Cosa succede se il Soprintendete esprime il parere di compatibilità paesaggistica oltre il termine di 45 giorni, previsto dal comma 8 dell’art. 146 del D. Lgs. 42/2004

15 Mag 2014
15 Maggio 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 583 del 2014, in relazione alla tesi del ricorrente secondo la quale il parere tardivo sarebbe nullo.

Scrive il TAR: "2. Ciò premesso è possibile esaminare l’eccezione di nullità proposta nell’ultima memoria presentata dalla parte ricorrente. Con riferimento a detta ultima censura ne va sancita, sin d’ora, la sua infondatezza e, ciò, sia in quanto proposta avverso il parere del 23/01/2013 (impugnativa peraltro ora dichiarata improcedibile) sia, ancora, in quanto riferita al preavviso di rigetto del 06/09/2013 (provvedimento impugnato con successivi motivi aggiunti). Detta eccezione è argomentata ritenendo violato il termine di 45 giorni, previsto dal comma 8 dell’art. 146 del D. Lgs. 42/2004, entro il quale il Soprintendente deve emanare il parere di compatibilità paesaggistica, ritenendo che in entrambe le ipotesi sopra ricordate i provvedimenti impugnati siano stati stessi emessi in carenza di potere da parte dell’Amministrazione competente.

2.1 Sul punto risulta dirimente constatare come dal testo della disposizione in esame è possibile desumere come decorso il termine sopra citato, l’Amministrazione perde il potere di emanare un provvedimento vincolante. 

2.2 Pur persistendo il potere della Soprintendenza di pronunciarsi oltre il termine dei 45 giorni, il decorso di quest’ultimo periodo di tempo impedisce alla Soprintendenza di emanare un parere vincolante in grado di condizionare la decisione dell’Amministrazione comunale che, in quanto tale, dovrà comunque pronunciarsi a prescindere dall’eventuale portata del potere tardivo (in questo senso si veda T.A.R. sez. I Lecce , Puglia del 06/02/2014 n. 321). 

2.3 L’eccezione di nullità del preavviso di diniego del 06/09/2013 è, pertanto, infondata".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 583 del 2014

Non spetta al giudice amministrativo la controversia sulle pretese patrimoniali del Comune nel caso di cessione di immobili ERP da parte dell’assegnatario

15 Mag 2014
15 Maggio 2014

Nella sentenza n. 558 del 2014, il TAR Veneto esamina la giurisdizione in materia di controversie tra l'assegnatario di un alloggio ERP e il Comune, nel caso in cui il primo intenda alienare l'immobile. La controversia è sorta in relazione alla clausola inserita nel contratto di compravendita intercorso tra il ricorrente  il Comune nel quale la cessione della proprietà dell’area è stata regolata secondo puntuali accordi, fra cui quello di limitare per venti anni la libera circolazione dell’immobile costruito su tale area, a decorrere dal rilascio dell’abitabilità, salvo l’obbligo del venditore di corrispondere al Comune una somma pari alla differenza tra il valore di mercato dell’area al momento dell’alienazione ed il prezzo di acquisto stabilito in convenzione, rivalutato ISTAT.

Il TAR ha escluso la propria giurisdizione, con la seguente motivazione: "ritiene il Collegio che, pacificamente, il punto della controversia non attiene all’osservanza e puntuale esecuzione degli obblighi di convenzione, con specifico riguardo ai profili di interesse pubblico sottesi alla peculiare condizione degli alloggi destinati ad edilizia popolare. Invero, nella fattispecie si tratta unicamente di valutare in quali termini deve essere corrisposta dalle ricorrenti la somma dovuta in conseguenza dell’alienazione dell’immobile, una volta decorso il termine ventennale imposto in considerazione della peculiare destinazione dello stesso, termine che aveva limitato la libera disponibilità dell’immobile da parte del proprietario. Risulta evidente che oggetto del contendere non sono questioni inerenti il rapporto di concessione, che ha ormai esaurito i propri effetti, e della cui corretta esecuzione non vi è contestazione, bensì profili che attengono alla correttezza dei parametri di determinazione della somma da corrispondere all’amministrazione in occasione dell’alienazione a terzi dell’immobile. Non è configurabile quindi alcun potere discrezionale in capo al Comune circa la determinazione della somma da versare,così come non è riconducibile la determinazione impugnata all’esercizio di poteri autoritativi, di natura pubblicistica, riconducibili al rapporto di convenzione, da parte dell’amministrazione comunale. Sulla scorta degli insegnamenti dettati dalla Corte Costituzionale con la ben nota pronuncia n. 204/2004, è infatti necessario verificare, al fine di  stabilire la giurisdizione, se l’ente stia esercitando o meno un potere autoritativo, secondo la nozione comunemente fornita dalla teoria generale, nei confronti del quale deve essere assicurata la tutela davanti al giudice amministrativo. Orbene, un potere siffatto non è ravvisabile nelle fasi del rapporto tra la pubblica amministrazione e cittadini, assegnatari degli alloggi, nelle quali l’operare dell’amministrazione non è caratterizzato dall’esercizio di pubblici poteri, ma è incardinato nell’ambito del rapporto privatistico di locazione o di compravendita. Ne consegue che le determinazioni assunte dall’amministrazione in questa fase del rapporto non si riconducono all’esercizio di poteri pubblici, connotati dalla necessaria prevalenza dell’interesse collettivo su quello del singolo cittadino, ma si configurano quali atti di accertamento del rispetto da parte dell’assegnatario degli obblighi assunti al momento della stipula del contratto. In buona sostanza, la pretesa delle ricorrenti alla restituzione delle somme già versate ed il successivo diniego di restituzione opposto dal Comune si pongono al di fuori della fase pubblicistica del rapporto, non interessando l’adempimento di specifici obblighi di edificazione o di urbanizzazione gravanti sui privati, riconducendosi, al contrario, nell’ambito dei rapporti di carattere specificatamente patrimoniale riguardanti la libera circolazione dell’immobile realizzato su area compresa nel Peep. In questa fase, ove operano norme di relazione e non di azione e che non è connotata da profili di discrezionalità per quanto riguarda l’amministrazione, che, lo si ribadisce, non esercita poteri pubblici in  veste autoritativa per le finalità sottese alla realizzazione degli alloggi di edilizia popolare, vengono quindi a mancare i presupposti e le condizioni per radicare la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, trattandosi di controversia devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario. Per detti motivi il ricorso va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione, rientrando la controversia nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, davanti alla quale, ai sensi e nei termini indicati dall’art. 11 c.p.a., il presente giudizio potrà proseguire".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto n. 558 del 2014

Informazioni da trasmettere all’organo di vigilanza in caso di costruzione, realizzazione, ampliamenti e ristrutturazione di edifici o locali per lavorazioni industriali. (art. 67, comma 2, del D. Lgs. n. 81/2008)‏

15 Mag 2014
15 Maggio 2014

Con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali e del Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione, del 18 aprile 2014, sono state individuate, ex articolo 67, comma 2, del D. Lgs. n. 81/2008, secondo criteri di semplicità e comprensibilità, le informazioni da trasmettere all'organo di vigilanza in caso di costruzione e di realizzazione di edifici o locali da adibire a lavorazioni industriali, nonché nei casi di ampliamenti e di ristrutturazione di quelli esistenti.

Le informazioni da trasmettere nei casi su indicati potranno essere trasmesse all'organo di vigilanza utilizzando l'apposita modulistica disponibile nella presente sezione.

 L'avviso è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, serie Generale, n. 106 del 9 maggio 2014.

  

DECRETO LEGISLATIVO 9 aprile 2008, n. 81

 Attuazione dell'articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

 Art. 67. (( (Notifiche all'organo di vigilanza competente per territorio). ))
((1. In caso di costruzione e di realizzazione di edifici o  locali da adibire a lavorazioni industriali, nonche' nei casi di ampliamenti
e di ristrutturazioni di quelli esistenti
, i relativi  lavori  devono essere eseguiti nel rispetto della  normativa  di  settore  e  devono essere comunicati all'organo di vigilanza competente per territorio i seguenti elementi informativi:
a) descrizione dell'oggetto delle lavorazioni e delle  principali modalita' di esecuzione delle stesse;
b) descrizione delle caratteristiche dei locali e degli impianti.
2. Il datore di lavoro effettua la comunicazione di cui al comma  1 nell'ambito delle istanze, delle segnalazioni  o  delle  attestazioni presentate allo sportello unico per le attivita'  produttive  con  le modalita' stabilite dal regolamento di cui al decreto del  Presidente della Repubblica 7 settembre 2010, n. 160. Entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente  disposizione,  con  decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro  per la  pubblica  amministrazione  e  la  semplificazione,   sentita   la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le  regioni  e  le province autonome di Trento e di Bolzano, sono  individuate,  secondo criteri di semplicita' e  di  comprensibilita',  le  informazioni  da trasmettere e sono approvati i modelli uniformi da utilizzare  per  i fini di cui al presente articolo.
3. Le amministrazioni che ricevono le comunicazioni di cui al comma 1 provvedono a trasmettere in via telematica all'organo di  vigilanza competente per territorio  le  informazioni  loro  pervenute  con  le modalita' indicate dal comma 2.
4. L'obbligo di comunicazione di cui  al  comma  1  si  applica  ai luoghi di  lavoro  ove  e'  prevista  la  presenza  di  piu'  di  tre lavoratori.
5. Fino alla data di entrata in vigore del decreto di cui al  comma 2 trovano applicazione le disposizioni di cui al comma 1.))

La Corte Costituzionale dichiara la legittimità della SCIA

14 Mag 2014
14 Maggio 2014

La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 121 del 09 maggio 2014, si occupa della S.C.I.A. dichiarando da un lato che questo istituto si pone in continuità con la D.I.A. e dall’altro che esso rientra tra le materie di legislazione esclusiva statale previste dall’art. 117, c. 2, lett. m), Cost.

Ecco il passo saliente della sentenza: “L’art. 49, comma 4-ter, del d.l. n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 122 del 2010, così dispone: «Il comma 4-bis attiene alla tutela della concorrenza ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, e costituisce livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali ai sensi della lettera m) del medesimo comma. Le espressioni “segnalazione certificata di inizio attività” e “Scia” sostituiscono, rispettivamente, quelle di “dichiarazione di inizio attività” e “Dia”, ovunque ricorrano, anche come parte di una espressione più ampia, e la disciplina di cui al comma 4-bis sostituisce direttamente, dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, quella della dichiarazione di inizio attività recata da ogni normativa statale e regionale».

Ad avviso della ricorrente, tale disciplina si porrebbe in contrasto con la vigente normativa provinciale, anche nelle specifiche materie di competenza statutaria di cui agli artt. 8 (in particolare, nelle materie di cui al numero 5: «urbanistica e piani regolatori») e 9 dello statuto speciale (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 145 del 2005). E, ove pur si dovesse ravvisare un eventuale obbligo di adeguamento, imposto dall’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino Alto-Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), tale adeguamento dovrebbe comunque avvenire nelle forme e con le modalità di cui al citato art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992.

Orbene, si deve osservare che la disposizione censurata è già stata oggetto di scrutinio da parte di questa Corte nella sentenza n. 164 del 2012, in relazione a censure promosse da alcune Regioni a statuto ordinario e dalla Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, nonché nella sentenza n. 203 del 2012, con riferimento a censure mosse dalla Provincia autonoma di Trento.

In particolare, con quest’ultima sentenza, la Corte ha così argomentato:

«“La segnalazione certificata d’inizio attività” (d’ora in avanti, SCIA) si pone in rapporto di continuità con l’istituto della DIA, che dalla prima è stato sostituito. La DIA “denuncia di inizio attività” fu introdotta nell’ordinamento italiano con l’art. 19 della legge n. 241 del 1990, inserito nel Capo IV di detta legge, dedicato alla “Semplificazione dell’azione amministrativa”. Successivamente, con l’entrata in vigore del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato, nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, essa assunse la denominazione di “dichiarazione di inizio attività”.

Scopo dell’istituto era quello di rendere più semplici le procedure amministrative indicate nella norma, alleggerendo il carico di adempimenti gravanti sul cittadino. In questo quadro si iscrive anche la SCIA, del pari finalizzata alla semplificazione dei procedimenti di abilitazione all’esercizio di attività per le quali sia necessario un controllo della pubblica amministrazione.

Il principio di semplificazione, ormai da gran tempo radicato nell’ordinamento italiano, è altresì di diretta derivazione comunitaria (Direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno, attuata nell’ordinamento italiano con decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59). Esso, dunque, va senza dubbio catalogato nel novero dei principi fondamentali dell’azione amministrativa (sentenze n. 282 del 2009 e n. 336 del 2005)».

La citata sentenza n. 203 del 2012 così prosegue:

«Nella giurisprudenza di questa Corte si è più volte affermato che, ai fini del giudizio di legittimità costituzionale, la qualificazione legislativa non vale ad attribuire alle norme una natura diversa da quella ad esse propria, quale risulta dalla loro oggettiva sostanza. Per individuare la materia alla quale devono essere ascritte le disposizioni oggetto di censura, non assume rilievo la qualificazione che di esse dà il legislatore, ma occorre fare riferimento all’oggetto e alla disciplina delle medesime, tenendo conto della loro ratio e tralasciando gli effetti marginali e riflessi, in guisa da identificare correttamente anche l’interesse tutelato (ex plurimis: sentenze n. 207 del 2010; n. 1 del 2008; n. 169 del 2007; n. 447 del 2006; n. 406 e n. 29 del 1995).

In questo quadro, il richiamo alla tutela della concorrenza, effettuato dal citato art. 49, comma 4-ter, oltre ad essere privo di efficacia vincolante, è anche inappropriato. Infatti, la disciplina della SCIA, con il principio di semplificazione ad essa sotteso, si riferisce ad “ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale, il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale”, e per il quale “non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale”.

Detta disciplina, dunque, ha un ambito applicativo diretto alla generalità dei cittadini e perciò va oltre la materia della concorrenza, anche se è ben possibile che vi siano casi nei quali quella materia venga in rilievo. Ma si tratta, per l’appunto, di fattispecie da verificare in concreto (per esempio, in relazione all’esigenza di eliminare barriere all’entrata nel mercato).

Invece, a diverse conclusioni deve pervenirsi con riferimento all’altro parametro evocato dall’art. 49, comma 4-ter, del d.l. n. 78 del 2010, poi convertito in legge.

Detta norma stabilisce che la disciplina della SCIA, di cui al precedente comma 4-bis, costituisce livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. Analogo principio, con riferimento alla DIA, era stato affermato dall’art. 29, comma 2-ter, della legge n. 241 del 1990, come modificato dall’art. 10, comma 1, lettera b), della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), poi ancora modificato dall’art. 49, comma 4, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito in legge.

Tale autoqualificazione, benché priva di efficacia vincolante per quanto prima rilevato, si rivela corretta.

Al riguardo, va rimarcato che l’affidamento in via esclusiva alla competenza legislativa statale della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni è previsto in relazione ai “diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Esso, dunque, si collega al fondamentale principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. La suddetta determinazione è strumento indispensabile per realizzare quella garanzia.

In questo quadro, si deve ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, “l’attribuzione allo Stato della competenza esclusiva e trasversale di cui alla citata disposizione costituzionale si riferisce alla determinazione degli standard strutturali e qualitativi di prestazioni che, concernendo il soddisfacimento di diritti civili e sociali, devono essere garantiti, con carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto” (sentenze n. 322 del 2009; n. 168 e 50 del 2008; n. 387 del 2007).

Questo titolo di legittimazione dell’intervento statale è invocabile “in relazione a specifiche prestazioni delle quali la normativa statale definisca il livello essenziale di erogazione” (sentenza n. 322 del 2009, citata; e sentenze n. 328 del 2006; n. 285 e n. 120 del 2005), e con esso è stato attribuito “al legislatore statale un fondamentale strumento per garantire il mantenimento di una adeguata uniformità di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale decisamente accresciuto” (sentenze n. 10 del 2010 e n. 134 del 2006).

Si tratta, quindi, come questa Corte ha precisato, non tanto di una “materia” in senso stretto, quanto di una competenza del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie, in relazione alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare in modo generalizzato sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle (sentenze n. 322 del 2009 e n. 282 del 2002).

Alla stregua di tali principi, la disciplina della SCIA ben si presta ad essere ricondotta al parametro di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. Tale parametro permette una restrizione dell’autonomia legislativa delle Regioni, giustificata dallo scopo di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti civili e sociali tutelati dalla stessa Costituzione. In particolare, “la ratio di tale titolo di competenza e l’esigenza di tutela dei diritti primari che è destinato a soddisfare consentono di ritenere che esso può rappresentare la base giuridica anche della previsione e della diretta erogazione di una determinata provvidenza, oltre che della fissazione del livello strutturale e qualitativo di una data prestazione, al fine di assicurare più compiutamente il soddisfacimento dell’interesse ritenuto meritevole di tutela (sentenze n. 248 del 2006, n. 383 e n. 285 del 2005), quando ciò sia reso imprescindibile, come nella specie, da peculiari circostanze e situazioni, quale una fase di congiuntura economica eccezionalmente negativa” (sentenza n. 10 del 2010, punto 6.3 del Considerato in diritto).

Orbene – premesso che l’attività amministrativa può assurgere alla qualifica di “prestazione”, della quale lo Stato è competente a fissare un livello essenziale a fronte di uno specifico diritto di individui, imprese, operatori economici e, in genere, soggetti privati – la normativa qui censurata prevede che gli interessati, in condizioni di parità su tutto il territorio nazionale, possano iniziare una determinata attività (rientrante nell’ambito del citato comma 4-bis), previa segnalazione all’amministrazione competente. Con la presentazione di tale segnalazione, il soggetto può dare inizio all’attività, mentre l’amministrazione, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti legittimanti, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione (trenta giorni nel caso di SCIA in materia edilizia), adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa, salva la possibilità che l’interessato provveda a conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi effetti entro un termine fissato dall’amministrazione.

Al soggetto interessato, dunque, si riconosce la possibilità di dare immediato inizio all’attività (è questo il principale novum della disciplina in questione), fermo restando l’esercizio dei poteri inibitori da parte della pubblica amministrazione, ricorrendone gli estremi. Inoltre, è fatto salvo il potere della stessa pubblica amministrazione di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli artt. 21-quinquies e 21-nonies della legge n. 241 del 1990.

Si tratta di una prestazione specifica, circoscritta all’inizio della fase procedimentale strutturata secondo un modello ad efficacia legittimante immediata, che attiene al principio di semplificazione dell’azione amministrativa ed è finalizzata ad agevolare l’iniziativa economica (art. 41, primo comma, Cost.), tutelando il diritto dell’interessato ad un sollecito esame, da parte della pubblica amministrazione competente, dei presupposti di diritto e di fatto che autorizzano l’iniziativa medesima»”. 

dott. Matteo Acquasaliente

C. Cost. n. 121 del 2014

Spetta al sindaco o al dirigente nominare l’avvocato per un processo?

14 Mag 2014
14 Maggio 2014

Segnaliamo sulla questione la sentenza del Consiglio di Stato n. 1954 del 2014, dove si legge che: "2a Oppone la difesa di parte appellata che il Sindaco non sarebbe stato competente alla nomina del difensore, in quanto la relativa scelta ricadrebbe tra le attività gestionali di competenza dei dirigenti dell’Amministrazione, e segnatamente del capo dell’ufficio legale. L’eccezione è priva di pregio.

2b La Sezione deve preliminarmente rilevare, alla stregua di una consolidata giurisprudenza civile, che l’atto di riassunzione del processo interrotto non ha natura di atto introduttivo di un nuovo giudizio: non dà vita, cioè, ad un nuovo processo, diverso ed autonomo dal precedente, ma mira unicamente a far riemergere questo dallo stato di  quiescenza in cui versa, rimanendo però in vita in forza dell’originaria domanda giudiziale. Onde il compimento dell’atto di riassunzione non esige il conferimento di una nuova procura ad litem, che del resto non compare tra le componenti dello stesso atto indicate dall’art. 125, n. 2, disp. att. c.p.c. (Cass. civ., Sez. I, n. 14100 del 23 settembre 2003; Sez. II, n. 4045 del 16 aprile 1991; Sez. III, n. 6888 dell’11 agosto 1987). Da qui l’irrilevanza pratica della supposta illegittimità del nuovo mandato.

2c Fermo questo aspetto, vale però soprattutto osservare, sul merito della questione posta, quanto segue. Il decreto sindacale con il quale sono state disposte la riassunzione del giudizio e la conferma dell’incarico professionale di difesa dell’Ente pone a proprio fondamento l’art. 70, comma 2, dello Statuto comunale. E la difesa comunale ha fatto notare, senza incontrare obiezioni sul punto, che tale norma statutaria conferisce al Sindaco, con la rappresentanza legale dell’Ente, il potere di promuovere e resistere alle liti ed i correlativi poteri di conciliare, rinunciare, transigere e di conferire la procura alle liti, sentiti facoltativamente la Giunta o il dirigente competente a seconda che si verta in materia di atti di governo o di gestione. La norma statutaria legittima, quindi, la competenza sindacale in materia. Questa conclusione è inoltre avvalorata dalla sovraordinata normativa generale, nell’interpretazione comunemente datane dalla Sezione. La posizione della Sezione sul tema è stata ricordata con chiarezza, di recente, dalla decisione 7 febbraio 2012 n. 650, con la quale è stato  rilevato che “la decisione di agire e resistere in giudizio ed il conferimento del mandato alle liti competono in via ordinaria e salva deroga statutaria, al rappresentante legale dell'ente, senza bisogno di autorizzazione della giunta o dei dirigente competente ratione materiae (C.d.S., sez. V, 18 marzo 2010, n. 1588; 7 settembre 2007, n. 4721, 16 febbraio 2009, n. 848; sez. VI, 1° ottobre 2008, n. 4744; 9 giugno 2006, n. 3452; Cass. civ. sez. I, 17 maggio 2007, n. 11516), ferma restando tuttavia la possibilità dello statuto (competente a stabilire i modi di esercizio della rappresentanza legale dell'ente, anche in giudizio) di prevedere l'autorizzazione della giunta (ovvero di richiedere una preventiva determinazione del dirigente ovvero ancora di postulare l'uno e l'altro intervento) (Cass. SS.UU., 16 giugno 2005, n. 12868).” Poco dopo, questa stessa Sezione con la decisione 11 maggio 2012 n. 2730 ha specificamente disatteso la tesi che vedrebbe attribuito al dirigente ratione materiae il compito di scegliere il legale e, comunque, di autorizzare il conferimento del relativo patrocinio, osservando nell’occasione quanto segue: “La Sezione non ravvisa ragione di discostarsi dall'orientamento interpretativo secondo cui compete al Sindaco o al Presidente della Provincia, ai sensi del D.lgs. n. 267/2000, quale organo di rappresentanza dell'ente, il conferimento della procura alle liti del difensore senza la necessità di alcuna preventiva autorizzazione (Cons. St., Sez. VI, 1° ottobre 2008, n. 4744; Cons. St., Sez. VI, 9 giugno 2006, n. 3452; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VII, 5 dicembre 2006 n. 10402; Cass. civ., Sez. Un., 10 dicembre 2002, n. 17550).” 

2d Per quanto precede l’eccezione si manifesta infondata".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza CDS 1954 del 2014

Anche nel processo amministrativo l’interruzione del processo per morte o perdita di capacità processuale della parte costituita non è automatica

14 Mag 2014
14 Maggio 2014

Segnaliamo sulla questione la sentenza del Consiglio di Stato n. 1954 del 2014: "3 Altra eccezione di parte appellata riguarda la presunta tardività della riassunzione. 

3a Il decesso del sig. Salvatore Capone, viene dedotto, era stato reso noto già in data 12 novembre 2012 mediante la produzione in giudizio del relativo certificato di morte: sicché il perentorio termine trimestrale per la riassunzione prescritto dall’art. 80, comma 3, C.P.A., sarebbe scaduto sin dal 12 febbraio 2013. Viene fatto altresì notare che il Comune aveva avuto contezza dell’evento ben prima dell’udienza pubblica del 25 giugno 2013 in cui lo stesso aveva formato oggetto di formale dichiarazione, tanto è vero che risaliva al precedente 27 maggio, data anteriore a quella di tale dichiarazione, il decreto n. 47 con il quale il Sindaco aveva già disposto la riassunzione del giudizio e la conferma dell’incarico professionale in capo al difensore inizialmente officiato. E’ infine rappresentato che il Comune, per il fatto di tenere i Registri dello Stato civile, era aborigine a conoscenza dell’intervenuto decesso, risalente al 2 ottobre 2010.

3b Anche questa eccezione è priva di fondamento.

3c In aderenza alla disciplina dettata dall’art. 300 c.p.c. la difesa comunale ha esattamente obiettato:
- che la morte di una parte non determina l’interruzione del giudizio ove l’evento non sia stato dichiarato in udienza dal suo difensore, oppure notificato alle altre parti in causa;
- che, per la stessa ragione, al fine indicato non rileva nemmeno quell’astratta conoscibilità di un decesso, da parte di un Comune, che
potrebbe essere fatta risalire alla tenuta dei registri dello Stato civile;
- che il mero deposito presso la Segreteria della Sezione del relativo certificato di morte, in assenza di qualsivoglia forma di avviso, non vale  ad integrare una comunicazione dell’evento interruttivo alle altre parti, le quali non hanno alcun onere di verifica periodica del contenuto del fascicolo processuale.

3d Va ricordato, infatti, che, mentre l’art. 79, comma 2, C.P.A. stabilisce che “L’interruzione del processo è disciplinata dalle disposizioni del codice di procedura civile”, l’art. 300 c.p.c.. così richiamato, dal canto suo, recita: “Se alcuno degli eventi previsti nell'articolo precedente si avvera nei riguardi della parte che si è costituita a mezzo di procuratore, questi lo dichiara in udienza o lo notifica alle altre parti. Dal momento di tale dichiarazione o notificazione il processo è interrotto …”. Della riassunzione del processo interrotto si occupa invece specificamente l’art. 80 C.P.A., che, nel suo ultimo comma, dispone che il processo debba essere riassunto “…a cura della parte più diligente, con apposito atto notificato a tutte le altre parti, nel termine perentorio di novanta giorni
dalla conoscenza legale dell’evento interruttivo acquisita mediante dichiarazione, notificazione o certificazione.”

3e Dal quadro esposto si desume, quindi, che nell'attuale sistema del processo civile ed amministrativo l’interruzione del processo per morte o perdita di capacità processuale della parte costituita non è frutto di un automatismo, ma consegue esclusivamente ad un’apposita dichiarazione fatta dal procuratore della parte stessa (cfr. Corte Cost., 10 aprile 2002, n. 102). Un eventuale evento interruttivo, cioè, per poter assurgere a rilevanza nel processo deve necessariamente essere rilevato nei modi di cui agli artt. 299 e ss. cod. proc. civ., la cui disciplina è richiamata dall'art. 79, comma 2, C.P.A., ossia mediante dichiarazione o notificazione  dell'evento ad opera del procuratore costituito per la parte colpita dall'evento interruttivo (v. C.d.S., VI, 27 ottobre 2011, n. 5788), forme di comunicazione dell’evento che non ammettono equipollenti: laddove in mancanza di tale dichiarazione o notificazione da parte del difensore della parte colpita il processo prosegue (C.d.S., V, 12 luglio 1996, n. 857; 29 maggio 2000, n. 3090; VI, 10 aprile 2003, n. 1906). Più ampiamente, la dinamica del meccanismo interruttivo è stata nitidamente illustrata dalla giurisprudenza civile nei seguenti termini. “ … l'incidenza dell'evento morte di una parte costituita con procuratore, verificatosi durante il giudizio di primo grado o d'impugnazione è regolata dall'art. 300 cod. proc. civ. e, pertanto, essendo indispensabile e insostituibile ai fini di tale incidenza la comunicazione formale dell'evento da eseguirsi dal procuratore della parte deceduta e non avendo rilevanza la conoscenza che dell'evento stesso le altre parti abbiano avuto eventualmente "aliunde", l'effetto interruttivo delprocesso è prodotto da una fattispecie complessa, costituita dal verificarsi dell'evento o dalla dichiarazione in udienza o dalla notificazione fatta dal procuratore alle altre parti. Dichiarazione o notificazione che soltanto il procuratore della parte defunta può discrezionalmente non fare o fare nel momento da lui giudicato più opportuno per provocare l'interruzione del processo, la quale non si verifica in modo automatico come conseguenza diretta ed esclusiva della morte della parte a cui, quindi, deve essere notificato l'atto d'impugnazione, perché considerata ancora in vita nel caso in cui della propria morte il suo procuratore abbia omesso la dichiarazione in udienza o la notificazione alle altre parti” (Cass.civ., II, 5 giugno 1990, n. 5391). 

3f In coerenza con le coordinate esposte, la giurisprudenza di questo Consiglio ha avuto già modo di stabilire che ove, come nella specie, il difensore della parte colpita dall’evento interruttivo si sia limitata a  depositare in atti una copia del certificato di morte, senza nulla dichiarare ai fini dell'interruzione del processo, non sono con ciò integrati presupposti rilevanti ai fini dell'interruzione ex art. 300 c.p.c., poiché manca una dichiarazione del procuratore costituito o una notificazione dell'evento ai sensi del medesimo articolo (C.d.S., VI, 10 aprile 2003, n. 1906). Analogamente, con la decisione della Sez. IV n. 199 del 30 marzo 1987 è stato deciso che la comunicazione della morte del ricorrente depositata nella segreteria dell'organo giudicante dal procuratore costituito non è idonea ad integrare l'interruzione del processo prevista e disciplinata dall'art. 300 c.p.c., non essendo stata formulata in uno dei due modi previsti tassativamente dalla legge (dichiarazione in udienza o notifica alle altre parti).

3g Quanto precede è ampiamente sufficiente ad escludere che il mero fatto della produzione in giudizio, in data 12 novembre 2012, del
certificato di morte del sig. Salvatore Capone potesse valere a far partire il corso del termine trimestrale prescritto dall’art. 80 C.P.A. ai fini della riassunzione del processo. Non solo, invero, il fatto della relativa produzione documentale non permetteva di perfezionare la fattispecie di un evento interruttivo ai sensi dell’art. 300 c.p.c., giusta quanto fin qui illustrato; ma il fatto medesimo neppure generava una “conoscenza legale dell’evento” stesso, come invece richiesto dall’art. 80 cit. ai fini dell’avvio della decorrenza
del termine perentorio di cui si tratta (“…dalla conoscenza legale dell’evento interruttivo acquisita mediante dichiarazione, notificazione o certificazione”). 

3h Sotto quest’ultimo profilo la difesa comunale ha osservato che, a tutto voler concedere, ci si potrebbe al più attendere che un difensore verifichi il contenuto del fascicolo processuale, per accertare l’eventuale produzione documentale avversaria, in concomitanza con il termine di quaranta giorni prima dell’udienza di trattazione prescritto dall’art. 73 C.P.A. per il deposito in giudizio di documenti (ciò che nel caso concreto aveva effettivamente permesso al legale del Comune di avere contezza del decesso, e di informarne l’Amministrazione prima dell’udienza). Anche a voler far decorrere, tuttavia, il termine perentorio per la
riassunzione ancorandolo ipoteticamente a tale data (nella specie, cadente il 15 maggio 2013), la riassunzione operata dal Comune, tenuto conto della sospensione feriale, risulterebbe comunque tempestiva. 

3i Anche l’eccezione di tardività della riassunzione deve dunque essere disattesa".

Dario Meneguzzo - avvocato

E’ valida la notifica fatta al familiare si sia trovato nella casa ed abbia preso in consegna l’atto anche se risulti residente da un’altra parte?

14 Mag 2014
14 Maggio 2014

La sentenza del Consiglio di Stato n. 1954 del 2014 si occupa, tra l'altro, del concetto di familiare convivente, ai fini della validità delle notificazioni.

Si legge nella sentenza: "Restano da esaminare le eccezioni che riguardano la ritualità delle notifiche dell’atto comunale di riassunzione. Tali eccezioni investono due aspetti distinti.

4a Un primo profilo sollevato riguarda le notifiche dell’atto di riassunzione effettuate, a mezzo posta, ai sigg.ri Pietro e Simone Capone. Queste sarebbero nulle, poiché in entrambi i casi la copia dell’atto giudiziario sarebbe stata consegnata al fratello dei predetti, sig. Capone Giorgio, presso il suo domicilio alla via Ravenna 43. Questi, viene precisato, non conviveva neppure temporaneamente con i fratelli Pietro  e Simone; né del resto una prova della detta convivenza temporanea era stata fornita.

4b In proposito la difesa di parte appellante ha tuttavia fondatamente replicato che dai pertinenti avvisi di ricevimento si desumeva che i relativi plichi erano stati consegnati proprio presso i rispettivi domicilii dei destinatari e non già al civico 43 di via Ravenna, come riferito invece ex adverso con asserto che, figurando contraddetto da risultanze documentali che la giurisprudenza reputa assistite da efficacia probatoria privilegiata (Cass.civ., Sez. I, 22 novembre 2006, n. 24852; Sez. II, 22 aprile 2005, n. 8500), non può che essere giudicato recessivo. Quanto alla circostanza che la consegna del plico sia stata effettuata in entrambi i casi nelle mani del fratello Giorgio, occorre sottolineare che i relativi avvisi di ricevimento, sottoscritti in calce dal consegnatario, definivano il medesimo in entrambi i casi quale “familiare convivente – fratello”. Ciò posto, correttamente la difesa comunale si è richiamata alla
presunzione di convivenza temporanea del familiare nell’abitazione del destinatario, che la giurisprudenza afferma operante per il sol fatto che il familiare si sia trovato nella casa ed abbia preso in consegna l’atto. La presunzione così invocata potrebbe essere vinta solo dalla prova contraria fornita dall’interessato avente ad oggetto la mancanza di alcuna pur temporanea convivenza. Non solo, però, tale prova contraria non è stata fornita; ma la parte costituita non ha nemmeno escluso che il plico sia pervenuto al destinatario. Onde anche questa eccezione risulta infondata. 

4c A conferma dell’inconsistenza dell’eccezione giova riportare l’approfondito quadro della materia recentemente fornito dalla Suprema Corte con la pronuncia della Sez. I, 25 luglio 2013, n. 18085. “E' opportuno riportare, nella parte che qui rileva, la L. n. 892 del 1980, art. 7, commi 1 e 2, che, nel disciplinare le modalità di notificazione a mezzo posta, dispone: L' agente postale consegna il piego nelle mani proprie del destinatario, anche se dichiarato fallito. Se la consegna non può essere fatta personalmente al destinatario, il piego è consegnato, nel luogo indicato sulla busta che contiene l'atto da notificare, a persona di famiglia che conviva anche temporaneamente con lui ovvero addetta alla casa ...". Tra i due requisiti previsti dalla norma, della quale è stata rimarcata la differenza con il disposto di cui all'art. 139 c.p.c., comma 2 (che si limita ad indicare la consegna ad una persona di famiglia, senza alcun accenno al secondo requisito), la giurisprudenza ha ritenuto sussistente un vincolo presuntivo, del primo rispetto al secondo requisito, ritenendo che la notificazione mediante consegna a persona di famiglia richiede che l'atto da notificare sia consegnato a persona che, pur non avendo uno stabile rapporto di convivenza con il notificando, sia a lui legato da vincolo di parentela, che giustifichi la presunzione di sollecita consegna; presunzione superabile da parte del notificando, che assuma di non avere ricevuto l'atto, con la dimostrazione della presenza occasionale e temporanea del familiare consegnatario (così le pronunce 187/2000, 5671/1997, 7371997). Ed ancora più chiaramente, la pronuncia 9928/2001 si è espressa nel senso di ritenere che il disposto normativo, che regolamenta la dazione del piego postale a consegnatari qualificati del destinatario assente, "pone certamente l'esigenza che il familiare sia convivente, anche in termini di assoluta temporaneità, con tale espressione intendendosi un minimo di stabilità della presenza del soggetto- familiare  nell' abitazione del destinatario, che faccia ritenere certa la sollecita consegna del piego. Ma se tale è la formula adottata, è anche palese che il testo non impone alcuna indicazione, nella formula notificatoria, della convivenza, posto che, come più volte da questa Corte precisato, viene instaurata la presunzione della convivenza temporanea del familiare nella abitazione del destinatario per il solo fatto che detto familiare si sia trovato nella casa ed abbia preso in consegna l'atto (Cass. 1843/98 - 7544/97 - 615/95 - 6100/94 - 2348/94), presunzione certamente superabile da prova contraria fornita dall'interessato (e ad oggetto la carenza di alcuna pur temporanea convivenza) e sulla quale il legislatore ha fondato l'ulteriore presunzione normativa, quella di consegna immediata dell'atto al suo destinatario da parte del ridetto familiare" (Cass. civ., Sez. I, n. 18085/2013; la stessa Suprema Corte poco prima, con la decisione della Sez. III, 26 ottobre 2009, n. 22607, aveva svolto considerazioni analoghe).

4d Le notifiche dell’atto di riassunzione effettuate ai sigg.ri Pietro e Simone Capone risultano pertanto immuni dal vizio testé esaminato".

Dario Meneguzzo - avvocato

Convegno sulla microassicurazione

14 Mag 2014
14 Maggio 2014

La Associazione Internazionale di Diritto delle Assicurazioni Sez. Veneto Trentino Alto Adige (AIDA) organizza il convegno sulla "microassicurazione" , presso Auditorium G. Bisoffi Lungadige Cangrande, 16 Verona, 23 maggio 2014, ore 15.00 - 19.00.

La partecipazione al convegno è gratuita e comporta il riconoscimento di tre crediti per la formazione continua. Per le iscrizioni inoltrare la domanda per posta elettronica al seguente indirizzo: aidavenetotrentinoaltoadige@gmail.com

PROGRAMMA CONVEGNO VERONA AIDA VENETO TRENTINO ALTO ADIGE

Il TAR Veneto si allinea al CdS: negli accordi art. 6 deve sussistere una stretta correlazione tra l’intervento edilizio e la localizzazione dello standard perequativo

13 Mag 2014
13 Maggio 2014

Segnaliamo in materia di perequazione la sentenza del TAR Veneto n. 590 del 2014, che mette  un paletto a una figura che, peraltro, non smette di sollevare in molti interpreti perplessità anche di ordine generale. 

Scrive il TAR: "2. Ciò premesso è possibile concentrarsi sull’esame del merito del ricorso, rilevando sin d’ora come risulti fondato il primo motivo, laddove si sostiene il venire in essere di un illegittimità derivata, riconducibile all’illegittimità degli atti impugnati nel ricorso RG 896/2011, limitatamente a quanto successivamente disposto dalla sentenza n. 616/2014 del Consiglio di Stato.

2.1 Con detta pronuncia si è, infatti, sancita l’illegittimità del Piano degli Interventi nella parte in cui aveva posto a carico dell’impresa controinteressata una modalità di perequazione che prevedeva la realizzazione di una piazza (denominata Piazza della Vittoria), posta in una località non immediatamente contigua all’intervento oggetto del accordo pubblico – privato di cui all’App 16.

Si era così disposta non solo l’illegittimità in parte qua del primo Piano degli Interventi, ma soprattutto l’illegittimità dell’App 16, approvata dapprima con la delibera del Consiglio comunale n. 07 del 23/02/2011 e poi recepita nel PI n. 2.

2.2 Risultano, infatti, condivisibili le osservazioni cui è pervenuto il Consiglio di Stato nella pronuncia sopra citata, laddove si è evidenziata l’esistenza di un quadro giurisprudenziale diretto a rilevare una stretta correlazione tra l’intervento edilizio e la localizzazione dello standard.

Si è ritenuto, pertanto, che la previsione contenuta nell’App 16 contrasta con il criterio di radicamento territoriale degli standard sopra evidenziato, circostanza suscettibile di determinare un effettivo contrasto degli atti impugnati con il primo ricorso, e con quello ora sottoposto al presente Collegio, con l'art. 46 delle norme tecniche del PAT con consequenziale declaratoria di illegittimità in parte qua.

2.3 Nella rimanente parte della pronuncia il Consiglio di Stato ha, inoltre, confermato le conclusioni cui era giunto questo Tribunale che aveva ritenuto di rigettare i motivi ulteriori, mediante i quali si era proposta l’impugnazione avverso il primo piano degli interventi.

2.4 Va rilevato come sussista una stretta correlazione tra il procedimento che ha portato all’approvazione del primo Piano degli interventi, nella parte in cui approva l’App 16 e, ancora, le delibere in questa sede impugnate nella parte in cui anche queste ultime ritengono di confermare le statuizioni in precedenza espresse e con riferimento all’accordo pubblico - privato oggetto dell’App.

2.5 Questo Collegio ritiene infatti, di condividere le conclusioni cui è giunta la pronuncia del Consiglio di Stato n. 616/2014 nella parte in cui ha, altresì, rigettato l’eccezione di improcedibilità che, a sua volta, aveva come presupposto proprio l’avvenuta emanazione degli atti relativi al Piano degli Interventi n. 2 ora impugnati.

2.6 Al fine di accogliere la censura di illegittimità derivata risulta, infatti, dirimente constatare che la delibera n. 15 del 2012 di adozione del Piano degli Interventi n. 2 sancisce, espressamente, che quest’ultima “recepisce il piano degli interventi vigenti conseguentemente le previsioni urbanistiche rimangono sostanzialmente invariate” e che, ancora, “per quanto riguarda la variante approvata dal consiglio comunale con la deliberazione n. 7 del 23/02/2011 su proposta della ditta Cama, si confermano i contenuti della predetta deliberazione, conformandoli al presente piano degli interventi”.

2.7 L’espressa dizione diretta a confermare i contenuti di un provvedimento ora in parte annullato, deve ritenersi inequivocabile diretta ad includere, nell’ambito del Piano degli Interventi ora impugnato, i contenuti dell’App 16 nella parte in cui quest’ultimo comprende, ancora, la realizzazione di Piazza della Vittoria, opera la cui previsione era stata ritenuta essere in violazione dei principi in materia di standard e di perequazione urbanistica.

2.8 A fronte del dato letterale presente nella delibera n. 15/2012 si deve ritenere come le delibere relative al Piano degli Interventi n. 2, per quanto attiene i contenuti dell’App 16, si pongano nell’ambito di un unico segmento procedimentale, finalizzato a reintrodurre una determinata pianificazione urbanistica di un’area ben individuata.

2.9 Detto segmento procedimentale, pur essendo stato inserito nell’ambito di un nuovo - e più ampio - procedimento di approvazione di un nuovo Piano degli Interventi, si è concluso con l’adozione di un atto confermativo che, in quanto tale, ha inteso riprodurre le medesime previsioni urbanistiche di un atto in precedenza annullato.

2.10 E’ la stessa Amministrazione comunale a ricordare le circostanze in relazione alle quali era maturata l’esigenza di approvare nuovamente l’App. 16, esigenza venuta in essere al fine di consentire all’Amministrazione comunale, per il tramite del Consiglio comunale, di approvare, specificatamente e sul punto, l’oggetto dell’accordo di cui si tratta.

2.11 Si consideri ancora, come detta illegittimità sia stata immediatamente eccepita dalla ricorrente all’atto di proposizione del ricorso, facendo un espresso rinvio a tutti i vizi in precedenza dedotti.

E’ evidente che in quella fase il ricorrente non conosceva, ancora, gli esiti della sentenza del Consiglio di Stato che ha poi individuato quell’unico vizio suscettibile di annullare l’App. 16.

2.11 Sostenere, come fanno le parti resistenti, che sussisteva un onere di indicare espressamente il vizio di invalidità derivata così come poi accolto dal Consiglio di Stato, non tiene conto delle peculiarità della fattispecie in esame e, nel concreto, avrebbe l’effetto di porre nel nulla la stessa pronuncia del Consiglio di Stato n. 616/2014, legittimando il comportamento dell’Amministrazione comunale diretto ad emanare un nuovo provvedimento che sostanzialmente ricomprende i vizi del precedente.

2.12 Si consideri, ancora, che il Piano degli Interventi n. 2, nella parte in cui conferma le previsioni dell’App. 16 in precedenza annullate, risulterebbe comunque nullo ab origine laddove, e nel momento in cui, sia possibile accertare il passaggio in giudicato della sentenza n. 616/2014.

Sul punto, infatti, risulterebbe applicabile l’art. 21 septies della L. n. 241/90 che, unitamente ad un costante orientamento giurisprudenziale (T.A.R. Puglia Bari Sez. I, 06-11-2013, n. 1506), ha ravvisato l’applicazione di detto istituto nell’ipotesi in cui l’Amministrazione “cerchi di realizzare il medesimo risultato con un'azione connotata da un manifesto sviamento di potere, mediante l'esercizio di una potestà pubblica formalmente diversa in palese carenza dei presupposti che lo giustificano…”.

2.13 E’, inoltre, necessario considerare come, nelle successive memorie, l’Amministrazione comunale ha riferito di aver attivato il procedimento di esecuzione della sentenza n.616/2014 al fine di modificare gli oneri perequativi contenuti nelle delibere impugnate con il ricorso RG 896/2011.

2.14 Con riferimento a detta circostanza non si comprende come sia possibile attivare un procedimento diretto a rideterminare la perequazione urbanistica in precedenza disposta e nel contempo sostenere, nel presente giudizio, la legittimità di quel provvedimento che pure contiene l’esecuzione delle opere ritenute illegittime.

2.15 In considerazione di quanto sopra esplicitato è, pertanto, possibile ritenere che la già accertata illegittimità del contenuto dell’App. 16 a seguito della sentenza del Consiglio di Stato n. 616/2014 ha l’effetto di determinare l’illegittimità derivata, seppur anche qui in parte qua, dei provvedimenti di adozione e approvazione del PI n. 2 in questa sede impugnati".

Geom. Daniele Iselle

sentenza TAR Veneto 590 del 2014

Il Tar Veneto “reintroduce” il parere (facoltativo?) di compatibilità “paesaggistica” sui PUA – ex art. 16 comma 3 della L. n. 1150/1942?‏

13 Mag 2014
13 Maggio 2014

Segnaliamo sulla questione la sentenza del TAR Veneto n. 587 del 2014, in relazione al fatto che la legge regionale veneta non prevede la necessità di tale parere.

Scrive il TAR: "1.4 Va, infatti, considerato che la necessità di richiedere l’autorizzazione paesaggistica nel procedimento diretto all’approvazione di un piano di lottizzazione trova un riscontro positivo sia, nell’art. 16 comma 3 della L. n. 1150/1942 sia, ancora, nell’art. 28 della stessa normativa, disciplina quest’ultima che, per quanto attiene i principi in materia ambientale, non può considerarsi automaticamente superata con l’introduzione della Legge Reg. n. 11/2004.

1.5 Un orientamento giurisprudenziale, seppur non univoco (T.A.R. Lombardia Brescia Sez. I, Sent., 08-04-2010, n. 1511), ha previsto l’applicabilità dell’art. 28 comma 2 della legge 17 agosto 1942 n. 1150, ritenendo necessaria una valutazione di compatibilità ambientale nel procedimento di approvazione dei piani di lottizzazione.

Si è affermato che l’art. 28 sopra citato “estende ai piani di lottizzazione la necessità di una valutazione sotto il profilo paesistico indipendentemente dalla presenza di un vincolo paesistico-ambientale. Qualora un tale vincolo sussista, tanto per l'intervento di una dichiarazione di notevole interesse pubblico riferita a un bene determinato (art. 136 e 157 del Dlgs. 42/2004) quanto per effetto della tutela ex lege dei contesti ambientali (art. 142 del Dlgs. 42/2004), è necessaria una vera e propria autorizzazione paesistica, sottoposta all'epoca dei fatti, ossia nel regime transitorio, al potere di annullamento ministeriale ex art. 159 del Dlgs. 42/2004”.

1.6 Si consideri, ancora che, a prescindere dal procedimento di approvazione dei Piani Attuativi disciplinato dagli artt. 19 e 20 della L. Reg. n. 11/2004, deve ritenersi che sussista, comunque, la facoltà del Comune di acquisire il parere di compatibilità paesaggistica e, ciò, anche in considerazione del carattere di atto “presupposto” tipico della valutazione paesaggistica, rispetto al provvedimento abilitativo di competenza dell’Amministrazione comunale.

1.7 Come ha, peraltro, confermato anche la pronuncia sopra citata, nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico – ambientale, l’esercizio del potere da parte della Soprintendenza ha il solo effetto di anticipare l’espressione di una valutazione pur sempre indispensabile e propedeutica all’esecuzione dell’intervento di cui si tratta.

Detta acquisizione preventiva può, altresì, essere iscritta alla richiesta di un apporto collaborativo da parte dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo e, ciò, fermo restando il rispetto dei principi di ripartizione delle competenze nell’emanazione dell’atto definitivo.

1.8 Va, altresì, considerato che un tale modo di operare ha l’effetto di incidere su un piano di economia dei procedimenti, consentendo di non approvare, ai fini edilizi, progetti che non avrebbero alcuna possibilità di superare la prova di conformità paesistica".

Segnaliamo, peraltro,  i precedenti opposti orientamenti espressi sempre del medesimo TAR. 

Sentenza TAR Veneto n. 03285/2010, punto 6:  "Con il settimo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano l’illegittimità della delibera del Consiglio per violazione dell’art. 16, comma 3, della legge n. 1150/1942 muovendo dall’assunto che il P.U.A. impugnato, nonostante interessi un’area vincolata, non è stato sottoposto all’esame della Soprintendenza competente prima della sua adozione e approvazione.

E, in particolare, dal parere del responsabile dell’Ufficio Pianificazione emergerebbe l’esistenza di una striscia di bosco in prossimità della linea ferroviaria e di un corso d’acqua che interessa una modesta porzione del lato sud est del lotto.

La censura è infondata.

Ai sensi dell’art. 16, comma 3, della legge n. 1150/1942 “I piani particolareggiati nei quali siano comprese cose immobili soggette alla legge 1 giugno 1939, n. 1089, sulla tutela delle cose di interesse artistico o storico, e alla legge 29 giugno 1939, n. 1497, sulla protezione delle bellezze naturali, sono preventivamente sottoposti alla competente Soprintendenza ovvero al Ministero della pubblica istruzione quando sono approvati con decreto del Ministro per i lavori pubblici.”.

Orbene, il procedimento di adozione e di approvazione dei P.U.A. risulta integralmente disciplinato dalla L.R. n. 11/2004 e conseguentemente non vi è alcuna lacuna nella relativa disciplina tale da richiedere l’applicazione della normativa nazionale.

Del resto tale principio risulta affermato anche nella sentenza del T.A.R. Lombardia – Milano n. 6541/2007, richiamata dai ricorrenti a fondamento della tesi della violazione del citato art. 16, comma 3, della legge n. 1150/1942, laddove la detta pronuncia giustifica l’applicabilità, alla fattispecie sottoposta al suo esame, della soprarichiamata disposizione nazionale relativa alla mancata inclusione della stessa nell'art. 103 della L.R. Lombardia n. 12/2005 (rubricato "disapplicazione di norme statali") tra le normative da disapplicare a seguito della entrata in vigore della legge regionale".

 Sentenza TAR Veneto n. 2223/2006: "Se, invero, può convenirsi con il Comune resistente sulla circostanza che, quanto meno relativamente a determinati aspetti (concernenti il complessivo assetto territoriale risultante dal piano) sarebbe opportuno che l'autorizzazione ambientale accompagnasse anche il piano attuativo, de iure condito deve, tuttavia, ritenersi che la predetta autorizzazione vada rilasciata preventivamente alla concreta realizzazione delle opere, e non già del piano attuativo.

Militano, invero, a favore di tale tesi almeno due considerazioni, una di ordine formale e una di ordine sostanziale.

Di ordine formale è il dato letterale dell’art. 6, u.c. della LR n. 63/94 che, riprendendo e specificando l’inciso contenuto nell’art. 7, II comma della legge n. 1497/39 (“i progetti dei lavori”) – all’epoca dei fatti era vigente l’art. 151, II comma del DLgs n. 490/99 che, con analoga formula, individuava “i progetti delle opere di qualunque genere” -, chiarisce, ove ce ne fosse bisogno (nella comune accezione e nel comune modo di intendere “i progetti dei lavori/delle opere” non possono che riferirsi ai lavori e alle opere da realizzare immediatamente, e non a quelli contenuti in uno strumento programmatorio, che in tal caso sarebbe stato espressamente richiamato), che qualora l’autorizzazione ambientale non sia stata tempestivamente annullata dal Ministero, il Sindaco rilascia la concessione/autorizzazione edilizia: ciò significa, dunque, che l’autorizzazione ambientale precede immediatamente l’autorizzazione a costruire.

Di ordine sostanziale è la considerazione che, una volta assoggettato il piano di lottizzazione ad autorizzazione ambientale ed ottenuta la concessione edilizia per la realizzazione di una determinata costruzione ivi specificamente prevista, in caso di richiesta di variante della costruzione stessa dovrebbe ragionevolmente sottoporsi l’intero piano ad una nuova autorizzazione: atteso, infatti, che non pare esservi titolo per assoggettare ad autorizzazione ambientale la concessione edilizia in variante (stante il mancato assoggettamento di quella originaria e, comunque, la mancata visibilità dell’intero contesto territoriale), si dovrebbe sottoporre ex novo a detta autorizzazione l’intero piano attuativo, al fine di verificare se questo, così modificato, è ancora compatibile con il paesaggio.

Né la diversa tesi del necessario assoggettamento della lottizzazione ad autorizzazione ambientale trova conforto nella giurisprudenza richiamata dal resistente Comune: la sentenza TAR Veneto 16.4.2003 n. 3201- da cui comunque si dissente –, invero, ha fondato le proprie argomentazioni richiamando decisioni del Consiglio di Stato che appaiono inconferenti a risolvere la presente questione. Il parere CdS, II, 2.4.2003 n. 1536/00, infatti, sostiene (tra l’altro) che l’art. 151 impone l’autorizzazione paesistica per tutti gli interventi edilizi - ferma l’esclusione di quelli tassativamente indicati nel successivo art. 152 - in zone vincolate, non soltanto per quelli soggetti a concessione (nella specie trattatavasi di realizzazione di servizi igienici che, essendo pertinenziali alla costruzione principale, erano sottoposti a mera autorizzazione); la sentenza CdS, VI, 14.1.2002 n. 173, invece, afferma che nella Regione Puglia il piano di lottizzazione è assoggettato ad autorizzazione ambientale giusta il puntuale disposto contenuto nell’art. 21, V comma della LR n. 56/80 (ex adverso, dunque, può sostenersi che, mancando nel Veneto una norma altrettanto puntuale – la puntualità, semmai, è di segno opposto -, il PdL è escluso da autorizzazione); la sentenza CdS, VI, 2.3.2000 n. 1095 riguarda il diverso parere previsto dall’art. 28, II comma della legge n. 1150/42; la sentenza CdS, V, 10.2.2000 n. 726, infine, conferma l’incontestata circostanza che, dal momento che l’interesse paesaggistico è funzionalmente differenziato da quello urbanistico, nulla osta che il Comune che abbia approvato un progetto edilizio sotto il profilo urbanistico lo respinga, poi, sotto il profilo ambientale".

Geom. Daniele Iselle

sentenza TAR Veneto 587 del 2014

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