Deve esserci esatta corrispondenza tra l’avviso di avvio del procedimento e il provvedimento finale?

21 Mag 2014
21 Maggio 2014

Alla domanda risponde negativamente la sentenza del TAR Veneto n. 584 del 2014.

Si legge nella sentenza: "3. Altrettanto non condivisibile è l’argomentazione di parte ricorrente (contenuta nel secondo motivo) diretta a fondare l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione e ripristino in considerazione del fatto che l’avviso di avvio del procedimento avrebbe dovuto indicare le norme violate e la sanzione che l’Amministrazione intendeva applicare.

3.1 Costituisce principio consolidato quello diretto a sancire che la funzione degli art. 7 e 8 della L. n.241/90 è quella di garantire una
partecipazione alla formazione del provvedimento definitivo, mediante un’effettiva collaborazione tra privato e Amministrazione che, in quanto tale, si instaura nella fase procedimentale. Detta partecipazione procedimentale parte dal presupposto della necessità di realizzare una formazione “progressiva” del provvedimento definitivo, circostanza quest’ultima che comporta l’impossibilità di
sancire un'assoluta identità tra il contenuto dell'avviso e la decisione finale.

3.2 Deve, allora, ritenersi come sia possibile che l'amministrazione possa emettere un provvedimento finale anche parzialmente diverso da quello preannunziato e, ciò, sulla base degli accertamenti e delle verifiche poste in essere nel corso dell’esplicarsi dell’attività istruttoria.  Come ha rilevato un prevalente orientamento giurisprudenziale il limite delle diversità e delle differenze di contenuto tra atto di avviso e atto finale, integra una nozione di “aderenza” non riferita all'integrità dei rispettivi contenuti, perché così si renderebbe inutile l'intera fase partecipativa ed istruttoria, trasformando l'atto di avvio in un mero adempimento formale (Cons. Stato Sez. IV, 22-05-2012, n. 2961).

3.3 Si consideri, ancora, come sia altrettanto dirimente constatare che l’art. 8 della L. n. 241/90, nel disciplinare i contenuti minimi della comunicazione di avvio, non prevede, nell’ambito degli elementi propri di detta comunicazione, l’indicazione delle sanzioni da applicare. Il motivo è pertanto infondato".

Dario Meneguzzo - avvocato

La scala esterna e le distanze ex D.M. n. 144/1968

21 Mag 2014
21 Maggio 2014

La scala esterna è considerata una costruzione. E la sua chiusura?

La giurisprudenza è unanime nell’affermare che la scala esterna costituisce una costruzione accessoria al fabbricato e che, di conseguenza, deve rispettare sia la disciplina civilistica sulla distanza tra fabbricati ex art. 873 c.c. sia quella posta in materia di pareti finestrate ex D.M. n. 144/1968.

A tal fine, ex multis; si ricorda che: “Invero, nel calcolo della distanza minima fra costruzioni posta dall'art.873 codice civile o da norme regolamentari di esso integrative (come nel caso di specie) deve tenersi conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato come la scala esterna in muratura anche scoperta, se ed in quanto presenta connotati di consistenza e stabilità (Cassazione civile Sez. II 30/1/2007 n.1966; Tar Basilicata 19/9/2013 n.574)” e che: “Invero, rilevato che la scala costituisce, come già sopra evidenziato, struttura o corpo aggettante da considerarsi ai fini del computo della distanza, quest'ultima con riferimento al parametro edilizio posto dalla norma di cui all'art.9 del citato Decreto risulta inferiore ai previsti 10 metri, limite minimo da ritenersi inderogabile, fermo restando che la disposizione statale in rassegna si rivela sovraordinata ad altra norma regolamentare locale che fissi una diversa, minore distanza (ex multis, Cons. Stato Sez. IV 17/5/2012 n. 2847)” (Consiglio di Stato, sez. IV, 04.03.2014, n. 1000); “È fondato, invece, il terzo motivo del ricorso introduttivo, nella parte in cui contesta la distanza della scala di accesso dell'edificio rispetto al confine est (prop. Mi.). In effetti i gradini della scala esterna di accesso al costruendo edificio risultano sporgere ad una distanza inferiore al 10 ml di cui al DM 1444/1968. Sul punto, la costante giurisprudenza osserva come, in tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od accessoria di limitata entità, rientrano invece nel concetto civilistico di costruzioni le scale (CdS Sez. IV 17.5.2012 n. 2847)” (T.A.R. Marche, Ancona, sez. I, 19.12.2013, n. 941); “Infine, con riferimento alla lamentata violazione della distanza dal confine prevista dall'art. 10 N.T.A. (m. 5), essendo prevista una rampa di scale a distanza inferiore, osserva il Collegio che la scala, anche se priva di copertura, costituisce corpo aggettante rilevante ai fini della disciplina delle distanza, essendo idoneo a ridurre le intercapedini tra un edificio e l'altro e quindi a pregiudicare l'esigenza di salubrità che costituisce finalità essenziale della previsione di distanze minime. In tal senso si è espressa con orientamento costante la giurisprudenza della Cassazione in materia di distanze, evidenziando che "Nel calcolo della distanza minima fra costruzioni, posta dall'art. 873 c.c. o da norme regolamentari integrative, deve tenersi conto anche delle strutture accessorie di un fabbricato (nella specie, scala esterna in muratura), qualora queste, presentando connotati di consistenza e stabilità, abbiano natura di opera edilizia" (Cass. 1966/2007, 17390/2004, 4372/2002, tutte con riferimento a scale esterne)” e che: “Del pari è fondata la quarta censura, attinente alla violazione dell'art. 9 D.M. 1444/68 e dell'art. 10 delle N.T.A. del P.R.G. di Cellamare, per il mancato rispetto della distanza di m. 10 prevista per la zona B tra pareti e pareti finestrate, emergendo pacificamente dagli atti di causa (anche dalla perizia di parte dei controinteressati) che la distanza risulta maggiore di m. 10 solo se computata dalla scala e non dalla parete retrostante, di tal che, considerando per quanto detto sopra la scala corpo aggettante da considerare nel computo, la distanza risulta inferiore” (T.A.R. puglia, Bari, sez. III, 21.06.2012, n. 1219) oltre che: “L'art. 9 d.m. 2 aprile 1968 n. 1404, che prescrive che tra pareti finestrate deve essere osservata la distanza di m. 10, è applicabile anche nel caso in cui una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata. L'anzidetto distacco minimo deve osservarsi, pertanto, nel caso in cui la costruzione fronteggiante la parte finestrata sia costituita da una scala esterna in muratura incorporata ad un edificio, del quale costituisce accessorio, dovendo ravvisarsi una parete nella facciata dei pilastri e dei gradini. Questo principio trova applicazione con riguardo al PRG del comune di Massa approvato con d.m. 31 marzo 1972 n. 1807, il cui art. 48 richiama l'art. 9 del d.m. del 1968, senza prevedere alcuna deroga nei riguardi delle costruzioni di natura accessoria e pertinenziale” (Cass. civ., sez. II, 06.05.1993, n. 5226).

Alla luce di ciò ritengo che le considerazioni suesposte valgano anche per la chiusura della scala esterna e la conseguente creazione di un nuovo vano.

E i lettori cosa ne pensano?

dott. Matteo Acquasaliente

CDS n. 1000 del 2014

È legittima un’offerta pari a zero?

21 Mag 2014
21 Maggio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 12 maggio 2014 n. 612, si occupa delle offerte pari a zero affermando la loro illegittimità.

In particolare, dopo aver chiarito che: “un’offerta economica pari a zero equivale ad una mancata offerta, e ciò in quanto “non consente di graduare le altre concorrenti in base alla formula prescritta dalla lex specialis di gara, ossia ne vanifica la portata ed il senso stesso, posto che tutte le altre offerte non avrebbero potuto che conseguire zero punti, appiattendosi dunque tutte sullo stesso dato non significativo per un elemento che pur la stazione appaltante aveva ritenuto, in quanto a suo avviso rilevante, di inserire autonomamente tra i criteri di valutazione”, con evidente lesione della par condicio e dell’affidamento riposto nella circostanza che oggetto di valutazione sarebbe stata anche l’offerta economica sulla quale i concorrenti avevano calibrato l’offerta nel suo complesso (cfr., ex pluribus, CdS, III, 15.1.2013 n. 177)”, il Collegio asserisce che: “B.1.- Come s’è detto, MARSH rivendica a sé l’aggiudicazione della gara in quanto INTERMEDIA, che aveva proposto un’offerta pari a zero, doveva essere esclusa non già successivamente all’attribuzione del punteggio complessivo, in sede di valutazione dell’anomalia (come fatto dall’Amministrazione), ma prima dell’assegnazione ai concorrenti del punteggio relativo all’offerta economica: si sarebbe così ottenuto un diverso calcolo del punteggio per l’offerta economica che avrebbe visto MARSH aggiudicataria della gara, in quanto aveva proposto il prezzo più basso.

La censura è fondata: INTERMEDIA, infatti, aveva presentato un’offerta economicamente “improponibile”, così come definita nei chiarimenti forniti dall’Amministrazione (facenti parte integrante del regolamento di gara) e non contestati: la proposta di un’offerta economica pari a zero – l’importo di un quadrimilionesimo di euro proposto da INTERMEDIA per l’espletamento del servizio, non essendo pagabile, è pari a zero e, comunque, si configura come offerta virtuale, non reale –, comportava pertanto inequivocabilmente, in quanto priva dei requisiti essenziali e distorsiva dei principi di cui all’art. 83 del codice in tema di rapporto qualità/prezzo, l’estromissione del proponente (non già a seguito della verificata anomalia, ma) in concomitanza dell’apertura della busta recante l’offerta stessa (recte: recante la mancanza di un’offerta valida).

Né può condividersi la tesi della sostenibilità di una correzione dell’offerta da parte della Commissione mediante la sostituzione del prezzo zero con un prezzo pari ad un centesimo (0,01), idoneo a consentire il funzionamento della formula matematica e, conseguentemente, a consentire l’assegnazione di un punteggio alle offerte economiche dei vari concorrenti, senza però comportare un diverso esito della gara.

Le offerte dei partecipanti a pubbliche gare, infatti, non possono essere modificate dalla commissione giudicatrice (nell’eventualità, peraltro, in cui la modifica permettesse al concorrente di evitare, com’è avvenuto nel caso di specie, l’esclusione dalla gara, ne sarebbe irrimediabilmente compromessa la “par condicio” di tutti i concorrenti), con la conseguenza che, se dette offerte si pongono in palese contrasto con le regole della gara, la commissione non ha margini di discrezionalità e soprattutto non ha il potere per correggere le offerte, ma deve procedere alla loro esclusione.

Ma anche prescindendo da tale circostanza, dalla considerazione, cioè, che le offerte dei partecipanti a pubbliche gare non possono essere modificate dalla commissione giudicatrice, va rilevato che la presentazione di offerte pari a zero o a cifre contermini costituisce elemento idoneo a influenzare gli esiti della gara (oltre che a rappresentare un fattore di rischio per comportamenti collusivi), atteso che la proposizione di siffatte offerte, in grado di azzerare il punteggio economico (o comunque di ridurre il differenziale, se corretta l’offerta zero), impediscono una seria ed effettiva comparazione tra i concorrenti, imponendo, in ipotesi, l’aggiudicazione ad un soggetto che abbia proposto un’offerta qualitativamente insoddisfacente (cfr. CdS, V, 16.7.2010 n. 4624)”.

 Nella stessa sentenza i Giudici si occupano anche delle situazioni di controllo ex art. 38, c. 1, lett. m-quater), del D. Lgs. n. 163/2006 affermando che: “A.1.1.- MARSH ha reso una dichiarazione incompleta con riferimento all’art. 38, I comma, lett. m-quater, che prevede che il concorrente alleghi una dichiarazione di non trovarsi in alcuna situazione di controllo di cui all’art. 2359 cc rispetto ad alcun soggetto: MARSH, invece, ha dichiarato di non trovarsi in alcuna situazione di controllo di cui all’art. 2359 cc rispetto ad alcun soggetto che partecipa alla presente procedura.

La censura è infondata: in disparte la considerazione che la “ratio” della norma va ravvisata nell’esigenza di impedire che imprese tra loro collegate partecipino alla gara (onde evitare facili collusioni), talchè è affatto inconferente (e peraltro normale e ricorrente) che la concorrente sia controllata da (o controllante di) altra società che non concorre (e, dunque, la lett. “a” del disciplinare laddove omette il riferimento alla “medesima procedura” è chiaramente lacunosa e, quindi, implicitamente integrata con il predetto inciso), l’aver integrato la dichiarazione non può condurre all’esclusione, giusta l’art 46, comma 1-bis del codice dei contratti. La dichiarazione contenente l'indicazione di tutti i soggetti rispetto ai quali il concorrente si trova in situazione di collegamento costituisce, infatti, dichiarazione ulteriore e diversa rispetto a quella prevista dall’art. 38 del codice (cfr. CdS, V, 21.10.2011 n. 5638)”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 612 del 2014

Il Consiglio di Stato sul rapporto tra VAS e VIA anche in relazione a varianti urbanistiche mediante accordo di programma ex art. 34 TUEL

20 Mag 2014
20 Maggio 2014

Segnaliamo la sentenza del Consiglio di Stato n. 2403 del 2014.

Si legge nella sentenza: "....Acclarata dunque l’applicabilità ratione temporis della disciplina del d.lgs. nr. 152 del 2006, e preso atto che nulla è detto dalle parti odierne appellanti nel merito della necessità di sottoposizione a V.A.S. della variante urbanistica approvata con l’accordo di programma de quo, è agevole verificare che detta variante, per la sua estensione e significatività rispetto all’assetto originario del P.U.C., fosse da sottoporre a V.A.S. obbligatoria ai sensi della previsione allora vigente dell’art. 7, comma 2, lettera a), del d.lgs. nr. 152 del 2006 (oggi riprodotta, senza modifiche sostanziali, nell’art. 6, comma 2, lettera a), del medesimo decreto quale risultante dal correttivo apportato col decreto legislativo 16 gennaio 2008, nr. 4).

Va dunque condivisa l’opinione del T.A.R., il quale ha individuato nella mancata effettuazione della procedura di V.A.S. un vizio suscettibile d’inficiare l’intero iter procedurale per cui è causa.

6.2. Il vizio così ravvisato sarebbe di per sé sufficiente a determinare il travolgimento dell’intero procedimento di pianificazione, e quindi da esonerare dall’esame di altre e più specifiche censure (pure accolte dal primo giudice); tuttavia, anche allo scopo di orientare la successiva attività amministrativa, la Sezione reputa utile soffermarsi anche sulle conseguenze dell’applicazione della disciplina in materia di tutela dell’ambiente anche alla successiva fase di adozione e approvazione del P.U.O.

Sul punto, infatti, non può condividersi l’avviso delle parti appellanti le quali, citando in modo parziale una precedente sentenza di questa Sezione, assumono che fra i presupposti per la necessità della V.A.S. ve ne sarebbe anche uno “soggettivo”, e cioè un’espressa manifestazione di volontà della stessa Amministrazione, la quale decida di “autovincolarsi” stabilendo che un certo atto di pianificazione debba essere assoggettato a V..A.S. (ciò che, sembra di capire, comporterebbe – per converso – che l’Amministrazione sarebbe in grado, non esercitando tale “autovincolo”, di escludere l’applicazione della V.A.S. in casi in cui la legge la richiede).

Al contrario, è fin troppo agevole rilevare che i presupposti per la necessità della V.A.S. (come della V.I.A.) sono esclusivamente oggettivi, e riposano semplicemente nel ricadere o meno di un certo progetto fra le tipologie per le quali la normativa contenuta nel d.lgs. nr. 152 del 2006, o nelle leggi regionali, contempla la verifica ambientale, potendo differenziarsi soltanto fra le ipotesi in cui tale verifica è obbligatoria ex lege e quelle in cui è meramente facoltativa, imponendo il legislatore soltanto una preliminare verifica di assoggettabilità (c.d. screening) intesa appunto ad accertare se l’intervento debba o meno essere assoggettato alla verifica ambientale.

Nemmeno risulta rispondente al vero un’altra delle affermazioni ripetute dalle parti appellanti, e cioè che nessuna disposizione impone che la V.A.S. debba essere effettuata prima della formazione del piano, potendo quindi ad essa procedersi anche ex post; al riguardo, è sufficiente richiamare il chiaro disposto dell’art. 11, comma 3, del d.lgs. nr. 152 del 2006, che così recita: “...La fase di valutazione è effettuata anteriormente all’approvazione del piano o del programma, ovvero all’avvio della relativa procedura legislativa, e comunque durante la fase di predisposizione dello stesso. Essa è preordinata a garantire che gli impatti significativi sull'ambiente derivanti dall’attuazione di detti piani e programmi siano presi in considerazione durante la loro elaborazione e prima della loro approvazione”.

È vero invece che ai fini della successiva approvazione del P.U.O. potrebbe trovare applicazione il comma 3 del già citato art. 6 del d.lgs. nr. 152 del 2006, che per le “piccole aree a livello locale” richiede non la V.A.S. obbligatoria, ma la semplice verifica di assoggettabilità di cui al successivo art. 12; pertanto, una volta effettuata la V.A.S. in sede di predisposizione dell’accordo di programma (come si è visto essere necessario), non sarebbe stata necessaria un’ulteriore V.A.S. ai fini della formazione del P.U.O., dovendo procedersi soltanto a verifica di assoggettabilità: con l’unica precisazione che, ovviamente, anche tale verifica – che ai sensi del citato art. 12 deve precedere l’eventuale V.A.S. – non potrà giammai essere effettuata ex post, dovendo pur sempre intervenire nella fase di predisposizione del piano.

6.3. Sempre per completezza e chiarezza, va evidenziato che le deduzioni delle parti appellanti risentono di una certa confusione tra l’istituto della V.A.S. (che attiene alla verifica di impatto ambientale di piani e programmi e loro varianti) e quello della V.I.A. (che afferisce invece a progetti relativi a specifici impianti o edifici ed è un istituto, al contrario della V.I.A., vigente nell’ordinamento italiano già da molto prima dell’entrata in vigore del d.lgs. nr. 152 del 2006).

Infatti, la verifica di assoggettabilità che si è visto essere stata eseguita ex post rispetto all’approvazione del P.U.O., e rispetto alla quale il T.A.R. ha stigmatizzato il vizio di inversione procedimentale, era in realtà quella prodromica al rilascio dei permessi di costruire per la materiale realizzazione degli interventi contenuti nel P.U.O.: ciò si ricava dalle stesse deduzioni delle parti appellanti, le quali precisano che tale verifica fu eseguita ai sensi dell’art. 10 della l.r. 30 dicembre 1998, nr. 38, che è appunto la legge regionale ligure che – già da epoca ampiamente anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. nr. 152 del 2006 - disciplina la V.I.A. sui progetti di competenza regionale.

Al riguardo, è appena il caso di precisare che l’effettuazione di tale procedura (peraltro con esito negativo) non può in alcun modo ritenersi aver sanato il vizio derivante dal mancato esperimento a monte, nella fase di pianificazione, della diversa procedura di V.A.S.

Per vero, la legislazione vigente si fa carico dei problemi di coordinamento fra le due procedure, e dell’evidente eccessività di richiedere obbligatoriamente sia l’una che l’altra, nelle ipotesi in cui si debba approvare un piano urbanistico attuativo, tale da richiedere la V.A.S., ed all’interno di esso sia prevista la progettazione di impianti o interventi per i quali, a loro volta, sarebbe necessaria la V.I.A.

A queste ipotesi è dedicato l’attuale comma 4 dell’art. 10 del d.lgs. nr. 152 del 2006, quale risultante dalla già richiamata novella del 2008, secondo cui: “...La verifica di assoggettabilità di cui all’articolo 20 può essere condotta, nel rispetto delle disposizioni contenute nel presente decreto, nell’ambito della VAS. In tal caso le modalità di informazione del pubblico danno specifica evidenza della integrazione procedurale”.

Pertanto, nelle ipotesi sopra indicate – cui è riconducibile anche la fattispecie per cui qui è causa – è possibile procedere a un’unica procedura di verifica, con unitaria consultazione del pubblico, nell’ambito della V.A.S., in occasione della quale procedere anche allo screening preliminare per i progetti ricompresi nel piano (l’art. 20 del d.lgs. nr. 152 del 2006 disciplina, per l’appunto, la verifica di assoggettabilità a V.I.A.), all’esito del quale si accerterà se occorrerà o meno, prima del permesso di costruire, procedere all’ulteriore procedura di V.I.A.

In sostanza, la scelta del legislatore – come è del tutto logico – è nel senso che l’assimilazione e il coordinamento fra le due procedure debba avvenire a monte, nella fase di pianificazione: di modo che non è assolutamente possibile, al contrario, che ogni verifica sia posposta al momento del rilascio del titolo ad aedificandum (come nel caso di specie, laddove si vorrebbe dalle parti appellanti – sia pure con motivo d’appello articolato in via subordinata – che la verifica di assoggettabilità a V.I.A. prodromica al rilascio del permesso di costruire abbia sanato il vizio discendente dal mancato esperimento della V.A.S. in sede di pianificazione).

7. I rilievi fin qui svolti, evidenziando l’infondatezza degli appelli con riguardo al più eclatante fra i vizi riscontrati dal giudice di prime cure, tale da comportare l’illegittimità dell’intera procedura esaminata – a partire dall’accordo di programma del 2007, e proseguendo con l’intero iter di formazione del P.U.O. – hanno carattere assorbente ed esonerano dall’esame degli ulteriori motivi di appello, afferenti a vizi secondari e ulteriori ravvisati dal T.A.R. e la cui eventuale fondatezza in nulla modificherebbe le conclusioni raggiunte in punto di integrale conferma della sentenza gravata, e quindi di annullamento degli atti impugnati in primo grado.

D’altra parte, i profili sottesi a detti motivi e censure ulteriori (dalla sufficienza delle indagini geologiche e idrogeologiche al rispetto delle prescrizioni sulle altezze degli edifici, dalla compatibilità con gli eventuali vincoli paesaggistici all’adeguatezza degli studi di impatto sulla viabilità) potranno essere oggetto di compiuto esame in sede di rinnovazione della procedura pianificatoria, giovandosi dell’apporto partecipativo di tutti i soggetti interessati nell’ambito del doveroso esperimento della procedura di V.A.S.".

geom. Daniele Iselle

sentenza CDS 2403 del 2014

L’art. 34 del D.P.R. n. 380/2001 non si applica al cambio d’uso senza opere

20 Mag 2014
20 Maggio 2014

Il T.A.R. Puglia, Lecce, sez. III, nelle due sentenze gemelle del 12 maggio 2014 n. 1219 e n. 1220, dichiara che la sanzione amministrativa ex art. 34 del D.P.R. n. 38072001 (“Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire”) secondo cui: “1. Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio. Decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili dell'abuso.

2. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27 luglio 1978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale.

2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all'articolo 22, comma 3, eseguiti in parziale difformità dalla denuncia di inizio attività.

2-ter. Ai fini dell’applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali” non può essere utilizzato dalla Pubblica Amministrazione per imporre il ripristino della destinazione d’uso se si è in presenza soltanto di un cambio d’uso funzionale e non di un cambio d’uso strutturale: “Ora, appare evidente come il richiamo all’art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, operato dall’Amministrazione per imporre un uso corretto dell’immobile, sia del tutto inappropriato.

Nella fattispecie infatti, contrariamente a quanto sembra desumersi dal provvedimento impugnato, la variazione d’uso funzionale “realizzata in parziale difformità ai precitati titoli abilitativi”, non può essere assimilata (in assenza di contestazione circa la realizzazione di opere edili) agli interventi eseguiti in parziale difformità del permesso di costruire, interventi considerati dall’art. 34 del D.P.R. e per i quali la stessa norma prevede la rimozione o la demolizione a spese dei responsabili dell’abuso.

Sicchè, ferma restando la possibilità dell’Amministrazione di regolare la destinazione d’uso degli immobili, è fuor di dubbio che nella specie siano stati utilizzati strumenti impropri sotto il profilo normativo.

Per quanto riguarda poi il denunciato eccesso di potere per aver l’Amministrazione applicato l’importo massimo della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 47 della L.R. n. 56/80 senza esplicitarne le ragioni, la censura deve riconoscersi parimenti fondata.

Infatti, sebbene l’attività determinativa del quantum della sanzione amministrativa costituisca espressione di una lata discrezionalità amministrativa, essa non può sottrarsi al sindacato di legittimità ove non risulti congruamente motivata e scevra da vizi logici (Cons. St. VI sez. 20/9/2012 n. 4992).

Nel caso di specie, evidentemente, l’Amministrazione ha ritenuto di potersi sottrarre a tale obbligo motivazionale, laddove invece la particolarità della vicenda e il consolidarsi di una situazione a tutti nota e generalizzata avrebbe dovuto indurre la stessa Amministrazione a valutare gli effetti prodotti sull’assetto urbanistico dal cambio di destinazione d’uso in questione e conseguentemente calibrare la misura pecuniaria sanzionatoria applicata.

Per le ragioni suesposte il ricorso merita accoglimento, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione la quale, riesercitando il suo potere, non potrà non valutare più adeguatamente l’incidenza della diversa destinazione d’uso degli immobili sugli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica ed in particolare la compatibilità con gli standars ur-banistici che la stessa Amministrazione ritiene abbiano subito “una variazione” per effetto dell’abuso in contestazione”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Puglia n. 1219 del 2014

 TAR Puglia n. 1220 del 2014

Piano casa e incentivi fiscali

20 Mag 2014
20 Maggio 2014

Dalla lettura del combinato disposto degli artt. 3, c. 3 e 7 c. 1 ter della L. R. Veneto n. 14/2009 appare evidente che se un soggetto privato intenda demolire e ricostruire un edificio ante 1967, usufruendo contestualmente dell’ampliamento concesso dalla presente legge regionale, non è dovuto al Comune né il pagamento del contributo di costruzione connesso all’abitazione già esistente (e mai dovuto perché ante 1967) né il pagamento del contributo di costruzione dell’ampliamento.

Premesso che l’art. 3 c. 2 recita: “Gli interventi di cui al comma 1 finalizzati al perseguimento degli attuali standard qualitativi architettonici, energetici, tecnologici e di sicurezza, sono consentiti in deroga alle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali, comunali, provinciali e regionali, ivi compresi i piani ambientali dei parchi regionali. La demolizione e ricostruzione, purché gli edifici siano situati in zona territoriale omogenea propria, può avvenire anche parzialmente e può prevedere incrementi del volume o della superficie:

a) fino al 70 per cento, qualora per la ricostruzione vengano utilizzate tecniche costruttive che portino la prestazione energetica dell’edificio, come definita dal decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192 “Attuazione della direttiva 2002/91/CE relativa al rendimento energetico nell’edilizia” e dal decreto del Presidente della Repubblica 2 aprile 2009, n. 59 “Regolamento di attuazione dell’articolo 4, comma 1, lettere a) e b), del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192, concernente attuazione della direttiva 2002/91/CE sul rendimento energetico in edilizia” e successive modificazioni, alla corrispondente classe A;

b) fino all’80 per cento, qualora l’intervento comporti l’utilizzo delle tecniche costruttive di cui alla legge regionale 9 marzo 2007, n. 4 “Iniziative ed interventi regionali a favore dell’edilizia sostenibile”. A tali fini la Giunta regionale integra le linee guida di cui all’articolo 2 della legge regionale 9 marzo 2007, n. 4 , prevedendo la graduazione della volumetria assentibile in ampliamento in funzione della qualità ambientale ed energetica dell’intervento”, la soluzione esposta deriva dalla semplice applicazione dell’art l’art. 7, c. 1 ter secondo cui: “Le riduzioni di cui ai commi 1 e 1 bis si intendono riferite:

a) nel caso previsto dagli articoli 2 e 3 ter al volume o alla superficie ampliati;

b) nel caso previsto dagli articoli 3 e 3 quater al volume ricostruito e alla nuova superficie comprensivi dell’incremento”. 

dott. Matteo Acquasaliente

Oneri specifici: secondo il TAR Lazio la ditta che li omette non può essere esclusa se il modello non li prevede

20 Mag 2014
20 Maggio 2014

Il T.A.R. Lazio, Roma, sez. II Bis, nella sentenza del 07 aprile 2014 n. 3742, afferma che se il modello predisposto dalla stazione appaltante non prevede espressamente l’indicazione degli oneri specifici, la ditta che li omette, confidando nella correttezza della documentazione predisposta, non può essere esclusa perché: “È diffuso l’orientamento, affermato anche in pronunce di questo Tribunale, dell’immediata, precettività degli artt. 86 e 87 del D.Lgs. 12.4.2006 n. 163 (codice dei contratti pubblici) riguardo alla necessità di specificare il costo della sicurezza nelle offerte economiche in gare per l’appalto di lavori pubblici, servizi e forniture, anche in difetto di espressa previsione dei bandi. Ma è altresì diffuso quell’orientamento che in via eccezionale riconosce, alla stregua del principio generale di favor partecipationis, la prevalenza dell’affidamento incolpevole qualora la lex specialis di gara sia strutturata in modo da indurre in errore i partecipanti circa i requisiti dell’offerta (Cons.St., V. 6.8.2012 n. 4510; T.A.R. Piemonte, I, 9.1.2012 n. 5; id. 4.4.2012 n. 458; T.A.R. Umbria, I, 22.5.2013 n. 301; T.A.R. Campania, II, 21.6.2013 n. 3198). Applicando detti principi, richiamati altresì nei pareri dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici n. 54 del 23.4.2013 e n. 118 del 17.7.2013, la commissione di gara ha ammesso l’offerta economica di T.F.C. sebbene non indicasse gli oneri della sicurezza aziendale a parte e in modo specifico, tenuto conto che il modello predisposto dalla stazione appaltante non comprende alcuna voce ad essi relativa.

Sebbene la scelta del facsimile per l’offerta economica allegato al disciplinare di gara è dal medesimo qualificata come preferenziale, sarebbe tuttavia contraddittorio sostenere che detta scelta possa poi ritorcersi contro i concorrenti che l’abbiano adottata facendo affidamento su di essa in quanto suggerita dalla lex specialis.

La modulistica predisposta dalle stazioni appaltanti assolve a molteplici fini, rendendo omogenee le offerte e semplificandone l’esame comparativo (così assolvendo a una funzione acceleratoria), nonché riducendo il rischio di errori. Quest’ultima finalità sarebbe senz’altro frustrata ove i concorrenti, attenti a non esporsi al rischio di esclusione per errori e omissioni nella redazione dell’offerta, possano essere poi penalizzati per non aver integrato l’apposito modulo predisposto dalla stessa amministrazione appaltante e perciò stesso ingenerante un obiettivo affidamento (T.R.G.A. Trento 16.12.2011 n. 317).

L’aberrante risultato di una siffatta conclusione e la totale confusione e incertezza che deriverebbe alle procedure di gara non necessitano di particolare illustrazione. Basti solo considerare che gli essenziali valori dell’affidamento e della buona fede impediscono che le conseguenze di una condotta, erronea e/o omissiva, della stazione appaltante, non immediatamente percepibile possano essere trasferite sui partecipanti sanzionandoli con l’esclusione (in termini, Cons.Stato, V, 22.5.2012 n. 2973; T.A.R. Umbria 11.7.2012 n. 274).

Con la puntuale compilazione del modulo per l’offerta economica allegato agli atti di gara e indicato dal disciplinare quale scelta preferibile T.F.C. ha pienamente rispettato gli ordinari canoni di diligenza e buona fede e non può dunque esserle imposto ai fini di ammissione alla gara l’obbligo di soggiungere dichiarazioni ulteriori rispetto a quelle che l’Amministrazione ha reputato sufficienti ed esaustive.

Ferme le premesse considerazioni di carattere generale e di merito, ad escludere l’ammissibilità della censura in esame è dirimente la circostanza che lo stesso disciplinare di gara affermi un principio di soccorso con lo stabilire che “la commissione giudicatrice potrà, comunque, chiedere ai soggetti partecipanti alla gara di fornire ogni notizia utile a chiarire i contenuti dell’offerta e della documentazione presentata e/o di fornire idonea dimostrazione degli stessi”. La disposizione della lex specialis contempla una facoltà della commissione di gara indirizzata a dissipare ogni eventuale dubbio circa il contenuto delle offerte dei concorrenti ed è pertanto esercitabile anche per definire la consistenza dei costi per la sicurezza aziendale, ove non resa immediatamente conoscibile, escludendo che le offerte esaustive nel contenuto non possano essere ammesse per omissioni puramente formali. Detta disposizione, qualora la si fosse voluta ritenere in contrasto con la normativa primaria, avrebbe dovuto essere contestata a mezzo impugnazione del disciplinare in parte qua. Poiché la lex specialis non è stata contestata in giudizio sul punto, occorre riconoscerne la valenza a giustificare le offerte complete ancorché non pienamente rispondenti alle prescrizioni di forma del codice dei contratti pubblici; e quindi è inammissibile la censura di S.A.T.A. che deduce l’omessa esclusione di T.F.C. in quanto l’offerta economica di quest’ultima non specifica, pur comprendendoli, gli oneri della sicurezza, come prescritto dall’art. 87, comma 4, e successive modificazioni del D.Lgs. n. 163/2006”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Lazio, Roma, n. 3742 del 2014

Il cambio d’uso senza opere non necessita del titolo edilizio?

19 Mag 2014
19 Maggio 2014

Il Consiglio di Stato, sez. V, nella sentenza del 13 maggio 2014 n. 2435, afferma che il cambio d’uso senza opere non richiede alcun titolo edilizio: “L’impostazione delineata dal ricorso di primo grado, raccolta dalla sentenza impugnata ed ora posta a fondamento delle difese dell’appellata Edilit Costruzioni è quella che indica le modificazioni di destinazione d’uso senza opere come attività “libere”, così come tuttora scaturisce dalla lettura della legge urbanistica regionale n. 61/1985, in quanto priva dell’originario art. 76 comma 2, previdente il generalizzato rilascio di titoli abilitativi per tale tipo di interventi, per questo dichiarato illegittimo con la sentenza 11 febbraio 1991 n. 73 dalla Corte Costituzionale.

La Corte aveva ritenuto il contrasto con il principio fondamentale stabilito dall’art. 25 comma 4 L. 47/1985, laddove si mandava alle leggi regionali la previsione di stabilire i casi in cui si dovessero disciplinare con gli strumenti urbanistici e con i titoli abilitativi le modificazioni di destinazione d’uso senza opere, delimitando il campo della regolamentazione e del controllo pubblico ad alcune serie specifiche di situazioni e non ammettendo quindi una parificazione assoluta di tali modificazioni agli interventi edilizi propriamente detti”. 

Si consiglia, però, la lettura integrale della sentenza, perchè esamina la questione nel caso in cui le NTA comunali stabiliscano qualcosa di diverso.

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 2435 del 2014

Le specifiche forme di tutela previste dal c.d. Piano Casa non necessitano di una motivazione puntuale?

19 Mag 2014
19 Maggio 2014

Il Consiglio di Stato, sez. IV, nella sentenza del 07 aprile 2014 n. 1610, con riferimento ad una questione edilizia relativa al c.d. Piano Casa della Regione Sardegna, sembra affermare in generale che, laddove le diverse leggi regionali volte ad incentivare il settore edilizio prevedano la possibilità di tutelare in modo specifico delle zone e/o degli edifici, l’ente non abbia l’obbligo di motivare in modo dettagliato questa scelta.

Nel caso de quo, l’art. 5, c. 6 bis della L. R. Sardegna n. 21/2011 (c.d. Piano Casa) prevedeva che: “Nelle zone urbanistiche omogenee B i comuni individuano, con apposita deliberazione del consiglio comunale adottata entro il termine perentorio di novanta giorni, singoli immobili ovvero ambiti di intervento nei quali limitare o escludere, in ragione di particolari e specificate qualità storiche, architettoniche o urbanistiche, gli interventi di demolizione e ricostruzione. Nel corso di tale termine le istanze di demolizione e ricostruzione riguardanti edifici compresi nelle zone urbanistiche omogenee B non sono ricevibili. Trascorso il termine di novanta giorni senza che il comune abbia adottato la deliberazione, gli interventi di demolizione e ricostruzione sono ammessi nel rispetto delle condizioni di cui all'articolo 8”.

Alla luce di ciò il Collegio giunge a ritenere che: “L’appello in esame controverte della legittimità di un diniego di premesso edilizio, per un intervento di demolizione e ricostruzione di un immobile urbano, con ampliamento sulla base delle disposizioni regionali per la Sardegna, applicative del c.d.”piano casa” (l.r. n.4/2009 e delibera c.r. n. 16/2012) ed ulteriori deroghe di altezza e distanze al piano urbanistico. Dopo aver pedissequamente riprodotto i motivi formulati in primo grado, il ricorso in esame passa ad esporre i motivi d’appello su cui si sostiene.

1.- Il primo contrasta la sentenza impugnata ove, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, il TAR ha ravvisato (nella limitazione recata dalla delibera consiliare n. 16/2012 attuativa della legge regionale ed applicata dal Comune) la giustificazione nell’esigenza di assicurare un’armonica edificazione ed un corretto inserimento degli interventi nel tessuto urbanistico esistente; sostiene invece la ricorrente che tali esigenze non possono impedire la deroga agli strumenti urbanistici comunali prevista dalle disposizioni del piano casa, se non vengano specificate quali sono le qualità urbanistiche di determinate zone e che si intende tutelare. Emergerebbe pertanto il vizio di difetto di motivazione a carico della soluzione negativa data dal Comune di Cagliari, in applicazione delle cennate disposizioni, a maggior ragione ove si consideri il parere positivo espresso dalla Sovrintendenza (n.7651/2011) e che, ad avviso dell’appellante, non lasciava ulteriori spazi alla discrezionalità del Comune. Tale orientamento non può essere condiviso .

Premette il Collegio, su un piano generale, che la disposizione gravata opera in un contesto che presenta un chiaro carattere normativo in materia urbanistica e che di conseguenza sfugge alle prescrizioni motivazionali ai sensi degli arrt. 3 e 13 della legge n. 241/1990. Il che certamente non indica che la discrezionalità pianificatoria sia esente da ogni criteri di coerenza e logicità ma semplicemente che essa può determinare, senza dettagliate giustificazioni, compressioni delle facoltà edificatorie che possano coerentemente disporsi in forza dalle norme urbanistiche locali, regionali e statali. Orbene, la collocazione dell’area interessata dall’intervento in controversia (pur nella sua sitenticità, evidenziata dal medesimo TAR) è sufficientemente chiara nel precludere gli interventi di demolizione e ricostruzione in ampliamento ove essi prevedano anche deroghe posizionali e dimensionali rispetto alle norme del piano urbanistico (e nella fattispecie si rilevano difformità del proposto intervento in tema di distacchi dal confine strada e dal confine laterale e sull'altezza complessiva dell'edificio). Ciò chiarito, ai fini di conseguire un livello sufficiente, non occorreva che la motivazione in esame si richiamasse alla sussistenza di interessi di natura storico o architettonica di particolare rilevanza, ma era sufficiente che il provvedimento facesse riferimento a una esigenza di tipo semplicemente urbanistico (del resto anch’essa presente nella disposizione in parola) , qual è indubbiamente quella di assicurare un sviluppo edilizio ordinato perchè svolgentesi secondo linee e parametri (altezze, distanze interedilizie e stradali) essenzialmente omogenei. Contrasta perciò con la delibera consiliare n.16/2012, ad avviso del Collegio, un progetto che assolvendo già ad una finalità di forte impatto derogatorio in tema di indici volumetrici (soprattutto in caso di demolizioni e ricostruzioni) , aggiunga deroghe ad altezze e distanze in zone in cui queste presentino sufficiente omogeneità. Ed invero tale quadro sarebbe certamente del tutto sconvolto ove in intere zone fossero consentiti interventi di demolizione e ricostruzione non solo in ampliamento ma anche in deroga ad altezze e distanze (tra edifici e strade) originariamente previste e rispettate dal piano regolatore; così operando, infatti, ciascun edificio potrebbe essere non solo ricostruito con ampliamento, ma anche in una sua nuova nuova e del tutto diversa posizione rispetto a quella degli altri. Scenario certo interessante , ma indubbiamente non rispondente ad alcun tipo di ordinato e coerente sviluppo edilizio”.

Che sia possibile estendere le considerazioni di cui supra anche alle specifiche forme di tutela previste dagli artt. 2 e 9, c. 1, lett. c) della L. R. Veneto n. 14/2009?

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 1610 del 2014

Oneri specifici ed appalto di lavori secondo il TAR Campania

19 Mag 2014
19 Maggio 2014

Il T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, nella sentenza del 08 aprile 2014 n. 2010, chiarisce che anche negli appalti di lavori vi è l’obbligo di indicare gli oneri specifici a pena di esclusione: “ritiene il Collegio che, alla luce della riforma recata dal d.l. n. 70/2011, di sostanziale riscrittura dell’art. 46 del d.lgs. 12 aprile 2006, si rivela ormai superata l’esigenza di qualificare in termini di eterointegrazione il rapporto di completamento tra disposizioni della lex specialis, di fonte provvedimentale, e norme giuridiche primarie e secondarie che devono ora trovare applicazione al procedimento specifico, a prescindere dal loro richiamo nel bando o nel disciplinare; invero, lo spirito della riforma del 2011 è stato quello di riconoscere efficacia precettiva immediata alla voluntas legis, disancorandola del tutto da qualsiasi determinazione della stazione appaltante a cui è stato, infatti, espressamente inibito ogni potere, discrezionale e tecnico- discrezionale, di modifica di principi e precetti specifici che il legislatore ha riservato a sé ed alla fonte di produzione normativa. Il superamento della logica di eterointegrazione, impone di ritenere che, innanzitutto, a presidio del procedimento di gara esistono le norme giuridiche, rispetto alle quali la determinazioni amministrative possono, queste, ritenersi integrative o, al più meramente specificative di quelle, senza che ne possano in alcun modo limitarne l’ambito applicativo, nemmeno come ragione di possibili dubbi interpretativi. In altri termini, è alla norma che l’interprete deve guardare nel momento in cui deve assumere il parametro di legittimità di una decisione della stazione appaltante in materia di procedimenti di gara.

Riguardo al precetto applicabile, l’art. 87, quarto comma del d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163 stabilisce che “non sono ammesse giustificazioni in relazione agli oneri di sicurezza in conformità all'articolo 131, nonché al piano di sicurezza e coordinamento di cui all'articolo 12, decreto legislativo 14 agosto 1996, n. 494 e alla relativa stima dei costi conforme all'articolo 7, decreto del Presidente della Repubblica 3 luglio 2003, n. 222. Nella valutazione dell'anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell'offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture”.

Dal punto di vista formale della composizione dell’offerta, esiste, dunque, per l’impresa partecipante l’obbligo di indicazione degli oneri di sicurezza, che devono anche essere assistiti da un rafforzato carattere di specificità. E non è seriamente dubitabile che tale adempimento non sia stato assolto dalla società ricorrente.

Alla questione, poi, se alla violazione di tale prescrizione consegua la sanzione espulsiva, occorre rendere risposta affermativa: tanto, sia perché in base alla formulazione letterale della norma è imposto un formale “dovere” di specifica indicazione dei costi della sicurezza, sia perché, dal punto di vista funzionale, non postergare tale rappresentazione alla fase di verifica dell’anomalia rivela l’interesse prioritario del legislatore verso la sicurezza sui luoghi di lavoro; inoltre, lo spostamento in avanti di tale accertamento – id est al momento della verifica della anomalia - potrebbe addirittura determinarne la totale pretermissione, trattandosi comunque di un subprocedimento non indefettibile nella dinamica del procedimento di gara; del resto, assumere la specificazione del costo della sicurezza come elemento costitutivo dell’offerta finisce per attribuire a tale elemento rilevanza anche dal punto di vista della presentazione di una proposta contrattuale seria che comprenda la valutazione di tutti gli oneri economici ricadenti nell’ambito del rapporto di convenienza e sostenibilità tecnico-economica dell’impegno contrattale che si va ad assumere.

Va aggiunto, quanto all’asserita inidoneità del progetto definitivo a contenere gli elementi necessari per il calcolo degli oneri di sicurezza, che, spettando all’impresa concorrente la redazione del progetto esecutivo - che la società ricorrente assume essere il livello di progettazione sufficiente per compiere tale valutazione – è su tale elaborato che avrebbe dovuto essere calcolata l’incidenza di tale elemento di costo, ai fini della elaborazione anche dell’offerta economica; ne discende, sotto tale profilo, la mancanza di lesività in punto di fatto della disciplina tecnica di gara.

Tali considerazioni trovano riscontro anche in recente giurisprudenza, secondo cui “nelle gare pubbliche, considerata la differenza che intercorre fra tra gli oneri di sicurezza per le cc.dd. interferenzee (che sono predeterminati dalla stazione appaltante e riguardano rischi relativi alla presenza nell'ambiente della stessa di soggetti estranei chiamati ad eseguire il contratto) e gli oneri di sicurezza da rischio specifico o aziendale (la cui quantificazione spetta a ciascuno dei concorrenti e varia in rapporto alla qualità ed entità della sua offerta), l'omessa indicazione specifica nell'offerta sia dell'una che dell'altra categoria di costi giustifica la sanzione espulsiva, ingenerando incertezza ed indeterminatezza dell'offerta e venendo, quindi, a mancare un elemento essenziale, ex art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici (Adunanza Plenaria 25 febbraio 2014 n. 9; Consiglio di Stato III Sezione 23 gennaio 2014 n.348; Consiglio di Stato III Sezione 3 luglio 2013 n.3565)”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Campania n. 2010 del 2014

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