L’aggiudicazione tacita non equivale a quella definitiva

22 Mag 2014
22 Maggio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 14 maggio 2014 n. 632, si occupa di alcune questioni relative all’aggiudicazione provvisoria: “considerato che è infondata la prima censura con la quale parte ricorrente afferma la violazione dell’art. 12 del codice dei contratti per avere la stazione appaltante revocato il provvedimento di aggiudicazione provvisoria quando, essendo spirato il termine perentorio di trenta giorni dalla sua adozione, si era già formalizzata l’aggiudicazione definitiva: l’inutile decorso del termine (di trenta giorni, qualora non diversamente previsto) indicato nell’art. 12, I comma del codice comporta non già l’aggiudicazione definitiva, ma soltanto l’approvazione dell’aggiudicazione provvisoria della gara (adempimento, questo, che ai sensi dell’art. 11, V comma, è preliminare all’adozione del provvedimento finale di aggiudicazione definitiva): in altre parole, scaduto il termine di trenta giorni dall’aggiudicazione provvisoria, quest’ultima, in difetto di un provvedimento espresso, si ha per approvata tacitamente, e l’aggiudicatario provvisorio può esigere, chiedendola formalmente, l’emissione del provvedimento di aggiudicazione definitiva, quale atto conclusivo della procedura concorsuale (cfr. CdS, III, 16.10.2012 n. 5282; IV, 26.3.2012 n. 1766; TAR Veneto, I, 8.2.2013 n. 178);

che ha pregio nemmeno l’ulteriore motivo con cui l’interessata assume l’illegittimità della revoca per violazione della legge n. 241/1990, in quanto disposta senza contraddittorio. L’adottato provvedimento si qualifica non già come revoca in senso tecnico - l'aggiudicazione provvisoria è, infatti, atto endoprocedimentale, instabile e ad effetti interinali -, ma come mera, mancata conclusione della procedura concorsuale per riscontrata carenza dei requisiti di moralità in capo al legale rappresentante dell’aggiudicataria provvisoria: non si tratta, dunque, di un nuovo procedimento che necessita del contraddittorio con l’interessato (come, invece, nell’ipotesi di revoca dell’aggiudicazione definitiva divenuta efficace), ma della fase conclusiva – il diniego di aggiudicazione definitiva, in questo caso (e la contestuale aggiudicazione all’impresa seconda graduata) - del medesimo procedimento azionato dalla parte con la domanda di partecipazione alla gara (cfr., ex multis, CdS, III, 11.7.2012 n. 411)”.

Nella stessa sentenza il Collegio, con specifico riferimento alla causa di esclusione ex art. 38, c. 1, lett. c) del Codice Appalti, affronta il rapporto tra il sindaco giurisdizionale ed i poteri discrezionali dell’Amministrazione “che, analogamente, non può condividersi il terzo rilievo con cui la ricorrente contesta il giudizio di valore reso dalla stazione appaltante in ordine al reato commesso dal legale rappresentante della ditta aggiudicataria, ritenuto grave ed incidente sulla moralità professionale e, dunque, tale da comportare l’esclusione della concorrente ai sensi dell’art. 38, I comma, lett. c) del codice. I provvedimenti emanati nell’esercizio del potere discrezionale tecnico della pubblica Amministrazione – tra i quali rientrano a pieno titolo quelli che con adeguata e congrua motivazione valutano l'idoneità del reato ad integrare la causa di esclusione dalla gara - sono sindacabili dal giudice amministrativo per vizi di legittimità e non di merito, nel senso che non è consentito al giudice amministrativo esercitare un controllo c.d. di tipo "forte" sulle valutazioni comunque opinabili, che si tradurrebbe nell'esercizio da parte del giudice di un potere sostitutivo spinto fino a sovrapporre la propria valutazione a quella dell'Amministrazione. È ben vero che l'esercizio della discrezionalità non è di per sè idoneo a determinare l'affievolimento dei diritti soggettivi di coloro che dal provvedimento amministrativo siano eventualmente pregiudicati, ma è anche vero che il ricorso a criteri discrezionali conduce sovente ad un ventaglio di soluzioni possibili, destinato inevitabilmente a risolversi in un apprezzamento non privo di un certo grado di opinabilità: in situazioni di tal fatta il sindacato del giudice, essendo pur sempre un sindacato di legittimità e non di merito, è destinato ad arrestarsi al limite oltre il quale la stessa opinabilità dell'apprezzamento operato dall'Amministrazione impedisce d'individuare un parametro giuridico che consenta di definire quell'apprezzamento illegittimo. Con la conseguenza che compete al giudice di vagliare la correttezza dei criteri, la logicità e la coerenza del ragionamento e l'adeguatezza della motivazione con cui l'Amministrazione ha supportato le proprie valutazioni. In altre parole, quando il giudizio presenta apprezzamenti che presuppongono un oggettivo margine di opinabilità, il sindacato giurisdizionale, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica che quel medesimo provvedimento non abbia esorbitato dai margini di opinabilità sopra richiamati, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell'Amministrazione che si sia mantenuta entro i suddetti margini. Si tratta di limiti che perimetrano in termini chiari, puntuali e ineludibili l'ambito entro il quale il giudice amministrativo può svolgere il proprio compito, che, avendo – come si è detto - ad oggetto la verifica della regolarità del procedimento, non gli consente in alcun caso di sovrapporre il proprio convincimento a quello espresso dall'organo a ciò deputato. Ciò premesso – e precisato che l'espressione "in danno dello Stato o della Comunità" non si riferisce a tipologie di reato qualificate, ma va letta nel più ampio contesto della fattispecie indicata alla lettera c): una simile restrizione, infatti, non si evince né dalle direttive comunitarie né dall'ordinamento penale italiano, che non contempla una categoria di reati in danno dello Stato o della Comunità; pertanto, indipendentemente dallo specifico oggetto giuridico della singola norma incriminatrice, deve trattarsi di reati idonei a creare allarme sociale rispetto ad interessi di natura pubblicistica -, e passando all'esame della fattispecie concreta oggetto del presente giudizio, il Collegio ritiene che la valutazione di gravità (ove vengono presi in esame tutti gli elementi che possono incidere negativamente sul vincolo fiduciario quali, ad esempio, l'elemento psicologico, l'epoca e la circostanza dei fatti, il tempo trascorso dalla condanna, il bene leso dal comportamento delittuoso, in relazione anche all'oggetto ed alle caratteristiche dell'appalto), e l’incidenza dei due reati commessi (utilizzo di un lavoratore extra comunitario privo di permesso di soggiorno e falso in atto pubblico) sulla moralità professionale del rappresentante legale dell’impresa (in quanto manifestano una radicale contraddizione con i principi deontologici della professione), effettuata dall’Amministrazione, non possa che riconoscersi congruamente motivata in relazione, appunto, ai palesati elementi dell’epoca (recente) della risalenza dei fatti per i quali è stato condannato, delle peculiarità del caso concreto, del peso specifico dei reati ascritti e della prestazione che la ditta aggiudicataria deve espletare”.

 dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 632 del 2014

Considerazioni sulla determinazione dell’AVCP n. 3 del 23 aprile 2014 in materia di concordato preventivo

21 Mag 2014
21 Maggio 2014

Considerazioni di prima lettura in ordine alla determinazione dell’AVCP n. 3 del 23 aprile 2014 “Criteri interpretativi in ordine alle disposizioni contenute nell’art. 38, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 163/2006 afferenti alle procedure di concordato preventivo a seguito dell’entrata in vigore dell’articolo 186-bis della legge fallimentare (concordato con continuità aziendale)”.

Con la determinazione n. 3, del 23 aprile 2014, l’AVCP ha fornito linee interpretative aggiornate in ordine alle ripercussioni della nuova disciplina del concordato preventivo sulla qualificazione degli operatori economici nel settore dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. Il nuovo provvedimento distingue tra concordato preventivo ordinario o "liquidatorio" e concordato preventivo "con continuità aziendale" e si occupa, altresì, degli effetti sulla disciplina degli appalti pubblici della domanda di concordato "in bianco".

 Il provvedimento dell’AVCP parte dalla constatazione che le precedenti indicazioni operative, contenute nel Comunicato alle SOA n. 68, del 29 novembre 2011, debbono ritenersi superate alla luce della sopravvenuta riforma dell’istituto del concordato preventivo, introdotta nel corpo della legge fallimentare (Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267) dal decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, oltreché dalla coeva modifica dell’art. 38, comma 1, lett. a), del Codice dei contratti pubblici.

Premessa

Dalla “riforma” operata nel 2012 ed integrata dal c.d. decreto “destinazione Italia” (art. 13, comma 11-bis, del D.L. 23 dicembre 2013, n. 145, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2014, n. 9, emergono i seguenti tratti salienti dell’istituto del concordato preventivo, rilevanti ai fini della disciplina della qualificazione degli operatori economici ad operare nel mercato dei contratti pubblici, della relativa capacità di partecipare alle procedure di affidamento di tali contratti e della sorte dei contratti in corso di esecuzione.

Distinzione tra concordato preventivo “con continuità aziendale” e concordato puramente “liquidatorio”

Il primo, introdotto dall’art. 186-bis della legge fallimentare, si ha quando il piano concordatario prevede la prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore, oppure la cessione o il conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione. Il secondo è, invece, caratterizzato da un piano concordatario che prevede il soddisfacimento dei creditori esclusivamente attraverso la liquidazione dei beni aziendali, senza alcuna prosecuzione, diretta o indiretta, dell’attività imprenditoriale.

 Possibilità di presentazione di una domanda (rectius: ricorso) di concordato preventivo c.d. “in bianco”

In questo caso il debitore si riserva di depositare la proposta e il piano concordatari nel termine fissato dal giudice, compreso tra 60 e 120 giorni, ulteriormente prorogabile, in presenza di giustificati motivi, per non più di 60 giorni (art. 161, sesto comma, L.F.). Alla presentazione della domanda, ancorché meramente “prenotativa” o “in bianco”, la nuova disciplina del concordato associa l’impossibilità per i creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore (art. 168 L.F.), nonché, con specifico riguardo ai contratti in corso con le pubbliche amministrazioni, l’esplicita statuizione della relativa non risolvibilità per effetto dell’apertura delle procedura di concordato, mentre la partecipazione a nuove gare è subordinata alla previa autorizzazione del tribunale, sentito il commissario giudiziale se nominato (art. 186-bis, quarto comma, L.F., introdotto dall'art. 13, comma 11-bis, del D.L. 23 dicembre 2013, n. 145, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2014, n. 9).

Dal quadro testé riassunto, l’AVCP ricava le nuove indicazioni operative.

Concordato preventivo “con continuità aziendale”

Il combinato disposto degli artt. 38, comma 1, lett. a), del Codice dei contratti pubblici e 186-bis, commi 3, 4, 5 e 6, della Legge Fallimentare, delinea il seguente regime.

 1^ fase - dalla presentazione della domanda di concordato preventivo “con continuità aziendale” (art. 161 L.F.) al decreto di ammissione alla procedura (art. 163 L.F.)

 a) I contratti in corso di esecuzione, ancorché stipulati con pubbliche amministrazioni, non si risolvono (art. 186-bis, terzo comma).

b) La partecipazione alle gare deve essere autorizzata dal tribunale, acquisito il parere del commissario giudiziale, se nominato (art. 186-bis, quarto comma).

c) L’attestazione di qualificazione di cui è titolare l’impresa non decade, con la conseguente possibilità di procedere, ove ne ricorrano le circostanze, alla relativa verifica triennale o al suo rinnovo. Analogamente, le imprese prive di attestazione possono richiederla per la prima volta. In tutte queste circostanze, peraltro, la determinazione 3/2014 precisa che “resta fermo l’obbligo delle SOA di monitorare lo svolgimento della procedura concorsuale in atto e di verificare il mantenimento del requisito con l’intervenuta ammissione al concordato preventivo con continuità aziendale, pena la decadenza dell’attestazione in caso di mancata ammissione (ndr.: al concordato preventivo “con continuità aziendale”) per sopravvenuta perdita del requisito”.

2^ fase – dal decreto di ammissione alla procedura (art. 163 L.F.) al decreto di omologazione (artt. 180-181 L.F.)

a) I contratti in essere, stipulati con pubbliche amministrazioni dal debitore ammesso al concordato preventivo “con continuità aziendale”, possono essere ulteriormente eseguiti purché il debitore produca la relazione del professionista che ne attesti la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento.

b) La partecipazione alle procedure di affidamento dei contratti pubblici è consentita purché il debitore presenti la documentazione di cui alla precedente lett. a), nonché la dichiarazione di avvalimento di altro operatore economico. E’ consentita anche la partecipazione in raggruppamento temporaneo di imprese, purché il debitore ammesso al concordato preventivo “con continuità aziendale” assuma la veste di mandante e non di capogruppo-mandatario.

c) Analogamente a quanto stabilito in relazione alla 1^ fase, anche successivamente al decreto di ammissione al concordato l’’attestazione di qualificazione di cui è titolare l’impresa non decade, con la conseguente possibilità di procedere, ove ne ricorrano le circostanze, alla relativa verifica triennale o al suo rinnovo.

Concordato preventivo “ordinario” o “liquidatorio”

Laddove l’impresa in stato di crisi (ex art. 160 L.F.) presenti una domanda di concordato preventivo che non preveda la continuità aziendale, non è applicabile l’art. 186-bis L.F. e si configura la causa ostativa al requisito generale per la qualificazione di cui all’art. 38, comma 1, lett. a), del Codice dei contratti pubblici.

 Conseguentemente:

a) I contratti in corso con le pubbliche amministrazioni sono soggetti a risoluzione per sopravvenuto difetto di qualificazione del contraente privato, con facoltà per la stazione appaltante di interpellare progressivamente i concorrenti postergati nella graduatoria formata in esito della gara che ha portato all’aggiudicazione in favore del debitore richiedente il concordato preventivo (art. 140 D. Lgs. 163/2006).

b) L’attestazione di qualificazione eventualmente posseduta dall’impresa è soggetta alla procedura di decadenza per sopravvenuta perdita del requisito generale di cui all’art. 38, comma 1, lett. a) del Codice dei contratti pubblici (art. 40, comma 9-ter, D. Lgs. 163/2006);

c) Non è consentita la partecipazione alle procedure di affidamento di nuovi contratti pubblici. Per quanto, in particolare, attiene ai contratti pubblici di lavori, l’effetto ostativo si produce sia nei confronti dei lavori d’importo superiore a 150.000 euro, sia per quelli d’importo pari o inferiore alla soglia del sistema unico di qualificazione.

Domanda di concordato preventivo “in bianco”

 L’ultima parte della determinazione in commento, dedicata alla fattispecie della domanda di concordato preventivo “in bianco” (art. 161, sesto comma, L.F.), giunge a conclusioni che non paiono del tutto coerenti con le norme assunte a riferimento.

 Vi si legge, infatti, che “poiché la presentazione del piano è presupposto per l'applicabilità dell'art. 186 bis L.F., le domande di concordato "in bianco" non risultano essere idonee, di per sé, a permettere la prosecuzione dell'attività.

Da ciò ne deriva che tale ipotesi costituisce causa ostativa per la qualificazione nonché presupposto per la soggezione dell’impresa al procedimento ex art. 40, c. 9-ter del Codice per perdita del corrispondente requisito”.

 In particolare, l’affermazione riportata nell’ultimo capoverso prefigura, quale diretta conseguenza della presentazione di una domanda di concordato preventivo “in bianco”, ancorché “prenotativa” di un successivo piano per la “continuità aziendale”:

1) l’assenza del requisito generale necessario per acquisire e mantenere la qualificazione, nonché per partecipare alle gare, per essere affidatari di subappalti e per stipulare i contratti ed i subcontratti disciplinati dal Codice (art. 38, comma 1, lett. a, D. Lgs. 163/2006);

2) il verificarsi di una “causa ostativa per la qualificazione” (nel caso di prima richiesta di attestazione), ovvero del “presupposto per la soggezione dell’impresa al procedimento ex art. 40, c. 9-ter del Codice per perdita del corrispondente requisito” (nel caso di attestazione già rilasciata e, quindi, efficace).

Simili conseguenze, peraltro, appaiono incompatibili con il regime delineato dal quarto comma dell’art. 186-bis della L.F. relativamente alla partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici “successivamente al deposito del ricorso”.

Detta partecipazione è certamente subordinata alla previa autorizzazione del tribunale (sentito il commissario giudiziale, se nominato), ma comunque presuppone la permanente validità ed efficacia dell’attestazione posseduta dall’impresa e, in ogni caso, il persistere del requisito generale di cui all’art. 38, comma 1, lett. a), del Codice dei contratti pubblici. Infatti, quest’ultima norma esclude l’effetto ostativo non solo in capo al provvedimento che ammette il debitore al concordato preventivo “con continuità aziendale”, ma anche alla pendenza del procedimento a ciò finalizzato (che, a norma dell’art. 161, comma 6, L.F., si ha anche con il semplice deposito della domanda “in bianco”, purché prefigurante un successivo concordato “con continuità”).

Altrettanto dicasi anche in ordine alle conseguenze della domanda “prenotativa” di concordato “con continuità” nei confronti dei contratti con pubbliche amministrazioni, in corso di esecuzione alla data di deposito della domanda.

 L’iter argomentativo seguito dall’AVCP nella determinazione in commento dovrebbe comportare il sopravvenire, anche nel caso da ultimo in esame, di una causa di risoluzione di tali contratti, analogamente a quanto indicato nell’ipotesi di domanda di ammissione al concordato “ordinario” o “liquidatorio”.

 Ma tale conclusione si pone in inconciliabile contrasto con la prima parte del terzo comma dell’art. 186-bis L.F., il cui contenuto (ovvero la sopravvivenza dei contratti in corso, anche nei confronti della pubblica amministrazione) trova applicazione anche nel caso della semplice domanda “in bianco” o “prenotativa”, purché finalizzata ad un concordato “con continuità aziendale”.

 E augurabile, pertanto, che l’Autorità riveda le indicazioni interpretative contenute nella determinazione 3/2014, nella parte dedicata al c.d. concordato “in bianco”.

                                                       dott. Roberto Travaglini -  Confindustria Vicenza 

AVCP_determinazione_3-2014_qualificazione_e_concordato_preventivo

Nel caso di abusi in materia di serre l’istruttoria può essere svolta dall’Unità regionale per i Servizi fitosanitari

21 Mag 2014
21 Maggio 2014

La questione è esaminata dalla sentenza del TAR Veneto n. 584 del 2014.

Si legge nella sentenza: "1. E’ infondato il primo motivo del ricorso principale nell’ambito del quale si sostiene che l’istruttoria del procedimento, poi concluso con l’ordinanza di demolizione, avrebbe dovuto essere svolta dall’Ufficio tecnico comunale, non potendosi fondare sulle risultanze dell’accertamento posto in essere dall’Unità per i Servizi fitosanitari.

2. Nel provvedimento impugnato è lo stesso Comune a dare conto che i poteri di controllo, sull’attività dichiarata “florovivaismo”, erano propri dell’Unità Periferica per i Servizi Fitosanitari della Regione Veneto, “in qualità di autorità preposta al rilascio dell’autorizzazione per l’esercizio dell’attività”, competenza che in considerazione della specificità della materia trattata non poteva essere attribuita agli uffici comunali. Si consideri, ancora, che l’Unità Periferica regionale per i servizi fitosanitari, nel corso dell’accertamento posto in essere in data 21/06/2012, aveva accertato come solo parte di una delle due strutture (quella di cui al permesso di costruire n.10/002) fosse destinata alla  coltivazione di piante, mentre sia nella parte residua (pari a 441,86 mq) di questa prima struttura sia, ancora, sull’intera superficie della serra contigua (di cui alla concessione n. 97/122), era svolta l’attività commerciale di vendita piante.

2.1 Ne consegue che, una volta acquisita la conoscenza di dette difformità per il tramite dell’autorità effettivamente competente, il
Comune era obbligato ad attivare il procedimento sanzionatorio e, ciò, senza per questo essere tenuto a porre in essere un’ulteriore verifica dello stato dei luoghi che, in quanto tale, nulla avrebbe potuto aggiungere a quanto in precedenza accertato.

2.2 Non può, pertanto, essere condivisa la tesi in base alla quale il Comune avrebbe violato il disposto di cui all’art. 27 del dpr 380/2001. Sul punto va ricordato come detta disposizione riconosce all'Amministrazione Comunale un generale potere di vigilanza e di controllo su tutte le attività urbanistico-edilizie del territorio, ivi comprese quelle riguardanti immobili sottoposti a vincolo storicoartistico, senza tipizzare gli adempimenti e le verifiche da realizzare.

2.3 Sulla base di detta disposizione l’Amministrazione comunale è obbligata, per il tramite del dirigente competente, ad adottare
immediatamente provvedimenti definitivi al fine di ripristinare la legalità violata dall'intervento edilizio realizzato, mediante l'esercizio di un potere-dovere del tutto vincolato, nell’ambito del quale non sussistono margini di discrezionalità (per tutti T.A.R. Campania Napoli Sez. III, 05-04-2012, n. 1647).

2.4 Una volta acquisito il verbale sopra citato deve ritenersi, allora, come l’Amministrazione comunale si sia correttamente attivata al fine di  instaurare il procedimento sanzionatorio previsto in relazione agli abusi contestati, inviando la comunicazione di avvio del procedimento e, nel contempo, svolgendo quell’attività istruttoria che, di per sé, non può essere circoscritta all’effettuazione di un ulteriore sopralluogo, essendo al contrario composta da una serie di verifiche e accertamenti, anche sui documenti catastali, istruttoria anch’essa diretta a verificare la compatibilità e la legittimità delle verifiche già poste in essere".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 584 del 2014

Deve esserci esatta corrispondenza tra l’avviso di avvio del procedimento e il provvedimento finale?

21 Mag 2014
21 Maggio 2014

Alla domanda risponde negativamente la sentenza del TAR Veneto n. 584 del 2014.

Si legge nella sentenza: "3. Altrettanto non condivisibile è l’argomentazione di parte ricorrente (contenuta nel secondo motivo) diretta a fondare l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione e ripristino in considerazione del fatto che l’avviso di avvio del procedimento avrebbe dovuto indicare le norme violate e la sanzione che l’Amministrazione intendeva applicare.

3.1 Costituisce principio consolidato quello diretto a sancire che la funzione degli art. 7 e 8 della L. n.241/90 è quella di garantire una
partecipazione alla formazione del provvedimento definitivo, mediante un’effettiva collaborazione tra privato e Amministrazione che, in quanto tale, si instaura nella fase procedimentale. Detta partecipazione procedimentale parte dal presupposto della necessità di realizzare una formazione “progressiva” del provvedimento definitivo, circostanza quest’ultima che comporta l’impossibilità di
sancire un'assoluta identità tra il contenuto dell'avviso e la decisione finale.

3.2 Deve, allora, ritenersi come sia possibile che l'amministrazione possa emettere un provvedimento finale anche parzialmente diverso da quello preannunziato e, ciò, sulla base degli accertamenti e delle verifiche poste in essere nel corso dell’esplicarsi dell’attività istruttoria.  Come ha rilevato un prevalente orientamento giurisprudenziale il limite delle diversità e delle differenze di contenuto tra atto di avviso e atto finale, integra una nozione di “aderenza” non riferita all'integrità dei rispettivi contenuti, perché così si renderebbe inutile l'intera fase partecipativa ed istruttoria, trasformando l'atto di avvio in un mero adempimento formale (Cons. Stato Sez. IV, 22-05-2012, n. 2961).

3.3 Si consideri, ancora, come sia altrettanto dirimente constatare che l’art. 8 della L. n. 241/90, nel disciplinare i contenuti minimi della comunicazione di avvio, non prevede, nell’ambito degli elementi propri di detta comunicazione, l’indicazione delle sanzioni da applicare. Il motivo è pertanto infondato".

Dario Meneguzzo - avvocato

La scala esterna e le distanze ex D.M. n. 144/1968

21 Mag 2014
21 Maggio 2014

La scala esterna è considerata una costruzione. E la sua chiusura?

La giurisprudenza è unanime nell’affermare che la scala esterna costituisce una costruzione accessoria al fabbricato e che, di conseguenza, deve rispettare sia la disciplina civilistica sulla distanza tra fabbricati ex art. 873 c.c. sia quella posta in materia di pareti finestrate ex D.M. n. 144/1968.

A tal fine, ex multis; si ricorda che: “Invero, nel calcolo della distanza minima fra costruzioni posta dall'art.873 codice civile o da norme regolamentari di esso integrative (come nel caso di specie) deve tenersi conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato come la scala esterna in muratura anche scoperta, se ed in quanto presenta connotati di consistenza e stabilità (Cassazione civile Sez. II 30/1/2007 n.1966; Tar Basilicata 19/9/2013 n.574)” e che: “Invero, rilevato che la scala costituisce, come già sopra evidenziato, struttura o corpo aggettante da considerarsi ai fini del computo della distanza, quest'ultima con riferimento al parametro edilizio posto dalla norma di cui all'art.9 del citato Decreto risulta inferiore ai previsti 10 metri, limite minimo da ritenersi inderogabile, fermo restando che la disposizione statale in rassegna si rivela sovraordinata ad altra norma regolamentare locale che fissi una diversa, minore distanza (ex multis, Cons. Stato Sez. IV 17/5/2012 n. 2847)” (Consiglio di Stato, sez. IV, 04.03.2014, n. 1000); “È fondato, invece, il terzo motivo del ricorso introduttivo, nella parte in cui contesta la distanza della scala di accesso dell'edificio rispetto al confine est (prop. Mi.). In effetti i gradini della scala esterna di accesso al costruendo edificio risultano sporgere ad una distanza inferiore al 10 ml di cui al DM 1444/1968. Sul punto, la costante giurisprudenza osserva come, in tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od accessoria di limitata entità, rientrano invece nel concetto civilistico di costruzioni le scale (CdS Sez. IV 17.5.2012 n. 2847)” (T.A.R. Marche, Ancona, sez. I, 19.12.2013, n. 941); “Infine, con riferimento alla lamentata violazione della distanza dal confine prevista dall'art. 10 N.T.A. (m. 5), essendo prevista una rampa di scale a distanza inferiore, osserva il Collegio che la scala, anche se priva di copertura, costituisce corpo aggettante rilevante ai fini della disciplina delle distanza, essendo idoneo a ridurre le intercapedini tra un edificio e l'altro e quindi a pregiudicare l'esigenza di salubrità che costituisce finalità essenziale della previsione di distanze minime. In tal senso si è espressa con orientamento costante la giurisprudenza della Cassazione in materia di distanze, evidenziando che "Nel calcolo della distanza minima fra costruzioni, posta dall'art. 873 c.c. o da norme regolamentari integrative, deve tenersi conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato (nella specie, scala esterna in muratura), qualora queste, presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di opera edilizia" (Cass. 1966/2007, 17390/2004, 4372/2002, tutte con riferimento a scale esterne)” e che: “Del pari è fondata la quarta censura, attinente alla violazione dell'art. 9 D.M. 1444/68 e dell'art. 10 delle N.T.A. del P.R.G. di Cellamare, per il mancato rispetto della distanza di m. 10 prevista per la zona B tra pareti e pareti finestrate, emergendo pacificamente dagli atti di causa (anche dalla perizia di parte dei controinteressati) che la distanza risulta maggiore di m. 10 solo se computata dalla scala e non dalla parete retrostante, di tal che, considerando per quanto detto sopra la scala corpo aggettante da considerare nel computo, la distanza risulta inferiore” (T.A.R. puglia, Bari, sez. III, 21.06.2012, n. 1219) oltre che: “L'art. 9 d.m. 2 aprile 1968 n. 1404, che prescrive che tra pareti finestrate deve essere osservata la distanza di m. 10, è applicabile anche nel caso in cui una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata. L'anzidetto distacco minimo deve osservarsi, pertanto, nel caso in cui la costruzione fronteggiante la parte finestrata sia costituita da una scala esterna in muratura incorporata ad un edificio, del quale costituisce accessorio, dovendo ravvisarsi una parete nella facciata dei pilastri e dei gradini. Questo principio trova applicazione con riguardo al PRG del comune di Massa approvato con d.m. 31 marzo 1972 n. 1807, il cui art. 48 richiama l'art. 9 del d.m. del 1968, senza prevedere alcuna deroga nei riguardi delle costruzioni di natura accessoria e pertinenziale” (Cass. civ., sez. II, 06.05.1993, n. 5226).

Alla luce di ciò ritengo che le considerazioni suesposte valgano anche per la chiusura della scala esterna e la conseguente creazione di un nuovo vano.

E i lettori cosa ne pensano?

dott. Matteo Acquasaliente

CDS n. 1000 del 2014

È legittima un’offerta pari a zero?

21 Mag 2014
21 Maggio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 12 maggio 2014 n. 612, si occupa delle offerte pari a zero affermando la loro illegittimità.

In particolare, dopo aver chiarito che: “un’offerta economica pari a zero equivale ad una mancata offerta, e ciò in quanto “non consente di graduare le altre concorrenti in base alla formula prescritta dalla lex specialis di gara, ossia ne vanifica la portata ed il senso stesso, posto che tutte le altre offerte non avrebbero potuto che conseguire zero punti, appiattendosi dunque tutte sullo stesso dato non significativo per un elemento che pur la stazione appaltante aveva ritenuto, in quanto a suo avviso rilevante, di inserire autonomamente tra i criteri di valutazione”, con evidente lesione della par condicio e dell’affidamento riposto nella circostanza che oggetto di valutazione sarebbe stata anche l’offerta economica sulla quale i concorrenti avevano calibrato l’offerta nel suo complesso (cfr., ex pluribus, CdS, III, 15.1.2013 n. 177)”, il Collegio asserisce che: “B.1.- Come s’è detto, MARSH rivendica a sé l’aggiudicazione della gara in quanto INTERMEDIA, che aveva proposto un’offerta pari a zero, doveva essere esclusa non già successivamente all’attribuzione del punteggio complessivo, in sede di valutazione dell’anomalia (come fatto dall’Amministrazione), ma prima dell’assegnazione ai concorrenti del punteggio relativo all’offerta economica: si sarebbe così ottenuto un diverso calcolo del punteggio per l’offerta economica che avrebbe visto MARSH aggiudicataria della gara, in quanto aveva proposto il prezzo più basso.

La censura è fondata: INTERMEDIA, infatti, aveva presentato un’offerta economicamente “improponibile”, così come definita nei chiarimenti forniti dall’Amministrazione (facenti parte integrante del regolamento di gara) e non contestati: la proposta di un’offerta economica pari a zero – l’importo di un quadrimilionesimo di euro proposto da INTERMEDIA per l’espletamento del servizio, non essendo pagabile, è pari a zero e, comunque, si configura come offerta virtuale, non reale –, comportava pertanto inequivocabilmente, in quanto priva dei requisiti essenziali e distorsiva dei principi di cui all’art. 83 del codice in tema di rapporto qualità/prezzo, l’estromissione del proponente (non già a seguito della verificata anomalia, ma) in concomitanza dell’apertura della busta recante l’offerta stessa (recte: recante la mancanza di un’offerta valida).

Né può condividersi la tesi della sostenibilità di una correzione dell’offerta da parte della Commissione mediante la sostituzione del prezzo zero con un prezzo pari ad un centesimo (0,01), idoneo a consentire il funzionamento della formula matematica e, conseguentemente, a consentire l’assegnazione di un punteggio alle offerte economiche dei vari concorrenti, senza però comportare un diverso esito della gara.

Le offerte dei partecipanti a pubbliche gare, infatti, non possono essere modificate dalla commissione giudicatrice (nell’eventualità, peraltro, in cui la modifica permettesse al concorrente di evitare, com’è avvenuto nel caso di specie, l’esclusione dalla gara, ne sarebbe irrimediabilmente compromessa la “par condicio” di tutti i concorrenti), con la conseguenza che, se dette offerte si pongono in palese contrasto con le regole della gara, la commissione non ha margini di discrezionalità e soprattutto non ha il potere per correggere le offerte, ma deve procedere alla loro esclusione.

Ma anche prescindendo da tale circostanza, dalla considerazione, cioè, che le offerte dei partecipanti a pubbliche gare non possono essere modificate dalla commissione giudicatrice, va rilevato che la presentazione di offerte pari a zero o a cifre contermini costituisce elemento idoneo a influenzare gli esiti della gara (oltre che a rappresentare un fattore di rischio per comportamenti collusivi), atteso che la proposizione di siffatte offerte, in grado di azzerare il punteggio economico (o comunque di ridurre il differenziale, se corretta l’offerta zero), impediscono una seria ed effettiva comparazione tra i concorrenti, imponendo, in ipotesi, l’aggiudicazione ad un soggetto che abbia proposto un’offerta qualitativamente insoddisfacente (cfr. CdS, V, 16.7.2010 n. 4624)”.

 Nella stessa sentenza i Giudici si occupano anche delle situazioni di controllo ex art. 38, c. 1, lett. m-quater), del D. Lgs. n. 163/2006 affermando che: “A.1.1.- MARSH ha reso una dichiarazione incompleta con riferimento all’art. 38, I comma, lett. m-quater, che prevede che il concorrente alleghi una dichiarazione di non trovarsi in alcuna situazione di controllo di cui all’art. 2359 cc rispetto ad alcun soggetto: MARSH, invece, ha dichiarato di non trovarsi in alcuna situazione di controllo di cui all’art. 2359 cc rispetto ad alcun soggetto che partecipa alla presente procedura.

La censura è infondata: in disparte la considerazione che la “ratio” della norma va ravvisata nell’esigenza di impedire che imprese tra loro collegate partecipino alla gara (onde evitare facili collusioni), talchè è affatto inconferente (e peraltro normale e ricorrente) che la concorrente sia controllata da (o controllante di) altra società che non concorre (e, dunque, la lett. “a” del disciplinare laddove omette il riferimento alla “medesima procedura” è chiaramente lacunosa e, quindi, implicitamente integrata con il predetto inciso), l’aver integrato la dichiarazione non può condurre all’esclusione, giusta l’art 46, comma 1-bis del codice dei contratti. La dichiarazione contenente l'indicazione di tutti i soggetti rispetto ai quali il concorrente si trova in situazione di collegamento costituisce, infatti, dichiarazione ulteriore e diversa rispetto a quella prevista dall’art. 38 del codice (cfr. CdS, V, 21.10.2011 n. 5638)”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 612 del 2014

Il Consiglio di Stato sul rapporto tra VAS e VIA anche in relazione a varianti urbanistiche mediante accordo di programma ex art. 34 TUEL

20 Mag 2014
20 Maggio 2014

Segnaliamo la sentenza del Consiglio di Stato n. 2403 del 2014.

Si legge nella sentenza: "....Acclarata dunque l’applicabilità ratione temporis della disciplina del d.lgs. nr. 152 del 2006, e preso atto che nulla è detto dalle parti odierne appellanti nel merito della necessità di sottoposizione a V.A.S. della variante urbanistica approvata con l’accordo di programma de quo, è agevole verificare che detta variante, per la sua estensione e significatività rispetto all’assetto originario del P.U.C., fosse da sottoporre a V.A.S. obbligatoria ai sensi della previsione allora vigente dell’art. 7, comma 2, lettera a), del d.lgs. nr. 152 del 2006 (oggi riprodotta, senza modifiche sostanziali, nell’art. 6, comma 2, lettera a), del medesimo decreto quale risultante dal correttivo apportato col decreto legislativo 16 gennaio 2008, nr. 4).

Va dunque condivisa l’opinione del T.A.R., il quale ha individuato nella mancata effettuazione della procedura di V.A.S. un vizio suscettibile d’inficiare l’intero iter procedurale per cui è causa.

6.2. Il vizio così ravvisato sarebbe di per sé sufficiente a determinare il travolgimento dell’intero procedimento di pianificazione, e quindi da esonerare dall’esame di altre e più specifiche censure (pure accolte dal primo giudice); tuttavia, anche allo scopo di orientare la successiva attività amministrativa, la Sezione reputa utile soffermarsi anche sulle conseguenze dell’applicazione della disciplina in materia di tutela dell’ambiente anche alla successiva fase di adozione e approvazione del P.U.O.

Sul punto, infatti, non può condividersi l’avviso delle parti appellanti le quali, citando in modo parziale una precedente sentenza di questa Sezione, assumono che fra i presupposti per la necessità della V.A.S. ve ne sarebbe anche uno “soggettivo”, e cioè un’espressa manifestazione di volontà della stessa Amministrazione, la quale decida di “autovincolarsi” stabilendo che un certo atto di pianificazione debba essere assoggettato a V..A.S. (ciò che, sembra di capire, comporterebbe – per converso – che l’Amministrazione sarebbe in grado, non esercitando tale “autovincolo”, di escludere l’applicazione della V.A.S. in casi in cui la legge la richiede).

Al contrario, è fin troppo agevole rilevare che i presupposti per la necessità della V.A.S. (come della V.I.A.) sono esclusivamente oggettivi, e riposano semplicemente nel ricadere o meno di un certo progetto fra le tipologie per le quali la normativa contenuta nel d.lgs. nr. 152 del 2006, o nelle leggi regionali, contempla la verifica ambientale, potendo differenziarsi soltanto fra le ipotesi in cui tale verifica è obbligatoria ex lege e quelle in cui è meramente facoltativa, imponendo il legislatore soltanto una preliminare verifica di assoggettabilità (c.d. screening) intesa appunto ad accertare se l’intervento debba o meno essere assoggettato alla verifica ambientale.

Nemmeno risulta rispondente al vero un’altra delle affermazioni ripetute dalle parti appellanti, e cioè che nessuna disposizione impone che la V.A.S. debba essere effettuata prima della formazione del piano, potendo quindi ad essa procedersi anche ex post; al riguardo, è sufficiente richiamare il chiaro disposto dell’art. 11, comma 3, del d.lgs. nr. 152 del 2006, che così recita: “...La fase di valutazione è effettuata anteriormente all’approvazione del piano o del programma, ovvero all’avvio della relativa procedura legislativa, e comunque durante la fase di predisposizione dello stesso. Essa è preordinata a garantire che gli impatti significativi sull'ambiente derivanti dall’attuazione di detti piani e programmi siano presi in considerazione durante la loro elaborazione e prima della loro approvazione”.

È vero invece che ai fini della successiva approvazione del P.U.O. potrebbe trovare applicazione il comma 3 del già citato art. 6 del d.lgs. nr. 152 del 2006, che per le “piccole aree a livello locale” richiede non la V.A.S. obbligatoria, ma la semplice verifica di assoggettabilità di cui al successivo art. 12; pertanto, una volta effettuata la V.A.S. in sede di predisposizione dell’accordo di programma (come si è visto essere necessario), non sarebbe stata necessaria un’ulteriore V.A.S. ai fini della formazione del P.U.O., dovendo procedersi soltanto a verifica di assoggettabilità: con l’unica precisazione che, ovviamente, anche tale verifica – che ai sensi del citato art. 12 deve precedere l’eventuale V.A.S. – non potrà giammai essere effettuata ex post, dovendo pur sempre intervenire nella fase di predisposizione del piano.

6.3. Sempre per completezza e chiarezza, va evidenziato che le deduzioni delle parti appellanti risentono di una certa confusione tra l’istituto della V.A.S. (che attiene alla verifica di impatto ambientale di piani e programmi e loro varianti) e quello della V.I.A. (che afferisce invece a progetti relativi a specifici impianti o edifici ed è un istituto, al contrario della V.I.A., vigente nell’ordinamento italiano già da molto prima dell’entrata in vigore del d.lgs. nr. 152 del 2006).

Infatti, la verifica di assoggettabilità che si è visto essere stata eseguita ex post rispetto all’approvazione del P.U.O., e rispetto alla quale il T.A.R. ha stigmatizzato il vizio di inversione procedimentale, era in realtà quella prodromica al rilascio dei permessi di costruire per la materiale realizzazione degli interventi contenuti nel P.U.O.: ciò si ricava dalle stesse deduzioni delle parti appellanti, le quali precisano che tale verifica fu eseguita ai sensi dell’art. 10 della l.r. 30 dicembre 1998, nr. 38, che è appunto la legge regionale ligure che – già da epoca ampiamente anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. nr. 152 del 2006 - disciplina la V.I.A. sui progetti di competenza regionale.

Al riguardo, è appena il caso di precisare che l’effettuazione di tale procedura (peraltro con esito negativo) non può in alcun modo ritenersi aver sanato il vizio derivante dal mancato esperimento a monte, nella fase di pianificazione, della diversa procedura di V.A.S.

Per vero, la legislazione vigente si fa carico dei problemi di coordinamento fra le due procedure, e dell’evidente eccessività di richiedere obbligatoriamente sia l’una che l’altra, nelle ipotesi in cui si debba approvare un piano urbanistico attuativo, tale da richiedere la V.A.S., ed all’interno di esso sia prevista la progettazione di impianti o interventi per i quali, a loro volta, sarebbe necessaria la V.I.A.

A queste ipotesi è dedicato l’attuale comma 4 dell’art. 10 del d.lgs. nr. 152 del 2006, quale risultante dalla già richiamata novella del 2008, secondo cui: “...La verifica di assoggettabilità di cui all’articolo 20 può essere condotta, nel rispetto delle disposizioni contenute nel presente decreto, nell’ambito della VAS. In tal caso le modalità di informazione del pubblico danno specifica evidenza della integrazione procedurale”.

Pertanto, nelle ipotesi sopra indicate – cui è riconducibile anche la fattispecie per cui qui è causa – è possibile procedere a un’unica procedura di verifica, con unitaria consultazione del pubblico, nell’ambito della V.A.S., in occasione della quale procedere anche allo screening preliminare per i progetti ricompresi nel piano (l’art. 20 del d.lgs. nr. 152 del 2006 disciplina, per l’appunto, la verifica di assoggettabilità a V.I.A.), all’esito del quale si accerterà se occorrerà o meno, prima del permesso di costruire, procedere all’ulteriore procedura di V.I.A.

In sostanza, la scelta del legislatore – come è del tutto logico – è nel senso che l’assimilazione e il coordinamento fra le due procedure debba avvenire a monte, nella fase di pianificazione: di modo che non è assolutamente possibile, al contrario, che ogni verifica sia posposta al momento del rilascio del titolo ad aedificandum (come nel caso di specie, laddove si vorrebbe dalle parti appellanti – sia pure con motivo d’appello articolato in via subordinata – che la verifica di assoggettabilità a V.I.A. prodromica al rilascio del permesso di costruire abbia sanato il vizio discendente dal mancato esperimento della V.A.S. in sede di pianificazione).

7. I rilievi fin qui svolti, evidenziando l’infondatezza degli appelli con riguardo al più eclatante fra i vizi riscontrati dal giudice di prime cure, tale da comportare l’illegittimità dell’intera procedura esaminata – a partire dall’accordo di programma del 2007, e proseguendo con l’intero iter di formazione del P.U.O. – hanno carattere assorbente ed esonerano dall’esame degli ulteriori motivi di appello, afferenti a vizi secondari e ulteriori ravvisati dal T.A.R. e la cui eventuale fondatezza in nulla modificherebbe le conclusioni raggiunte in punto di integrale conferma della sentenza gravata, e quindi di annullamento degli atti impugnati in primo grado.

D’altra parte, i profili sottesi a detti motivi e censure ulteriori (dalla sufficienza delle indagini geologiche e idrogeologiche al rispetto delle prescrizioni sulle altezze degli edifici, dalla compatibilità con gli eventuali vincoli paesaggistici all’adeguatezza degli studi di impatto sulla viabilità) potranno essere oggetto di compiuto esame in sede di rinnovazione della procedura pianificatoria, giovandosi dell’apporto partecipativo di tutti i soggetti interessati nell’ambito del doveroso esperimento della procedura di V.A.S.".

geom. Daniele Iselle

sentenza CDS 2403 del 2014

L’art. 34 del D.P.R. n. 380/2001 non si applica al cambio d’uso senza opere

20 Mag 2014
20 Maggio 2014

Il T.A.R. Puglia, Lecce, sez. III, nelle due sentenze gemelle del 12 maggio 2014 n. 1219 e n. 1220, dichiara che la sanzione amministrativa ex art. 34 del D.P.R. n. 38072001 (“Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire”) secondo cui: “1. Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio. Decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili dell'abuso.

2. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27 luglio 1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale.

2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all'articolo 22, comma 3, eseguiti in parziale difformità dalla denuncia di inizio attività.

2-ter. Ai fini dell’applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali” non può essere utilizzato dalla Pubblica Amministrazione per imporre il ripristino della destinazione d’uso se si è in presenza soltanto di un cambio d’uso funzionale e non di un cambio d’uso strutturale: “Ora, appare evidente come il richiamo all’art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, operato dall’Amministrazione per imporre un uso corretto dell’immobile, sia del tutto inappropriato.

Nella fattispecie infatti, contrariamente a quanto sembra desumersi dal provvedimento impugnato, la variazione d’uso funzionale “realizzata in parziale difformità ai precitati titoli abilitativi”, non può essere assimilata (in assenza di contestazione circa la realizzazione di opere edili) agli interventi eseguiti in parziale difformità del permesso di costruire, interventi considerati dall’art. 34 del D.P.R. e per i quali la stessa norma prevede la rimozione o la demolizione a spese dei responsabili dell’abuso.

Sicchè, ferma restando la possibilità dell’Amministrazione di regolare la destinazione d’uso degli immobili, è fuor di dubbio che nella specie siano stati utilizzati strumenti impropri sotto il profilo normativo.

Per quanto riguarda poi il denunciato eccesso di potere per aver l’Amministrazione applicato l’importo massimo della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 47 della L.R. n. 56/80 senza esplicitarne le ragioni, la censura deve riconoscersi parimenti fondata.

Infatti, sebbene l’attività determinativa del quantum della sanzione amministrativa costituisca espressione di una lata discrezionalità amministrativa, essa non può sottrarsi al sindacato di legittimità ove non risulti congruamente motivata e scevra da vizi logici (Cons. St. VI sez. 20/9/2012 n. 4992).

Nel caso di specie, evidentemente, l’Amministrazione ha ritenuto di potersi sottrarre a tale obbligo motivazionale, laddove invece la particolarità della vicenda e il consolidarsi di una situazione a tutti nota e generalizzata avrebbe dovuto indurre la stessa Amministrazione a valutare gli effetti prodotti sull’assetto urbanistico dal cambio di destinazione d’uso in questione e conseguentemente calibrare la misura pecuniaria sanzionatoria applicata.

Per le ragioni suesposte il ricorso merita accoglimento, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione la quale, riesercitando il suo potere, non potrà non valutare più adeguatamente l’incidenza della diversa destinazione d’uso degli immobili sugli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica ed in particolare la compatibilità con gli standars ur-banistici che la stessa Amministrazione ritiene abbiano subito “una variazione” per effetto dell’abuso in contestazione”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Puglia n. 1219 del 2014

 TAR Puglia n. 1220 del 2014

Piano casa e incentivi fiscali

20 Mag 2014
20 Maggio 2014

Dalla lettura del combinato disposto degli artt. 3, c. 3 e 7 c. 1 ter della L. R. Veneto n. 14/2009 appare evidente che se un soggetto privato intenda demolire e ricostruire un edificio ante 1967, usufruendo contestualmente dell’ampliamento concesso dalla presente legge regionale, non è dovuto al Comune né il pagamento del contributo di costruzione connesso all’abitazione già esistente (e mai dovuto perché ante 1967) né il pagamento del contributo di costruzione dell’ampliamento.

Premesso che l’art. 3 c. 2 recita: “Gli interventi di cui al comma 1 finalizzati al perseguimento degli attuali standard qualitativi architettonici, energetici, tecnologici e di sicurezza, sono consentiti in deroga alle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali, comunali, provinciali e regionali, ivi compresi i piani ambientali dei parchi regionali. La demolizione e ricostruzione, purché gli edifici siano situati in zona territoriale omogenea propria, può avvenire anche parzialmente e può prevedere incrementi del volume o della superficie:

a) fino al 70 per cento, qualora per la ricostruzione vengano utilizzate tecniche costruttive che portino la prestazione energetica dell’edificio, come definita dal decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192 “Attuazione della direttiva 2002/91/CE relativa al rendimento energetico nell’edilizia” e dal decreto del Presidente della Repubblica 2 aprile 2009, n. 59 “Regolamento di attuazione dell’articolo 4, comma 1, lettere a) e b), del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192, concernente attuazione della direttiva 2002/91/CE sul rendimento energetico in edilizia” e successive modificazioni, alla corrispondente classe A;

b) fino all’80 per cento, qualora l’intervento comporti l’utilizzo delle tecniche costruttive di cui alla legge regionale 9 marzo 2007, n. 4 “Iniziative ed interventi regionali a favore dell’edilizia sostenibile”. A tali fini la Giunta regionale integra le linee guida di cui all’articolo 2 della legge regionale 9 marzo 2007, n. 4 , prevedendo la graduazione della volumetria assentibile in ampliamento in funzione della qualità ambientale ed energetica dell’intervento”, la soluzione esposta deriva dalla semplice applicazione dell’art l’art. 7, c. 1 ter secondo cui: “Le riduzioni di cui ai commi 1 e 1 bis si intendono riferite:

a) nel caso previsto dagli articoli 2 e 3 ter al volume o alla superficie ampliati;

b) nel caso previsto dagli articoli 3 e 3 quater al volume ricostruito e alla nuova superficie comprensivi dell’incremento”. 

dott. Matteo Acquasaliente

Oneri specifici: secondo il TAR Lazio la ditta che li omette non può essere esclusa se il modello non li prevede

20 Mag 2014
20 Maggio 2014

Il T.A.R. Lazio, Roma, sez. II Bis, nella sentenza del 07 aprile 2014 n. 3742, afferma che se il modello predisposto dalla stazione appaltante non prevede espressamente l’indicazione degli oneri specifici, la ditta che li omette, confidando nella correttezza della documentazione predisposta, non può essere esclusa perché: “È diffuso l’orientamento, affermato anche in pronunce di questo Tribunale, dell’immediata, precettività degli artt. 86 e 87 del D.Lgs. 12.4.2006 n. 163 (codice dei contratti pubblici) riguardo alla necessità di specificare il costo della sicurezza nelle offerte economiche in gare per l’appalto di lavori pubblici, servizi e forniture, anche in difetto di espressa previsione dei bandi. Ma è altresì diffuso quell’orientamento che in via eccezionale riconosce, alla stregua del principio generale di favor partecipationis, la prevalenza dell’affidamento incolpevole qualora la lex specialis di gara sia strutturata in modo da indurre in errore i partecipanti circa i requisiti dell’offerta (Cons.St., V. 6.8.2012 n. 4510; T.A.R. Piemonte, I, 9.1.2012 n. 5; id. 4.4.2012 n. 458; T.A.R. Umbria, I, 22.5.2013 n. 301; T.A.R. Campania, II, 21.6.2013 n. 3198). Applicando detti principi, richiamati altresì nei pareri dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici n. 54 del 23.4.2013 e n. 118 del 17.7.2013, la commissione di gara ha ammesso l’offerta economica di T.F.C. sebbene non indicasse gli oneri della sicurezza aziendale a parte e in modo specifico, tenuto conto che il modello predisposto dalla stazione appaltante non comprende alcuna voce ad essi relativa.

Sebbene la scelta del facsimile per l’offerta economica allegato al disciplinare di gara è dal medesimo qualificata come preferenziale, sarebbe tuttavia contraddittorio sostenere che detta scelta possa poi ritorcersi contro i concorrenti che l’abbiano adottata facendo affidamento su di essa in quanto suggerita dalla lex specialis.

La modulistica predisposta dalle stazioni appaltanti assolve a molteplici fini, rendendo omogenee le offerte e semplificandone l’esame comparativo (così assolvendo a una funzione acceleratoria), nonché riducendo il rischio di errori. Quest’ultima finalità sarebbe senz’altro frustrata ove i concorrenti, attenti a non esporsi al rischio di esclusione per errori e omissioni nella redazione dell’offerta, possano essere poi penalizzati per non aver integrato l’apposito modulo predisposto dalla stessa amministrazione appaltante e perciò stesso ingenerante un obiettivo affidamento (T.R.G.A. Trento 16.12.2011 n. 317).

L’aberrante risultato di una siffatta conclusione e la totale confusione e incertezza che deriverebbe alle procedure di gara non necessitano di particolare illustrazione. Basti solo considerare che gli essenziali valori dell’affidamento e della buona fede impediscono che le conseguenze di una condotta, erronea e/o omissiva, della stazione appaltante, non immediatamente percepibile possano essere trasferite sui partecipanti sanzionandoli con l’esclusione (in termini, Cons.Stato, V, 22.5.2012 n. 2973; T.A.R. Umbria 11.7.2012 n. 274).

Con la puntuale compilazione del modulo per l’offerta economica allegato agli atti di gara e indicato dal disciplinare quale scelta preferibile T.F.C. ha pienamente rispettato gli ordinari canoni di diligenza e buona fede e non può dunque esserle imposto ai fini di ammissione alla gara l’obbligo di soggiungere dichiarazioni ulteriori rispetto a quelle che l’Amministrazione ha reputato sufficienti ed esaustive.

Ferme le premesse considerazioni di carattere generale e di merito, ad escludere l’ammissibilità della censura in esame è dirimente la circostanza che lo stesso disciplinare di gara affermi un principio di soccorso con lo stabilire che “la commissione giudicatrice potrà, comunque, chiedere ai soggetti partecipanti alla gara di fornire ogni notizia utile a chiarire i contenuti dell’offerta e della documentazione presentata e/o di fornire idonea dimostrazione degli stessi”. La disposizione della lex specialis contempla una facoltà della commissione di gara indirizzata a dissipare ogni eventuale dubbio circa il contenuto delle offerte dei concorrenti ed è pertanto esercitabile anche per definire la consistenza dei costi per la sicurezza aziendale, ove non resa immediatamente conoscibile, escludendo che le offerte esaustive nel contenuto non possano essere ammesse per omissioni puramente formali. Detta disposizione, qualora la si fosse voluta ritenere in contrasto con la normativa primaria, avrebbe dovuto essere contestata a mezzo impugnazione del disciplinare in parte qua. Poiché la lex specialis non è stata contestata in giudizio sul punto, occorre riconoscerne la valenza a giustificare le offerte complete ancorché non pienamente rispondenti alle prescrizioni di forma del codice dei contratti pubblici; e quindi è inammissibile la censura di S.A.T.A. che deduce l’omessa esclusione di T.F.C. in quanto l’offerta economica di quest’ultima non specifica, pur comprendendoli, gli oneri della sicurezza, come prescritto dall’art. 87, comma 4, e successive modificazioni del D.Lgs. n. 163/2006”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Lazio, Roma, n. 3742 del 2014

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