

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 698 del 2014

Il diniego ambientale – paesaggistico richiede una motivazione specifica

13 Giu 2014
13 Giugno 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. II, nella sentenza del 22 maggio 2014 n. 695 si occupa della motivazione del provvedimento amministrativo chiarendo che: “la funzione della motivazione del provvedimento amministrativo, così come chiarito dalla consolidata giurisprudenza, è diretta a consentire al destinatario di ricostruire l'iter logico-giuridico in base al quale l'amministrazione è pervenuta all'adozione di tale atto nonché le ragioni ad esso sottese; e ciò allo scopo di verificare la correttezza del potere in concreto esercitato, nel rispetto di un obbligo da valutarsi, invero, caso per caso in relazione alla tipologia dell'atto considerato (Cons. Stato, sez. V, 4 aprile 2006, n. 1750; sez. IV, 22 febbraio 2001 n. 938, sez. V, 25 settembre 2000 n. 5069).

Ciò che deve ritenersi necessario perché l'atto non risulti inficiato da censure nella sua parte motiva è che in esso siano sempre esternate le ragioni che giustificano la determinazione assunta, non potendo la motivazione espressa in essa esaurirsi in semplici, generiche locuzioni di stile”.

Premesso ciò, laddove l’Amministrazione ritenga non conforme l’intervento edilizio ai parametri ambientali - paesaggistici, si rivela necessaria una motivazione specifica delle ragioni ostano all’accoglimento della richiesta: “Nel caso in esame il provvedimento che denegato il rilascio del condono per l’intervento abusivo realizzato sull’immobile di proprietà dei ricorrenti risulta motivato, con espresso richiamo al parere espresso dalla Commissione per la Salvaguardia, con riferimento all’eccessivo impatto paesaggistico, per quanto riguarda la chiusura della terrazza per il ricavo della veranda con serramenti in alluminio anodizzato, derivante dall’utilizzo di materiali non tradizionali.

Nessuna ulteriore motivazione circa tale assunto è stata esplicitata nel diniego impugnato, onde chiarire in quali termini e per quali specifici motivi l’utilizzo di tali materiali si ponga in assoluto contrasto con il vincolo paesaggistico, al punto da non consentire la sanatoria dell’intervento.

Tale motivazione non appare, all’evidenza, idonea a sorreggere in modo puntuale il diniego della domanda di sanatoria.

Infatti, in relazione a provvedimenti negativi in materia di nulla osta paesaggistico l'Amministrazione è certamente tenuta a motivare in modo esaustivo circa la concreta incompatibilità del progetto sottoposto all'esame con i valori paesaggistici tutelati, indicando le specifiche ragioni per le quali le opere edilizie considerate non si ritengono adeguate alle caratteristiche ambientali protette, motivazione questa che deve essere ancor più pregnante nel caso in cui si operi nell'ambito di vincolo generalizzato, onde evitare una generica insanabilità delle opere (cfr. Cons. Stato, VI, 8 maggio 2008, n.2111).

Nel caso in esame le ragioni del diniego appaiono, invece, contenute nell’espressione del tutto sintetica “eccessivo impatto paesaggistico…trattandosi di materiali non tradizionali”, che per il solo riferimento generico alla scelta dei materiali utilizzati nella edificazione, non appare di certo sufficiente a sorreggere il diniego di concessione in sanatoria laddove esso deve esplicare le ragioni di fatto poste alla base dell'atto di diniego, anche per rendere edotto il titolare dell'interesse legittimo di carattere pretensivo sulle circostanze rilevanti nel caso di specie.

In definitiva, nel caso in esame il diniego espresso in ordine alla domanda di sanatoria contiene una valutazione apodittica che non appare soddisfare i requisiti minimali della motivazione, non essendo di certo sufficiente la mera affermazione secondo cui il manufatto in questione mal si inserirebbe nel contesto ambientale per i materiali utilizzati, in quanto non tradizionali, senza alcuna ulteriore precisazione, senza nulla specificare nel concreto per dimostrare il contrasto con l'interesse ambientale tutelato.

Affinché quindi l’atto non incorra nel vizio di difetto di motivazione, qui rilevato, è necessario che nella sua parte motiva siano sempre esternate le ragioni che giustificano la determinazione assunta, non potendo la motivazione espressa in essa esaurirsi in semplici, generiche locuzioni di stile”.

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza TAR Veneto 695 del 2014

 

Nel procedimento amministrativo nessun rilievo probatorio possono avere le dichiarazioni sostitutive di notorietà, né della parte interessata e né di terzi?

12 Giu 2014
12 Giugno 2014

Segnaliamo sulla questione la sentenza del Consiglio di Stato n. 2782 del 2014, nella quale si afferma che  nessun rilievo probatorio possono avere le dichiarazioni sostitutive di notorietà, né della parte interessata e né di terzi , le quali non hanno alcun “valore” certificativo o probatorio nei confronti della pubblica amministrazione e non possono avere alcuna rilevanza, neppure indiziaria, nel processo civile o amministrativo‏.

Si legge nella sentenza: "1) .... la prova circa il tempo di ultimazione delle opere edilizie è stato sempre posto sul privato, e non sull'Amministrazione, dato che solo l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto (cfr. infra multa Consiglio di Stato Sez. VI 20 dicembre 2013 n. 6159; Consiglio di Stato sez. V 20 agosto 2013 n. 4182; Consiglio di Stato sez. V 15 luglio 2013 n. 3834; Consiglio di Stato Sez. VI 01 febbraio 2013 n. 631).

Per questo deve poi sottolinearsi l’assoluta inconferenza delle dichiarazioni difensive del Comune che in primo grado avrebbe dichiarato di non essere in grado di opporre prove contrarie alle autodichiarazioni dell’appellante.

 2) .... nessun rilievo probatorio possono peraltro avere le dichiarazioni sostitutive di notorietà, né della parte interessata e né di terzi , le quali non hanno alcun “valore” certificativo o probatorio nei confronti della pubblica amministrazione e non possono avere alcuna rilevanza, neppure indiziaria, nel processo civile o amministrativo (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 27/05/2010 n.3378; Consiglio di Stato sez. IV, 3 Agosto 2011 n. 4641; da Consiglio di Stato, Sez. IV 21 Ottobre 2013 n. 5109; Consiglio di Stato sez. IV 15 gennaio 2013 n. 211; Consiglio di Stato sez. IV 27/12/2011 n.6861; Cass. Civ., sez. III, 28 aprile 2010 n. 10191)

3) In difetto di tali prove, resta infatti integro il potere dell'amministrazione di negare la sanatoria dell’abuso ed il suo dovere di irrogare la sanzione prescritta (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 23/01/2013 n.414)".

geom. Daniele Iselle

sentenza CDS 2782 del 2014

Commento

Ritengo che da questa sentenza si possa trarre il seguente insegnamento: l'obbligo di effettuare l'istruttoria grava sul responsabile del procedimento (art. 6 L. 241 del 1990). In relazione a questo, cosa deve fare il responsabile del procedimento, se l'interessato gli produce dichiarazioni sostitutive di atto notorio? A mio giudizio, non può fare finta di niente (come qualcuno potrebbe ipotizzare leggendo la sentenza), nè prendere per verità divine rivelate le dichiarazioni sostitutive, ma deve valutarle.  Dalla valutazione potrà emergere a prima vista la fondatezza di quanto dichiarato oppure la palese infondatezza, ma potrà anche emergere la necessità di convocare i testi per raccogliere da loro informazioni, che verranno verbalizzate e usate nel procedimento. Naturalmente sarà opportuno che chi produce le dichiarazioni sostitutive chieda al responsabile del procedimento di convocare    le persone informate e di sentirle, verbalizzando le loro dichiarazioni. Ritengo che l'omissione di queste attività istruttorie da parte del responsabile del procedimento (al quale siano state prodotte le dichiarazioni e chiesto di sentire i soggetti) comporterebbe l'illegittimità del provvedimento finale per difetto di istruttoria.

Non aderendo a questa soluzione, si incoraggerebbero i responsabili del procedimento a fare gli scansafatiche, il che non va certo bene. Ma la cosa ancora più grave, se si pretendessero solo documenti e non si accettasse di sentire le persone informate, sarebbe quella di impedire agli interessati di provare fatti che magari si possono provare solo con i testimoni.

Dario Meneguzzo - avvocato 

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