Il materiale da riporto

20 Giu 2014
20 Giugno 2014

Nella sentenza del T.A.R. Lazio n. 618772014, il Collegio si sofferma anche sulla natura del materiale da riporto: “Per quanto attiene poi al tema del materiale da riporto (materiali eterogenei utilizzati per la realizzazione di riempimenti e rilevati, non assimilabili per caratteristiche geologiche e stratigrafiche al terreno in situ, all'interno dei quali possono trovarsi materiali estranei), esso era stato già oggetto di diversi interventi legislativi. L'art. 3, d.l. n. 2 del 2012, convertito in l. n. 28 del 2012 aveva sostanzialmente equiparato i riporti al suolo e, quindi, ad una matrice ambientale vera e propria non costituente rifiuto. L'Allegato 9 al D.M. n. 161/2012, poi, aveva introdotto specifiche condizioni per il riutilizzo dei riporti scavati, prevedendo che la componente antropica presente non possa essere superiore al 20%. Tale previsione costituisce oggetto delle censure di cui ai motivi 10 e 11 del ricorso.

Il terreno di riporto oggetto di scavo, per quanto qui d’interesse, prima dell’ulteriore intervento del legislatore del 2013, poteva essere gestito come sottoprodotto nei limiti di quanto previsto dal D.M. n. 161 del 2012.

Il d.l. n. 69 del 2013, più volte menzionato, è tuttavia, intervenuto sul punto, modificando sostanzialmente l'art. 3 del D.L. n. 2 cit..

La nuova formulazione dell'art. 3 è la seguente:

"1. Ferma restando la disciplina in materia di bonifica dei suoli contaminati, i riferimenti al "suolo" contenuti all'art. 185, commi 1, lett. b) e c), e 4, del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, si interpretano come riferiti anche alle matrici materiali di riporto di cui all'Allegato 2 alla Parte IV del medesimo decreto legislativo, costituite da una miscela eterogenea di materiale di origine antropica, quali residui e scarti di produzione e di consumo, e di terreno, che compone un orizzonte stratigrafico specifico rispetto alle caratteristiche geologiche e stratigrafiche naturali del terreno in un determinato sito e utilizzati per la realizzazione di riempimenti, di rilevati e di reinterri.

2. Ai fini dell'applicazione dell'art. 185, comma 1, lett. b) e c), del D.Lgs. n. 152 del 2006, le matrici materiali di riporto devono essere sottoposte a test di cessione effettuato sui materiali granulari ai sensi dell'art. 9 del decreto del Ministro dell'ambiente 5 febbraio 1998, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale 16 aprile 1998, n. 88, ai fini delle metodiche da utilizzare per escludere rischi di contaminazione delle acque sotterranee e, ove conformi ai limiti del test di cessione, devono rispettare quanto previsto dalla legislazione vigente in materia di bonifica dei siti contaminati.

3. Le matrici materiali di riporto che non siano risultate conformi ai limiti del test di cessione sono fonti di contaminazione e come tali devono essere rimosse o devono essere rese conformi al test di cessione tramite operazioni di trattamento che rimuovono i contaminanti o devono essere sottoposte a messa in sicurezza permanente utilizzando le migliori tecniche disponibili e a costi sostenibili che consentono di utilizzare l'area secondo la destinazione urbanistica senza rischi per la salute.

3 bis. Gli oneri derivanti dai commi 2 e 3 sono posti integralmente a carico dei soggetti richiedenti le verifiche ivi previste".

Al di là, dunque, dei dubbi interpretativi sulla portata della nuova disciplina legislativa, in ordine alla normativa applicabile nel caso in cui il riporto non risulti conforme al test di cessione, appare con evidenza che il dettato regolamentare gravato, ne risulta profondamente inciso”.

In ragione di ciò, ai materiali di riporto non si applica il limite percentuale massimo del 20% di materiali di origine antropica, né l’elenco delle tipologie di materiali inerti di origine antropica, previste dall’Allegato 9 al D.M. 161/2012.

dott. Matteo Acquasaliente

I materiali di estrazione

20 Giu 2014
20 Giugno 2014

Nella sentenza n. 6187/2014 i Giudici si soffermano sulla distinzione tra i materiali residui della lavorazione e quelli residui dell’estrazione. In particolare i Giudici hanno stabilito che i residui della “lavorazione” dei materiali lapidei, inclusi nella nozione di materiale da scavo, costituiscono un materiale diverso dai residui dell’“estrazione”, disciplinati con il piano rifiuti di cui al D.lgs. 117/2008: “L’ordinamento distingue, infatti, tra rifiuti delle industrie estrattive, di cui al d.lgs. n. 117 del 2008 e ss.mm.ii. in forza del quale è prevista per la gestione l’elaborazione di un piano di rifiuti e residui di lavorazione di materiali lapidei, per i quali il piano di utilizzo è disciplinato dall’art. 184 bis del d.lgs. 152 del 2006, come modificato dall’art. 41, comma 2, d.l. n. 69 del 2013 e dall’art. 8 bis, d.l. n. 43 del 2013, convertito con la l. n. 71 del 2013, nonché dal d.m. n. 161 in argomento.

L’art. 41 bis d.l. 69 del 2013 (“Decreto del Fare”), introdotto dalla l. di conversione n. 98 del 2013, ha innovato, peraltro, con riferimento alla dimensione dei cantieri – come precedentemente evidenziato - la precedente normativa di settore disponendo i requisiti e le condizioni per operare con le terre e rocce da scavo provenienti da attività o opere non soggette a valutazione d’impatto ambientale (VIA) o ad autorizzazione integrata ambientale (AIA)

dott. Matteo Acquasaliente

Il principio della certezza

20 Giu 2014
20 Giugno 2014

Infine, nella sentenza n. 6187/2014 il T.A.R. Lazio si sofferma sul principio della certezza nel riutilizzo dei materiali chiarendo che: “Secondo quanto già menzionato, infatti, il principio della ‘certezza’ dell’utilizzo dei materiali costituisce una delle condizioni prescritte dall’art. 184 bis, T.U. Ambiente. La norma regolamentare ne fa, dunque, corretta applicazione.

Sul punto vale ricordare quanto affermato dalla Suprema Corte in materia (sentenza n. 37508 del 2003), secondo la quale alla necessità che il prodotto sia riutilizzato si affianca, in linea con la giurisprudenza comunitaria, l’occorrenza che tale riutilizzo deve essere certo e non solo possibile.

Ed, ancora, la Corte di Cassazione penale Sez. III, richiamando il dettato dell’art. 14 della L. n. 178/2002 e la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europea ‘ Palyn Granit Oy C- 114/01’, ha affermato che, affinché “i rifiuti delle attività di demolizioni edili che costituiscono rifiuti speciali ai sensi dell’art. 7, comma 3, lett. b) del D. Lgs. 22/97, non vengano considerati rifiuti è necessario che vi sia certezza in ordine: a) alla individuazione del produttore e/o detentore dei beni e/o sostanze de quibus, b) alla provenienza degli stessi; c) alla sede ove sono destinati; d) al riutilizzo dei medesimi in ulteriore ciclo produttivo.

Tale principio risulta ribadito nella sentenza della Cassazione civile, Sez. I, 25 agosto 2006 n. 18556.

Più recentemente, peraltro, quanto alla qualificazione di ‘sottoprodotto’ la Corte di Cassazione penale, con la sentenza n. 17823 del 11 maggio 2012, ha escluso che i residui prodotti possano essere considerati sottoprodotti ove non ricorrono le condizioni stabilite nella definizione da rinvenirsi nell’art.184 bis del d.lgs. n. 152 cit..”.

 dott. Matteo Acquasaliente

Il Consiglio di Stato demolisce il TAR Veneto sugli oneri di sicurezza aziendale negli appalti di lavori

19 Giu 2014
19 Giugno 2014

Il Consiglio di Stato, sez. V, nella sentenza del 17 giugno 2014 n. 3056, riforma la sentenza del T.A.R. Veneto n. 299/2014 commentata nel post del 13 marzo 2014, affermando che, negli appalti di lavori, non vi è affatto l’obbligo di indicare gli oneri per la sicurezza aziendale a pena di esclusione.

Il Collegio smentisce tutte le motivazioni contenute nella sentenza di primo grado affermando che: “Ecco la parte che interessa: “2. In primo luogo, contrariamente a quanto rilevato dal TAR, il combinato disposto degli artt. 86-comma 3-bis, d.lgs. n. 163/2006 e 26, comma 6, d.lgs. n. 81/2008 non impone alle imprese partecipanti a procedure di affidamento di contratti pubblici di lavori l’obbligo, a pena di esclusione dalla gara, di indicare gli oneri per la sicurezza aziendale.

L’assunto si fonda su una non condivisibile esegesi della disposizione del codice dei contratti pubblici sopra citata, la quale recita testualmente: “Nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture.”.

Come correttamente evidenziato dal difensore della originaria controinteressata, ed a confutazione dei contrari rilievo della Mag Costruzioni, la norma si rivolge quindi, in primo luogo, agli enti aggiudicatori, imponendo loro, “nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte”, di effettuare uno specifico apprezzamento della congruità dei costi del lavoro e della sicurezza indicati dalle concorrenti nelle loro offerte.

Ciò del resto si evince dalla rubrica della disposizione: “criteri di individuazione delle offerte anormalmente basse”.

E’ del pari incontestabile che la medesima norma prevede che il costo in questione “deve essere specificamente indicato”, ma va precisato che tale indicazione è funzionale alla predetta verifica di congruità e dunque all’attuazione del precetto cui soggiacciono le stazioni appaltanti.

L’art. 86 va poi coordinato con il successivo art. 87 (“criteri di verifica delle offerte anormalmente basse”), il quale prevede, al comma 4, che “Nella valutazione dell’anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell’offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture.”. Il medesimo comma 4 dispone inoltre che “Non sono ammesse giustificazioni in relazione agli oneri di sicurezza in conformità all’articolo 131, nonché al piano di sicurezza e coordinamento di cui all’articolo 12, decreto legislativo 14 agosto 1996, n. 494 e alla relativa stima dei costi conforme all’articolo 7, d.P.R. 3 luglio 2003, n. 222”.

Quindi, dal complesso delle disposizioni in esame si ricava che le stazioni appaltanti sono tenute a verificare gli oneri per la sicurezza ai fini del giudizio di anomalia dell’offerta e, in stretta conseguenza di ciò, che le imprese sono tenute ad indicare nella loro offerta detta voce di costo.

3. Del pari, come già affermato da questa Sezione (sentenza n. 4964 del 9 ottobre 2013), le medesime norme operano una distinzione tra appalti di lavori da una parte e appalti di servizi e forniture dall’altra.

Infatti, il ridetto art. 87, comma 4, specifica il più generale ed onnicomprensivo comma 3-bis dell’art. 86, imponendo alle imprese - partecipanti a procedure di affidamento della seconda tipologia di contratti - di indicare nell’offerta “i costi relativi alla sicurezza”.

Per la prima tipologia di giustificazioni, per contro, il precetto è significativamente diverso, giacché esso vieta giustificazioni (e dunque ribassi) rispetto agli “oneri relativi alla sicurezza” già stimati dalla stazione appaltante nel piano di sicurezza e coordinamento dalla stessa predisposto ai sensi del richiamato art. 131.

Per contro, in nessuna parte di queste tali disposizioni è previsto che per gli appalti di lavori pubblici si debbano indicare nell’offerta i costi per la sicurezza aziendale.

E soprattutto, in nessuna parte è prevista la comminatoria di esclusione per l’omessa indicazione degli stessi: certamente non per gli appalti di lavori, per i quali vi è una rigorosa analisi dei costi in questione da parte della stazione appaltante nella fase della progettazione, in virtù di puntuali disposizioni del regolamento di attuazione di cui al d.p.r. n. 207/2010, come sottolinea l’appellante a pag. 9 dell’atto d’appello (e non rileva in questa sede verificare quale sia la soluzione nel caso di appalto di servizi e forniture).

All’interpretazione letterale finora svolta se ne salda una di carattere teleologico, la quale muove dalla circostanza che, come ampiamente visto finora, le disposizioni in esame regolano la verifica dell’anomalia dell’offerta.

Ne consegue che è in questa sede che l’obbligo di indicare (e giustificare) i costi per la sicurezza viene in rilievo, mentre risulta eccedente, rispetto al fine di consentire nella stessa sede tale verifica, pretendere che l’impresa provveda ad indicare i costi in questione già nella propria offerta.

3.1 Una diversa conclusione rispetto a quanto finora esposto non può essere ricavata nemmeno dall’art. 26, comma 6, d.lgs. n. 81/2008.

Quest’ultima disposizione è così formulata: “Nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture”.

Vi è certamente un’unificazione di disciplina per tutti gli appalti pubblici, ma il precetto in esso contenuto è rivolto ancora una volta agli “enti aggiudicatori”, ed è del pari indubbio che questa norma vada coordinata con gli artt. 86 e 87, le quali contengono disposizioni di maggiore dettaglio. Peraltro, ed a conferma di quanto ora detto, anche la norma in esame fa riferimento alla verifica dell’anomalia.

4. Non è condivisibile nemmeno il secondo passaggio argomentativo della sentenza di primo grado.

E’ certamente indiscutibile che tutte le norme di legge finora analizzate perseguono l’obiettivo di assicurare la tutela dei lavoratori e che tale fine trascende i contrapposti interessi delle stazioni appaltanti e delle imprese partecipanti a procedure di affidamento di contratti pubblici, rispettivamente di aggiudicare questi ultimi alle migliori condizioni consentite dal mercato, da un lato, e di massimizzare l’utile ritraibile dal contratto dall’altro.

Ma questo fine si può ampiamente realizzare attraverso l’obbligo per le stazioni appaltanti di effettuare una specifica valutazione della congruità del costo per la sicurezza, nella appropriata sede della verifica dell’anomalia dell’offerta.

4.1 Per contro, si rileva ingiustificatamente penalizzante per le imprese, e dunque per le esigenze della concorrenza che pure la legislazione sui contratti pubblici persegue, quello di sanzionare con l’esclusione dalla gara la mancata indicazione dei costi per la sicurezza aziendale.

E’ infatti palese la sproporzione tra obiettivi perseguiti e risultati realizzati, giacché - al fine di tutelare la sicurezza ed i connessi diritti dei lavoratori - si preclude all’impresa di concorrere per l’affidamento di contratti pubblici per il solo fatto di non avere esposto nell’offerta i relativi costi per la sicurezza aziendale, quand’anche gli stessi risultassero congrui nell’unica sede deputata a tale verifica.

5. Ne consegue che perde rilievo la ipotizzata valenza eterointegratrice delle ridette disposizioni di legge nei confronti della normativa di gara, laddove cioè la prima sia interpretata nel senso finora esposto.

Peraltro, del potere di eterointegrazione deve essere fatto un uso accorto.

Come infatti di recente sottolineato dalla III Sezione di questo Consiglio di Stato, l’inserzione automatica di clausole prevista dall’art. 1339 cod. civ., in cui si sostanzia il meccanismo in questione, in tanto si giustifica in quanto occorra conformare il contenuto delle obbligazioni e di diritti nascenti da contratti già conclusi con esigenze di ordine imperativo non disponibili dai contraenti (sentenza, 2 settembre 2013, n. 4364).

Alla luce di questa considerazione, rispondente ad incontestati principi di teoria generale di diritto, è assai dubbia la operatività del meccanismo in questione nei confronti di aspetti che concernono lo svolgimento della procedura selettiva ed in particolare le modalità con cui le imprese formulano la loro offerta.

In un’altra recente decisione, la III Sezione ha anche affermato che l’eterointegrazione del bando di gara è configurabile in presenza di norme imperative recanti una rigida predeterminazione dell'elemento destinato a sostituirsi alla clausola difforme, ma non già nei casi in cui alle parti siano affidati la determinazione del corrispettivo e dei suoi elementi (sentenza 18 ottobre 2013, n. 5069). In questa pronuncia la III Sezione è quindi giunta alla conclusione, opposta a quella cui è pervenuto il TAR nella sentenza qui appellata, secondo cui è legittima la clausola del bando di gara che semplifichi le modalità di manifestazione dell’offerta economica relativamente agli oneri di sicurezza, in difformità agli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, d.lgs. n. 163/2006.

6. Che del potere di eterointegrazione debba essere fatto un uso accorto si trae conferma anche dal consolidato indirizzo della giurisprudenza amministrativa secondo cui la legge di gara deve essere interpretata secondo le regole dettate dagli artt. 1362 e ss. cod. civ., alla stregua dei quali si deve comunque attribuire valore preminente all’interpretazione letterale, in coerenza con i principi di chiarezza e trasparenza ex art. 1 l. n. 241/1990, mentre devono essere escluse interpretazioni integrative contrarie al canone della buona fede interpretativa di cui all’art. 1366 cod. civ. (C.d.S., Sez. III, 2 settembre 4364; Sez. V, 21 dicembre 2012, n. 6615, 5 settembre 2011, n. 4980).

In particolare non sono consentite interpretazioni volte ad enucleare significati impliciti nella normativa di gara, potenzialmente in grado quindi di ledere l’affidamento dei terzi e la massima partecipazione alla gara (C.d.S., Sez. V, 13 gennaio 2014, n. 72, 16 gennaio 2013, n. 238, 7 gennaio 2013, n. 7, 31 ottobre 2012, n. 5570).

In questa linea si colloca quindi la regola secondo cui la buona fede e l’affidamento - che le imprese partecipanti a procedure di affidamento di contratti pubblici circa la necessità di rispettare le clausole della normativa di gara - non devono risolversi in loro danno, attraverso l’esclusione dalla gara (Sez. V, 24 ottobre 2013, n. 5155).

6.1 Tale indirizzo è pertinente al caso di specie, in cui la stazione appaltante non aveva preteso la specificazione dei costi per la sicurezza aziendale in sede di offerta, ed è confermato dal fatto che, tranne la ricorrente di primo grado, tutte le imprese concorrenti alla procedura in contestazione non hanno indicato nella propria offerta i costi aziendali per la sicurezza.

7. Alla luce di quanto finora osservato, perde di rilievo l’ultimo argomento addotto dal TAR a sostegno della propria decisione, e cioè che il piano di sicurezza e coordinamento predisposto dalla stazione appaltante ex art. 131 d.lgs. n. 163/2006 concerne i soli oneri da interferenza e non già i costi aziendali.

Questa corretta asserzione non è infatti idonea a superare i rilievi sopra svolti. Giova infatti ribadire che è nella pertinente sede del sub-procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta che la seconda tipologia di oneri possono essere apprezzati dalla stazione appaltante, senza tuttavia che questo doveroso accertamento debba necessariamente presupporre l’indicazione di tale voce di costo già nell’offerta.

7.1 L’assunto, peraltro, non trova rispondenza nel dato normativo, come ben evidenziato dal difensore della Atheste Costruzioni nella discussione.

A differenza dei servizi e delle forniture, gli appalti di lavori importano la necessità di istituire “cantieri temporanei o mobili” ai sensi del titolo IV del testo unico di cui al d.lgs. n. 81/2008 (in precedenza d.lgs. n. 494/1996), concetto sulla cui base la disciplina giuslavoristica concernente la sicurezza sul lavoro si è sviluppata, attraverso numerosi istituti, tra cui il piano di sicurezza e coordinamento previsto dagli artt. 100 del citato testo unico sulla sicurezza sul lavoro e 131 cod. contratti pubblici.

E’ dunque in conseguenza dei rischi per la sicurezza derivanti dalla installazione e gestione del cantiere nel quale i lavori sono destinati ad essere svolti che sorge la necessità, in primo luogo, che la stazione appaltante provveda alla stima dei costi delle misure necessarie alla loro prevenzione di tali rischi, e, in seconda battuta, che l’impresa esecutrice dei lavori impieghi all’uopo i mezzi e le risorse previste a questo scopo.

A comprova di ciò va rilevato che l’art. 39 d.p.r. n. 207/2010 demanda al piano di sicurezza e coordinamento (con i documenti ad esso allegati), come integrato dalle indicazioni dell’aggiudicataria ex art. 131, comma 4, cod. contratti pubblici, l’intera problematica degli oneri per la sicurezza.

La citata disposizione prevede infatti che il piano in questione “deve prevedere l’individuazione, l’analisi e la valutazione dei rischi in riferimento all’area e all’organizzazione dello specifico cantiere, alle lavorazioni interferenti ed ai rischi aggiuntivi rispetto a quelli specifici propri dell’attività delle singole imprese esecutrici o dei lavoratori autonomi” (comma 2).

Questa disposizione, oltre a spiegare la diversa disciplina contenuta nel sopra esaminato art. 87, comma 4, d.lgs. n. 163/2006, rende evidente che per i lavori pubblici ogni questione inerente la congruità degli oneri per la sicurezza non costituisce requisito di validità delle offerte la cui mancanza ne determina l’esclusione”.

Che sia questa la fine della vexata questio?

Dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 3056 del 2014

La sanzione di cui all’art. 15 della L. n. 1497/1939 (ora 167 del d.lgs. n. 42 del 2004) prescinde dall’esistenza di un vero e proprio danno ambientale

19 Giu 2014
19 Giugno 2014

La questione è esaminata dalla sentenza del TAR Veneto n.   709 del 2014.

Si legge nella sentenza: "2.2 Costituisce orientamento consolidato che l’applicazione della sanzione di cui all’art. 15 della L. n. 1497/1939 prescinde dall’esistenza di un vero e proprio danno ambientale e, ciò, in considerazione della sua natura di “sanzione amministrativa” e non risarcitoria (sul punto si veda Cons. Giust. Amm. Sic., 26-08-2013, n. 718).

2.3 Si è, infatti, affermato (T.A.R. Lazio Roma Sez. II bis, 08-07-2013, n. 6710) che “l'art. 15, l. n. 1497 del 1939 (divenuto poi l'art. 164 del d.lgs. n. 490 del 1999, ed oggi l'art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 - Codice dei beni culturali) va interpretato nel senso che l'indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno) e che come tale prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale".

2.4 E’ allora evidente che l’inesistenza di un pregiudizio per l’ambiente, disposta con il decreto del 21 Settembre 1993, ha l’effetto di escludere l’applicabilità della sola sanzione della demolizione, risultando al contrario atto dovuto il provvedimento di erogazione della sanzione sopra precisata.

2.5 Non va, in ultimo, condivisa nemmeno l’argomentazione diretta a distinguere le opere soggette a condono edilizio dalle ulteriori opere oggetto di richiesta di sanatoria ai sensi dell’art. 13 della L. n. 47/1985, distinzione che in base all’interpretazione di parte ricorrente  consentirebbe di circoscrivere l’applicabilità delle sanzioni paesaggistiche solo alle ipotesi suscettibili di essere condonate.

2.6 La semplice lettura del disposto di cui all’art. 15 sopra citato consente di smentire le tesi di parte ricorrente e, nel contempo, di
evincere il carattere autonomo dello stesso art. 15 rispetto ai procedimenti di autorizzazione in sanatoria delle opere edilizie.
L’esistenza di detto carattere autonomo comporta che l’erogazione della sanzione in questione non può risultare in qualche modo condizionata dal venire in essere di un precedente provvedimento di sanatoria.

2.7 La necessità di ottemperare ad una preminente tutela del paesaggio implica che anche l’emanazione di un’autorizzazione ambientale postuma, presupposto per il perfezionamento della sanatoria edilizia di cui all’art. 13 della L. n. 47/1985, non faccia venir meno il potere dell’Amministrazione competente di sanzionare condotte nell’ambito delle quali si erano realizzati manufatti in mancanza delle necessarie autorizzazioni.

2.8 Sul punto va, al contrario, ritenuto applicabile un altrettanto costante orientamento giurisprudenziale nella parte in cui ha previsto che (Cons. Stato Sez. IV, 26-11-2013, n. 5615) “in presenza di abusi edilizi l'oblazione di cui agli artt. 31 ss., l. 28 febbraio 1985 n. 47, e l'indennità prevista dall'art. 15, l. 29 giugno 1939 n. 1497, trovano disciplina in normative differenti che delineano procedimenti autonomi nei quali intervengono differenti autorità titolari di interessi finalizzati alla tutela dell'ambiente.  (Conferma della sentenza del T.a.r. Campania - Napoli, sez. VII, n. 1881/2008)".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 709 del 2014

Come costruire una moschea col piano casa

18 Giu 2014
18 Giugno 2014

Della particolare questione si occupa la sentenza del TAR Veneto n. 707 del 2014, dove si legge che: "l’intervento richiesto riguarda il mutamento di destinazione d’uso del primo piano, lasciando una sola unità abitativa e trasformando le tre restanti in attività di terziario, oltre a realizzare un corpo aggiunto composto da due locali, questi ultimi destinati a “sala riunione e sala specifica per luogo di preghiera e convegni”.

2.2 Sull’analisi dell’istanza presentata, dei rispettivi allegati, va rilevato come non sia possibile condividere l’argomentazione del Comune di Fonzaso nella parte in cui pone a fondamento del diniego la circostanza in base alla quale che “la normativa sul piano casa (L. Reg. 14 del 2009 e successive modifiche ed integrazioni) presuppone la preesistenza di un volume ampliabile avente destinazione conforme all’incremento costruttivo che si intende realizzare….”.

A parere del Comune il volume aggiuntivo avrebbe una destinazione differente da quello preesistente e, ciò, considerando come l’immobile preesistente era destinato oltre che ad una funzione commerciale anche ad un attività di servizio terziaria.

2.3 Al contrario di quanto sostenuto dall’Amministrazione deve ritenersi che la destinazione dell’ampliamento di cui si tratta è conforme alla destinazione ammessa dalle norme di attuazione del PRG, nella parte in cui queste ultime con riferimento alla zone D2 ammettono  insediamenti “artigianali di servizio, commerciali, direzionali, …servizi pubblici o di svago”.

2.4 E’, infatti, evidente che il riferimento all’ammissibilità di strutture “direzionali” deve ritenersi quanto meno compatibile con l’utilizzo prospettato dai ricorrenti in quanto riferito alla realizzazione di sale riunioni da utilizzare per convegni e preghiere.

2.5 Anche laddove non si ritenga esattamente integrato il disposto di cui alla zona D2, va rilevato come l’utilizzo prospettato risulti comunque compatibile con la qualificazione dell’area quale “zona di artigianato di Servizio e servizi alla viabilità” e, ciò, anche considerando come non sussistano differenze, dal punto di vista degli standards urbanistici, tra gli utilizzi commerciali o per riunioni così come prospettati nell’istanza di cui si tratta.

2.6 Risulta altrettanto dirimente constatare, ai fini dell’accoglimento del ricorso di cui si tratta, come l’art. 9 comma 2 n. 14/2009 edifici “consente la modifica di destinazione d’uso degli edifici” purchè “la nuova destinazione sia consentita dalla disciplina edilizia di zona”. La disciplina sopra citata permette, pertanto, qualsiasi mutamento di destinazione d’uso purchè quest’ultimo sia compatibile con le disposizioni urbanistiche, circostanza quest’ultima individuabile nel caso di specie e sulla base delle considerazioni sopra citate.

3. Nemmeno è possibile condividere le argomentazioni di cui alla memoria difensiva del Comune di Fonzaso, laddove si sostiene come il Comune abbia inteso valutare la costruzione nel suo complesso, in quanto diretta a realizzare un centro islamico e una moschea.  Sul punto va ricordato come il rilascio di un permesso di costruire implichi l’esercizio di un’attività vincolata, strettamente correlata all’esame della documentazione prodotta dalla parte istante, attività che non consente all’Amministrazione comunale di dedurre eventuali utilizzi non prospettati nell’istanza di cui si tratta.

4. E’ parimenti evidente che l’esercizio di detta attività vincolata sia strettamente correlato al permanere di quei poteri di poteri di vigilanza e controllo sul territorio di cui all’art. 27 del Dpr 380/2001 propri della stessa Amministrazione a cui evidentemente compete verificare che l’esecuzione delle opere sia conforme all’istanza eventualmente assentita".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 707 del 2014

Qual è la differenza tra il bed and breakfast e l’attività di affittacamere?

18 Giu 2014
18 Giugno 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. II, nella sentenza del 22 maggio 2014 n. 714 si occupa della distinzione tra il bed and breakfast e l’attività di affittacamere, chiarendo che: “2.2 Sono, infatti, intuitive, oltre che correlate alla diversa normativa di riferimento, le differenze tra l’attività di bed and breakfast, compatibile con la destinazione abitativa e ammessa anche nelle zone E, e quella di affittacamere.

2.3 La prima è normata dalla L.r.V. n. 11/2013, che all'art. 31, quarto comma precisa che il bed and beakfast è compatibile con una destinazione abitativa dell’area in cui incide e ciò, in considerazione del fatto che in detta attività l’esercente conserva la residenza presso l'immobile in cui la stessa è ubicata.

2.4 A diversi presupposti si riconduce l’attività di affittacamere che, in quanto avente caratteristiche assimilabili alle strutture turistico ricettive, deve ritenersi non compatibile con la destinazione dell’area.

2.5 Analogamente deve ritenersi altrettanto peculiare l’attività agrituristica che, con l’attività di affittacamere, ha l’unico elemento in comune di poter essere dotata di posti letto destinati all'ospitalità, ma anch’essa risponde ad esigenze e ad un quadro normativo sostanzialmente differente.

2.6 La possibilità di esercitare l'azienda agrituristica è, infatti, strettamente connessa alla destinazione agricola della zona, attività che in quanto definita dall'art. 2 della Legge Reg. V. n. 28/2012 come "connessa al settore primario", può essere svolta ai sensi del successivo art. 3 da "imprenditori agricoli" che "utilizzano la propria azienda agrituristica in rapporto di connessione con l'azienda agricola" e che, nel contempo, "assicurano la prevalenza delle attività agricole rispetto a quelle agrituristiche".

2.7 Ne consegue come non risulti evincibile alcuna illogicità nella scelta operata dall'Amministrazione di escludere lo svolgimento di affittacamere in un’area agricola in quanto il Comune di Venezia si è limitato a prendere atto della differenti caratteristiche delle attività sopra citate, disciplinandone l’ubicazione sul territorio solo su determinate aree.

2.8 E’ allora evidente la legittimità di una disciplina comunale che ha inteso diversificare le tipologie di attività riconducibili ai bed and breakfast e all’affittacamere e, ciò, nell’esigenza di consentire un uso razionale del territorio”.

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza TAR Veneto 714 del 2014

Quando il TAR è competente in materia di usi civici?

18 Giu 2014
18 Giugno 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. II, nella sentenza del 22 maggio 2014 n. 711 chiarisce in quali casi, in materia di usi civici, sia competente il Giudice Amministrativo a scapito del Commissario Regionale degli usi civici: “1.1 Sul punto va ricordato che la Suprema Corte, in più di una pronuncia (per tutti si veda Cass. Sez. Unite n. 3031 del 01-03-2002), ha rilevato come la giurisdizione del Commissario Regionale degli usi civici deve essere individuata nelle ipotesi in cui la controversia sia diretta ad accertare l’esistenza di un uso civico e, ciò, in ossequio a quanto previsto dall'art. 29 della Legge 16 giugno 1927, n. 1766.

1.2 Si è, altresì, accertato (Cass. civ. Sez. Unite Ord., del 02-12-2008, n. 28541) che “in tema di giurisdizione, l'impugnazione del provvedimento con cui la regione abbia respinto l'istanza diretta ad ottenere, secondo la previsione di apposita legge regionale la ricostituzione di una "regola" – alla proprietà collettiva spettante ai discendenti di una comunità familiare di antica data -, non è devoluta alla giurisdizione del Commissario per la liquidazione degli usi civici, poiché non è in contestazione tra le parti che i terreni siano stati riconosciuti come gravati da diritti promiscui di godimento ai sensi della legge 16 giugno 1927 n. 1755 (riordino degli usi civici), tantomeno a quella del Giudice ordinario siccome competente in materia di riconoscimento della personalità giuridica di diritto privato. Essendo, infatti, oggetto del giudizio la ricostituzione della "regola", che la legge prevede e subordina ad un provvedimento autoritativo, discrezionale e costitutivo, a fronte del quale si pone l'interesse legittimo dell'istante, la giurisdizione spetta al Giudice amministrativo”.

1.3 La fattispecie ora sottoposta al presente Collegio, analoga a quella della pronuncia sopra citata, concerne proprio l’impugnazione di delibere che hanno disposto il riordino e l’introduzione di una nuova disciplina degli usi civici.

1.4 La titolarità da parte dei ricorrenti va ricondotta, allora, all’esistenza (anche se solo presunta) di una concessione amministrativa implicita, diretta a consentire l’utilizzo dei beni demanio civico.

1.5 Non è indubbio, infatti, che esista (quanto meno in astratto) un diritto di uso civico insistente sui manufatti in questione, ma costituisce un dato altrettanto oggettivo che le delibere ora impugnate siano dirette ad introdurre una nuova disciplina degli usi di cui si tratta, disciplina che inevitabilmente, e seppur incidentalmente, ha l’effetto di incidere sugli utilizzi attualmente posti in essere da parte dei soggetti che all’atto della proposizione del ricorso avevano la disponibilità dei beni di cui si tratta.

1.6 L’emanazione delle delibere impugnate è evidentemente espressione di un potere amministrativo che, in quanto tale, è potenzialmente diretto a ledere tutti coloro che esercitano un possesso o un qualche potere su detti manufatti e, ciò, a prescindere dall’accertamento della circostanza se detto possesso sia (o meno) legittimo e se, ancora, detto diritto sia esistente nei confronti degli attuali ricorrenti.

1.7 Ciò premesso, e pur considerando come gli stessi ricorrenti abbiano richiesto a questo Tribunale una pronuncia diretta ad accertare il diritto all’utilizzo dei beni in questione, va rilevato come detta richiesta di accertamento non è di ostacolo alla valutazione della legittimità degli atti impugnati, circostanza quest’ultima che consente di prescindere dall’accertamento sopra citato in quanto diretto ad incidere sulla Giurisdizione del Commissario agli Usi Civici.

1.8 Si consideri, in ultimo, come a dette conclusioni sia pervenuto anche detto ultimo Commissario Regionale che nel giudizio attivato dal Comune di Enego, e finalizzato ad ottenere la reintegra del possesso dei cassonetti di cui si tratta, ha ritenuto di sospendere il relativo processo nell’attesa delle determinazioni di questo Tribunale in merito ai provvedimenti ora impugnati e, ciò, considerando come i ricorrenti avevano opposto alla pretesa restitutoria del Comune l’esistenza del rapporto concessorio di cui ora si controverte.

2. Ne consegue come sussista la giurisdizione di questo Tribunale applicandosi sul punto quanto previsto dall’art. 133 comma 1 lett. b) del Codice del processo Amministrativo nella parte in cui devolve a questo stesso Tribunale la competenza a decidere le controversie in materia di concessione di beni del demanio civico.

3. Sussiste la giurisdizione di questo Tribunale anche per quanto attiene la delibera n. 33 del 20/10/2002 (impugnata con i primi motivi aggiunti) con la quale il Comune, oltre a respingere le osservazioni dei ricorrenti, ha ritenuto di non far luogo al procedimento di “legittimazione” ai sensi dell’art. 9 della L.n. 1766/1927, procedimento la cui attivazione era stata richiesta dagli attuali ricorrenti.

3.1 Costituisce, infatti, espressione di un orientamento consolidato quello che consente di individuare la giurisdizione del Giudice Amministrativo laddove si sia in presenza di un diniego di legittimazione, risultando esistente un interesse legittimo del privato all’annullamento degli atti conclusivi del procedimento.

3.2 Come ha precisato un ulteriore pronuncia (Cass. civ. Sez. Unite, 08-08-1995, n. 8673)..” nella fase anteriore alla concessione della legittimazione, sia l'occupante abusivo, sia colui che si opponga all'emanazione di tale provvedimento, eccependo che da esso derivi la lesione di un proprio diritto sul bene, sono titolari soltanto di interessi legittimi, essendo la legittimazione espressione del potere discrezionale dell'Amministrazione pubblica. È con l'approvazione della concessione di legittimazione, …. che l’occupante acquista su di esso un diritto soggettivo, di natura reale, la cui tutela è devoluta all'autorità giudiziaria ordinaria, mentre il privato, il quale denunzi che l'atto amministrativo di concessione abbia leso la propria situazione soggettiva, resta portatore di un interesse legittimo, azionabile dinanzi al giudice amministrativo (Cassazione sent. n. 6916 del 1983)”.

3.3 Detto orientamento è, peraltro, confermato da ulteriori pronunce del Giudice Amministrativo (Consiglio di Stato Sez. VI, sent. n. 291 del 05-05-1987) che hanno evidenziato come al procedimento di legittimazione di occupazione di terre gravate da uso civico, previsto dagli artt. 9 e 10 della legge 16 giugno 1927 n. 1766, si deve riconoscere natura amministrativa”.

 Affermata la propria competenza, il Collegio si sofferma sui presupposti, ex art. 7 l. n. 1977/1927, per legittimare l’occupazione delle terre gravate da un uso civico: “7. Analogamente da respingere è il terzo motivo nell’ambito del quale si asserisce che il Comune di Enego avrebbe rigettato le argomentazioni delle parti ricorrenti, in merito alla presunta esistenza dei requisiti per dare corso alla “legittimazione” delle aree di cui all’art. 9 della L. n. 1766/1927, utilizzando una motivazione meramente apodittica, diretta ad evidenziare che nella fattispecie in questione non sussistevano le condizioni di cui all’art. 9 sopra citato.

7.1 Con riferimento a detta censura va ricordato che l’art. 9 sopra citato nel disciplinare l’istituto della legittimazione, ne circoscrive gli effetti alla presenza di specifici presupposti, in particolare riconducibili alla circostanza che l’utilizzatore del bene abbia portato ai terreni “sostanziali e permanenti migliorie”.

7.2 Sul punto va rilevato come risulti accertato che l’utilizzazione dei beni effettivamente posta in essere doveva considerarsi differente rispetto a quella agricola, in quanto realmente finalizzata a realizzare un uso turistico ricreativo.

7.3 Si consideri, ancora, come non sia stata data alcuna prova che le migliorie realizzate siano correlate all’uso agricolo del bene e, in ciò, contraddicendo un costante orientamento giurisprudenziale (Cons. di stato Sez. VI, sent. n. 1379 del 14-10-1998) nella parte in cui ha sancito che “le sostanziali e permanenti migliorie previste dall'articolo 9 della legge 16 giugno 1927 n. 1766 come presupposto necessario alla legittimazione dell'occupazione di terreni gravati da uso civico devono consistere in opere finalizzate alla coltivazione o comunque allo sfruttamento agricolo e zootecnico del suolo e alla soddisfazione dell'interesse agrario della collettività in misura tale da non richiedere il ricorso alla reintegra”.

7.4 Nemmeno risulta dimostrato il rispetto della seconda condizione proposta dall’art. 9 della L. n. 1766 del 1927 per procedere alla “legittimazione” dei beni di cui si tratta nella parte in cui richiede che “la zona occupata non interrompa la continuità del demanio civico” e, ciò, considerando l’utilizzo attuale posto in essere dagli attuali ricorrenti e sopra ricordato.

La censura è, pertanto, da respingere”. 

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza TAR Veneto 711 del 2014

Non è necessario notificare il ricorso al TAR allo sportello unico per l’edilizia

18 Giu 2014
18 Giugno 2014

Della questione si occupa la sentenza del TAR Veneto n. 707 del 2014, in relazione a un diniego di permesso di costruire.

Si legge nella sentenza: "1. In primo luogo è necessario esaminare l’eccezione preliminare di irritualità del ricorso per mancata notifica alla Comunità Montana Feltrina, eccezione quest’ultima che deve ritenersi infondata.                                                        1.1 Come conferma, seppur indirettamente, la stessa Amministrazione comunale tra le funzioni prioritarie dello sportello unico, così come precisate dall’art. 5 del Dpr n. 380/2001, è possibile individuare lo svolgimento di compiti istruttori e di ausilio ai Comuni nell’adozione del provvedimento conclusivo e, ciò, con finalità di semplificazione procedimentale ed organizzativa.                        1.1 E’, altresì, noto che l’art. 41 del Codice del Processo Amministrativo prevede che “qualora sia proposta azione di annullamento il ricorso deve essere notificato, a pena di decadenza, alla pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato”.                         1.2 L’infondatezza dell’eccezione sopra citata risulta evidente laddove si consideri che il provvedimento definitivo di diniego ora impugnato, unitamente al preavviso di rigetto di cui all’art. 10 bis della L. n. 241/90, è stato emanato direttamente dal Comune di Fonzaso ora costituito in giudizio.                                                                                                                                                     1.3 Allo stesso Comune sono state inoltrate le osservazioni predisposte da parte ricorrente a seguito del preavviso di diniego che, a loro volta,  sono state contro dedotte, sempre dall’Amministrazione comunale, nel provvedimento di diniego ora impugnato. Ne consegue come sia possibile respingere l’eccezione sopra citata".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 707 del 2014

 

Stati generali della concorrenza e del libero mercato nei servizi pubblici di gestione dei rifiuti

18 Giu 2014
18 Giugno 2014

Confindustria veneto organizza per il giorno 27 giugno 2014 a Padova un workshop dal titolo: "Stati generali della concorrenza e del libero mercato nei servizi pubblici di gestione dei rifiuti".

La partecipazione è gratuita, ma è richiesta l'iscrizione, come da modulo allegato.

stati generali della concorrenza

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