Il silenzio assenso sul permesso di costruire non si forma se l’istanza non contiene la dichiarazione di conformità urbanistica da parte del progettista

21 Gen 2013
21 Gennaio 2013

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 20 del 2013.

Scrive il TAR: "...Un’ultima considerazione va fatta con riguardo alla ritenuta formazione del provvedimento tacito di assenso per effetto della decorrenza dei termini di legge e quindi della sostanziale inutilità del provvedimento di diniego assunto tardivamente dall’amministrazione, circostanza che potrebbe assumere rilevanza anche a fronte della ritenuta inammissibilità del ricorso, in quanto la formazione del silenzio porterebbe a superare il diniego precedentemente opposto dal Comune.

Al riguardo è incontestato che la documentazione allegata alla nuova domanda di permesso di costruire non contiene la dichiarazione di conformità urbanistica da parte del progettista.

Ciò costituisce impedimento per la formazione del silenzio assenso, in quanto non può essere condivisa la tesi di parte ricorrente che pretenderebbe di supplire detta mancanza con la possibilità per l’amministrazione di intervenire successivamente in autotutela.

Una simile conclusione si pone in contrasto con lo spirito e le finalità della procedura semplificata, che consente lo snellimento dell’azione dell’amministrazione solo sul presupposto che la stessa sia stata messa nelle condizioni di conoscere nella sua completezza tutti gli elementi necessari al fine di giudicare l’assentibilità dell’intervento: cosa che nella fattispecie non è avvenuta...".

sentenza TAR Veneto 20 del 2013

C’era una volta la “vicinitas”

18 Gen 2013
18 Gennaio 2013

C'era una volta la "vicinitas", come criterio sufficiente per stabilire chi avesse un interesse qualificato a impugnare un titolo edilizio: si diceva che il vicino ha sempre interesse a impugnare, perchè ogni edificazione sul fondo del vicino qualche danno può arrecargli.

Il TAR Veneto, peraltro, da qualche tempo ritiene non corretta questa tesi e lo ha fatto con una serie di sentenze che hanno dichiarato inammissibili per carenza di interesse i ricorsi dei confinanti che hanno impugnato i titoli edilizi dei vicini.

La sentenza n. 15 del 2013 puntualizza la questione: "la condizione di mera vicinitas non è di per sé sola sufficiente a radicare la legittimazione ad impugnare i titoli edilizi rilasciati dall’amministrazione con riguardo ad ambiti confinanti con quello che è nella disponibilità del soggetto proponente il ricorso.
Se, invero, in termini di principio (così come osservato nel precedente citato da parte ricorrente, C.d.S, IV, 5715/2012), la vicinitas assume principale rilievo per qualificare e differenziare l’interesse fatto valere in ricorso, è tuttavia altrettanto indiscutibile come detta circostanza debba essere valutata nel caso concreto (così come ritenuto proprio nel precedente citato, ove è stata esaminata la situazione di fatto e le caratteristiche dell’intervento da realizzare nell’area confinante quella dei ricorrenti), onde accertare quale sia il reale pregiudizio che il rilascio del titolo autorizzatorio produrrebbe sulla vicina proprietà del ricorrente.
In altre parole, il requisito della vicinitas rappresenta uno dei criteri, indubbiamente il primo, per qualificare una posizione differenziata, necessaria per radicare l’interesse e la legittimazione a ricorrere, ma non è di per sé solo sufficiente a rendere ammissibile la proposizione del gravame.
Occorre, infatti, che la posizione del vicino risulti qualificata e quindi emerga dalla mera posizione di “quisque de populo”, qualificazione che dovrà essere caratterizzata dal pregiudizio che, anche se in termini astratti o possibilistici, il rilascio del titolo edilizio impugnato e la realizzazione dell’intervento assentito potrebbe produrre a carico dell’area posta nelle vicinanze di quella dell’intervento.
Come sottolineato anche nell’arresto giurisprudenziale citato da parte ricorrente, il mero richiamo al criterio della vicinitas, sebbene costituisca indizio inequivocabile dello stabile collegamento con la zona interessata dall’edificazione, così da differenziare la posizione del terzo, deve essere integrato ed interpretato in modo tale da porre in evidenza l’ulteriore profilo che deve caratterizzare la posizione legittimante, ossia la dimostrazione del pregiudizio derivante a carico del terzo, costituito dall’incidenza negativa che il progetto assentito potrà avere sul bene di proprietà o in godimento del vicino, così da comprometterne la fruizione o il valore.
In tali termini (cfr. C.d.S., IV, n. 8364/2010), il mero principio della vicinitas è stato interpretato ed integrato in rapporto alla dimostrazione da parte del soggetto che intende ottenere l’annullamento del titolo edilizio rilasciato al vicino, del vulnus da tale atto derivante alla propria sfera giuridica, quale deminutio economica e patrimoniale del bene di proprietà".

Sarà interessante vedere cosa dirà il Consiglio di Stato, se la sentenza verrà impugnata.

sentenza tar Veneto 15 del 2013

Cessione dei parcheggi previsti dalla legge Tognoli e decreto semplificazioni (5/2012)

17 Gen 2013
17 Gennaio 2013

L’art. 9 della L. 122/1989 (c.d. “Legge Tognoli”) ha introdotto, come sappiamo, una disciplina derogatoria delle norme urbanistiche comunali, al fine di incentivare la realizzazione di posti auto per le costruzioni preesistenti che ne sono sprovviste. Tali parcheggi possono essere realizzati secondo tre modalità: 1. nel sottosuolo dei fabbricato, nei locali siti al piano terreno (che vengono così a mutare la destinazione d’uso) o nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato; 2.  su aree comunali o nel loro sottosuolo con concessione del diritto di superficie a singoli privati o a cooperative edili (art. 9, comma 4); 3. su aree esterne condominiali, da parte di singoli condomini (art. 9, comma 3). In tutti e tre i casi la legge, all’art. 9, comma 5, istituiva un vincolo di pertinenzialità tra l’unità immobiliare e il parcheggio: “I parcheggi realizzati ai sensi del presente articolo non possono essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale. I relativi atti di cessione sono nulli.”

Per completezza, occorre dire che la medesima legge disciplina, invece, all’art. 2, un’altra categoria di parcheggi, vale a dire quelli da ricavare necessariamente in caso di realizzazione di nuove costruzioni; in particolare l’art. 2 citato  ha sostituito l’art. 41 sexies della L. 1150/1942, aumentando la quantità di superficie a parcheggio necessaria per le nuove costruzioni (da 1 mq. ogni 20 mc. di costruzione a 1 mq per ogni 10 mc.).

Tornando alla prima disposizione, segnaliamo che l’art. 9 della c.d. “Legge Tognoli” è stata oggetto di vari interventi di modifica nel corso degli anni.

Riportiamo di seguito brevemente le modifiche più significative.

Una importante modifica è stata introdotta dall’art. 137, comma 2, del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e riguarda il titolo abilitativo edilizio necessario per realizzare tali parcheggi, che è costituito dalla d.i.a. Si osserva, al riguardo, che, a seguito delle modifiche introdotte al testo Unico dell’Edilizia dal d.l. 70/2001, la d.i.a. deve intendersi ora sostituita con la scia.

Una ulteriore importante modifica ha riguardato la disciplina di circolazione dei parcheggi così realizzati ed è stata introdotta dal Governo Monti con il c.d. Decreto Semplificazioni (D.L. 5/2012 convertito in L. 35/2012).

Fermo restando quanto previsto dall' articolo 41-sexies, della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e successive modificazioni, e l'immodificabilità dell'esclusiva destinazione a parcheggio, la proprietà dei parcheggi realizzati a norma del comma 1 può essere trasferita, anche in deroga a quanto previsto nel titolo edilizio che ha legittimato la costruzione e nei successivi atti convenzionali, solo con contestuale destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza di altra unità immobiliare sita nello stesso comune.

Dunque, per i soli parcheggi realizzati ai sensi del comma 1 (quelli indicati al punto 1 che precede), è possibile, a differenza di quanto avveniva in precedenza, la cessione separata rispetto all’unità immobiliare a cui pertengono, con il limite che deve essere comunque istituito un vincolo pertinenziale con un altro immobile sito nel medesimo Comune. In sostanza, si tenta di contemperare l’obiettivo di semplificare le e compravendite tra privati per liberalizzare la circolazione dei beni con l’obiettivo pubblicistico di destinare spazi a parcheggio; rimane  infatti la destinazione a parcheggio dell’immobile.

 Il decreto legge manteneva invece fermo il divieto di vendere separatamente dalla relativa unità immobiliare i parcheggi realizzati ai sensi del comma 4 dell’art. 9 (quelli indicati al punto 2 che precede), confermando la sanzione della nullità degli atti di alienazione constastanti col divieto. Poiché, tuttavia, era stata sottolineata l’ingiustificata disparita di trattamento tra i parcheggi realizzati su aree private e quelli realizzati su aree pubbliche, in sede di conversione, il legislatore ha aggiunto il seguente periodo al comma 5 citato: “I parcheggi realizzati ai sensi del comma 4 non possono essere ceduti separatamente dall'unita' immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale e i relativi atti di cessione sono nulli, ad eccezione di espressa previsione contenuta nella convenzione stipulata con il comune, ovvero quando quest'ultimo abbia autorizzato l'atto di cessione”. In sostanza, è tata rimessa alla discrezionalità dei Comuni la scelta se consentire la vendita separata di questa categoria di parcheggi.

 Effettuata questa disamina, possono evidenziarsi i seguenti aspetti problematici relativi alle più recenti modifiche della norma in esame:

 a)      l’obbligo di mantenere il vincolo di destinazione a parcheggio e il vincolo di pertinenzialità con altra unità immobiliare sita nello stesso comune è sfornita di sanzione;

b)      sappiamo che l’esercizio del potere discrezionale da parte del Comune è soggetto pur sempre al principio della ragionevolezza, per cui ci si chiede quale motivazione logica e razionale potrebbe addurre il Comune per autorizzare la cessione separata;

c)      i limiti che il modificato comma 5 prevede per i parcheggi ai sensi del comma 1 (destinazione a parcheggio e pertinenzialità rispetto ad altra unità immobiliare dello stesso comune) valgono anche per i parcheggi ai sensi del comma 4? Il testo di legge non lo dice espressamente, per cui per questa via potrebbe essere stata introdotta una ulteriore (forse non voluta) disparità di trattamento tra le due tipologie di parcheggi.

avv. Marta Bassanese

Criteri per valutare l’anomalia di un’offerta

17 Gen 2013
17 Gennaio 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza n. 6 del 14 gennaio 2013, si occupa delle offerte anomale concernenti l’appalto di servizi.

Premesso che, “per consolidata giurisprudenza, "con riferimento al procedimento di verifica dell’anomalia…il sindacato del giudice amministrativo non può estendersi alla verifica della congruità dell’offerta presentata e delle sue singole voci, poiché, ove ciò fosse, il giudice invaderebbe una sfera propria della pubblica amministrazione, in esercizio di discrezionalità tecnica" (cfr., ex multis, CdS, IV, 27.6.2011 n. 3862), va osservato che il giudizio di verifica della congruità di un'offerta anomala ha natura globale, dovendosi valutare la serietà o meno dell'offerta nel suo complesso ed è insindacabile in sede di legittimità, salva l'ipotesi in cui le valutazioni siano manifestamente illogiche o affette da errori di fatto (cfr. CdS, IV, 23.7.2012 n. 4206; III, 8.10.2012 n. 5238; e, da ultimo, Ap, 29.11.2012 n. 36 cit.)”. Di conseguenza: “il controllo di anomalia mira – lo si ribadisce - ad un giudizio complessivo sull'affidabilità dell'offerta economica (alla stregua del quale il margine di utile è irrilevante: cfr CdS, VI, 23.2.2012 n. 1019), con la conseguenza che occorre verificare se la mancata o non adeguata giustificazione di singoli aspetti sia idonea a inficiare in senso sostanziale la credibilità della proposta economica nella sua interezza”, fermo restando che non si può aprioristicamente ipotizzare un margine minimo di utile al di sotto del quale un’offerta debba considerarsi, per ciò solo, incongrua atteso che: “nessuna norma vieta alle imprese concorrenti di offrire - relativamente a determinate voci dell'offerta - finanche un prezzo pari a zero, il quale costituisce valida espressione di una proposta economica, conveniente per la stazione appaltante, cui resterà la possibilità di verificare la congruità complessiva dell'offerta in chiave di possibile anomalia”.

Quanto esposto influisce anche sulla motivazione concernente la valutazione dell’offerta anomala atteso che: “mentre deve essere rigorosa ed analitica nel caso di ritenuta anomalia dell'offerta, implicando l'esclusione dalla gara, non deve essere altrettanto puntuale ed analitica nel caso di offerta ritenuta congrua, essendo sufficiente in tal caso anche una motivazione sintetica ed espressa per relationem alle giustificazioni rese dall'impresa interessata: cfr., ex pluribus, CdS, V, 1.10.2010 n. 7266”.

Nella medesima sentenza il T.A.R. Veneto riconosce la competenza del RUP nella valutazione dell’offerta anomala, trovando applicazione l’art. 121, c. 10, DPR 207/2010 - stante il disposo dell’art. 284 DPR 207/2010 che estende l’applicazione dell’art. 121 riguardante gli appalti di lavori anche agli appalti di servizi - secondo cui: “Nel caso di lavori da aggiudicare con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, qualora il punteggio relativo al prezzo e la somma dei punteggi relativi agli altri elementi di valutazione delle offerte siano entrambi pari o superiori ai limiti indicati dall'articolo 86, comma 2, del codice, il soggetto che presiede la gara chiude la seduta pubblica e ne dà comunicazione al responsabile del procedimento, che procede alla verifica delle giustificazioni presentate dai concorrenti ai sensi dell'articolo 87, comma 1, del codice avvalendosi degli uffici o organismi tecnici della stazione appaltante ovvero della commissione di gara, ove costituita. Si applicano le disposizioni di cui ai commi da 3 a 6”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 6 del 2013

Mercato elettronico ed enti locali: la Corte dei Conti ritiene obbligatorio il ricorso all’e-procurement (approvigionamento elettronico – MEPA)

16 Gen 2013
16 Gennaio 2013

La Corte dei Conti, sez. di controllo per le Marche, nel parere assunto con deliberazione 29 novembre 2012, n. 169, si è pronunciata sulle recenti innovazioni introdotte in materia di obbligo al ricorso al Mercato Elettronico della Pubblica Amministrazione (MEPA).

Il quadro delle norme che disciplinano l’uso dello strumento predisposto dalla Consip non è di immediata lettura.

L’articolo 1, comma 450, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (finanziaria per il 2007), ha disposto l’obbligo di ricorso al MEPA (di cui all’articolo 11, comma 5, del dPR 4 aprile 2002, n. 101) per le sole amministrazioni statali centrali e periferiche, con l’esclusione degli istituti e delle scuole di ogni ordine e grado, delle istituzioni educative e delle istituzioni universitarie, per gli acquisti di beni e servizi al di sotto della soglia comunitaria

I citato comma è stato fatto oggetto di due importanti modifiche, l’una operata dalla d. L. 7 maggio 2012, n. 52 (cd. prima “spending review”), l’altra dalla legge 24 dicembre 2012, n. 228 (finanziaria per il 2013).

Il testo oggi vigente continua ad obbligare le amministrazioni statali centri e periferiche, sempre con l’esclusione degli istituti e delle scuole di ogni ordine e grado, delle istituzioni educative e delle istituzioni universitarie, a fare ricorso al MEPA per gli acquisti sotto soglia, mentre le altre amministrazioni pubbliche “sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici … ovvero al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento per lo svolgimento  delle relative procedure”.

Per completezza, si richiama l’articolo 287, comma 2, del d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, regolamento di attuazione del Codice dei Contratti Pubblici, ai sensi del quale, “fatta salva la facoltà di ciascuna stazione appaltante di istituire un sistema dinamico di acquisizione ai sensi dell’articolo 60 del codice, il Ministero dell’economia e delle finanze, anche avvalendosi di Consip S.p.A. ed utilizzando le proprie infrastrutture tecnologiche, può provvedere alla realizzazione e gestione di un sistema dinamico di acquisizione per le stazioni appaltanti […]”.

Recentemente, poi, è intervenuto l'articolo 1, comma 1, del decreto Legge 6 luglio 2012, n. 95 (cd. seconda “spending review”), convertito in legge 7 agosto 2012, n. 135, il quale sembrerebbe (il condizionale è necessario) rafforzare l'obbligo di utilizzo del MEPA da parte di tutte le amministrazioni pubbliche, sanzionando con la nullità i contratti stipulati, successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto (avvenuta il 15 agosto 2012), in violazione degli obblighi di approvvigionamento attraverso gli strumenti messi a disposizione da Consip (tra i quali, oltre alle convenzioni quadro, figura anche il MEPA).

Il Comune di Montemarciano ha chiesto chiarimenti alla Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per le Marche, circa la “portata cogente per gli Enti locali del ricorso ai mercati elettronici ed alla possibilità di riconnettere all’espressione <sono tenuti a fare ricorso> un obbligo di <approvvigionarsi> ovvero di acquistare esclusivamente mediante il mercato elettronico”.

La Corte dei Conti, evidenziato l’ “indubbio problema di coordinamento” generato dal susseguirsi delle norme, ritiene che, per affidamenti di importo inferiore alla soglia comunitaria, sussista l’obbligo per gli enti locali di ricorrere al mercato elettronico, ancorché non sussista l’obbligo assoluto di rivolgersi al MEPA, avendo il legislatore riconosciuto una facoltà di scelta tra i diversi mercati elettronici.

Unica deroga al favor dimostrato per gli acquisti effettuati mediante i sistemi di cd. e – procurement che, secondo la Corte, ha portato a ritagliare “una disciplina specifica per gli acquisiti sotto soglia dal carattere particolarmente stringente che, in difetto di espresse previsioni, pare non ammettere deroghe e/o eccezioni di sorta”, con la possibilità di derogare unicamente qualora il bene e/o il servizio non possa essere acquistato secondo le modalità telematiche, ovvero, pur presente all’interno del mercato, si dimostri inidoneo, per mancanza di qualità essenziali, a soddisfare le necessità dell’amministrazione procedente.

Nelle ipotesi di deroga da ultimo richiamate, la stazione appaltante, dandone “compiuta evidenza nella motivazione”, può rivolgendosi alle tradizionali forme e canali di approvvigionamento.

In ogni altro caso, l’ingiustificata deroga rende nullo il contratto stipulato, fondando la connessa responsabilità.

Angelo Frigo – dottore di ricerca in diritto ed economia dell’impresa nell’Università di Verona

Corte Conti Marche n. 169 del 2012

Il codice degli appalti consente al comune di finanziare senza gara le scuole materne parrocchiali?

16 Gen 2013
16 Gennaio 2013

Con il parere n. 979 del 28 novembre 2012 la Corte dei Conti sezione Veneto, si è pronunciata sulla possibilità per un Ente Locale di sottoscrivere convenzioni con la locale Parrocchia al fine di offrire o potenziare le scuole materne parrocchiali.

Nel caso di specie, il Comune di Musile di Piave intendeva concedere un prestito alla Parrocchia, da restituire a rate entro una decina di anni senza interessi, finalizzato all’adeguamento ed al rinnovo delle strutture delle scuole materne parificate. Nel redigere il parere, la Corte dei Conti qualifica il suddetto finanziamento come un mutuo di scopo e ritiene come questo “potrebbe costituire elemento di criticità la concessione da parte dell’ente locale di un mutuo di scopo ad un soggetto privato (la o le parrocchie) di fatto esercitando, seppur in modo occasionale, attività bancaria e creditizia pur non avendo la qualificazione di ente concedente che la norma speciale (Testo Unico Bancario e Creditizio) impone”. Il Collegio ritiene di dover esaminare il negozio come “una convenzione finalizzata alla resa di un servizio di educazione per l’infanzia a favore delle famiglie residenti nel territorio comunale da parte delle scuole paritarie a fronte di una controprestazione da parte del comune sulla cui entità e natura non emergono elementi certi nella richiesta di parere. In tale contesto sembra che la scelta delle strutture scolastiche parrocchiali cui concedere il mutuo avvenga senza una preventiva procedura di scelta comparativa o qualsivoglia procedura selettiva ma solo come conseguenza necessaria della concessione del mutuo di scopo di cui trattasi”. In casi simili il Consiglio di Stato, sez. V, 30 agosto 2006, n. 5072, afferma che “sono da considerare a rilevanza economica i servizi di gestione del centro educativo diurno per minori, servizio di mensa sociale, assistenza domiciliare in favore di persone anziane e/o svantaggiate, consegna di pasti caldi a domicilio, servizi di gestione del centro di aggregazione per anziani, servizi relativi a parcheggi pubblici, servizi connessi ad impianti sportivi, servizi di trasporto pubblico scolastico, turistico, di disabili, ecc. . I suddetti servizi pubblici possiedono rilevanza economica, poiché si tratta di attività suscettibili, in astratto, di essere gestite in forma remunerativa e per le quali esiste certamente un mercato concorrenziale”. Di conseguenza nel caso in cui un Ente Pubblico voglia affidare il servizio di cui si tratta è necessaria l’applicazione delle regole dell’evidenza pubblica imposte dal Codice degli appalti che, come noto, impongono la pubblicità e per quel che interessa la procedura comparativa basata sui vari criteri di scelta individuati nelle disposizioni dello stesso Codice.

In conclusione, la Corte dei Conti scrive: “In base al quadro ricostruttivo sopra richiamato appare evidente che l’affidamento del servizio di scuola per l’infanzia, indipendentemente dalla relativa qualificazione, che sia a rilevanza economica, obbligatorio o socio assistenziale, imponga comunque, ai sensi delle citate normative  (Codice degli Appalti oppure D.P.C.M. 30 marzo 2001), il ricorso a idonea pubblicità, a delineate procedure comparative ed all’applicazione di specifici criteri di selezione. Alla luce delle considerazioni sopra esposte, appare evidente che la scelta della modalità con le quali affidare il servizio di scuola per l’infanzia alle sole scuole paritarie parrocchiali di fatto potrebbe determinare un vulnus nei confronti di tutti gli altri operatori economici o del terzo settore che svolgono nel territorio comunale il medesimo servizio e che non sarebbero chiamati a partecipare ad una eventuale procedura aperta o ristretta che sia. A parere del Collegio detti richiamati effetti appaiono critici in relazione al rispetto dei principi del Trattato che istituisce la Comunità europea, ai principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, ai principi di economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento e proporzionalità”.

Sulla questione, la Corte ha anche esaminato la natura delle risorse destinabili al finanziamento tramite concessione di mutuo e ritiene che “l’utilizzo delle richiamate giacenze per finanziare il mutuo alle scuole paritarie e la convenienza finanziaria dell’operazione mostrino profili di criticità atteso che, comunque, dette giacenze attualmente, vedono la tesoreria statale liquidare degli interessi, seppur minori. Nel caso prospettato dal comune di Musile di Piave della concessione di mutuo almeno decennale senza interessi, questi ultimi, seppur ridotti non  verrebbero certo maturati sulle somme destinate a finanziare la ristrutturazione delle scuole paritarie ne recuperati nelle singole rate in quanto queste ultime sarebbero composte dalla sola sorte capitale”.

Dott.sa Giada Scuccato

delibera_979_2012_par Corte Conti Veneto

Pianificazione urbanistica: quali evenienze generano un affidamento “qualificato” a ottenere una particolare destinazione urbanistica a una zona

15 Gen 2013
15 Gennaio 2013

La questione è esaminata dalla sentenza del TAR Veneto n. 7 del 2013,

Scrive il TAR: "la scelta compiuta in un PRG (o in una variante) di imprimere una particolare destinazione urbanistica ad una zona non necessita di particolare motivazione, in quanto essa trova giustificazione nei criteri generali - di ordine tecnico discrezionale - seguiti nella impostazione del piano, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di specifiche considerazioni (cfr., ex pluribus, CdS, VI, 17.2.2012 n. 854).
Tali evenienze generatrici di affidamento "qualificato", sulla scia della giurisprudenza ormai consolidata, sono state ravvisate nell'esistenza di convenzioni di lottizzazione, di accordi di diritto privato intercorsi tra Comune e proprietari, di giudicati di annullamento di dinieghi di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione. In mancanza di tali eventi non è configurabile un'aspettativa qualificata ad una destinazione edificatoria, ma una mera “spes” e quindi solo l'aspettativa generica ad una “reformatio in melius”, analoga a quella di qualunque altro proprietario di aree che aspiri all'utilizzazione più proficua dell'immobile, posizione cedevole rispetto alle scelte urbanistiche dell'Amministrazione: sicchè non può essere invocato il difetto di motivazione, in quanto si porrebbe in contrasto con la natura generale dell'atto e i criteri di ordine tecnico seguiti per la redazione dello stesso (cfr., ex multis, CdS, VI, 17.2.2012 n. 854 cit.; IV, 4.4.2011 n. 2104);
Peraltro, in sede di adozione di uno strumento urbanistico l'Amministrazione può introdurre anche innovazioni per migliorare le vigenti prescrizioni urbanistiche alle nuove esigenze, e ciò anche nel caso in cui la scelta effettuata imponga sacrifici ai proprietari interessati e li differenzi rispetto agli altri che abbiano già proceduto all'utilizzazione edificatoria dell'area secondo la previgente destinazione.
In ogni caso, in materia di pianificazione urbanistica occorre tener conto della congruenza delle scelte con le linee di sviluppo del territorio illustrate nella relazione tecnica e nei documenti accompagnatori. Al riguardo, la giurisprudenza ritiene che sia sufficiente proprio detta congruenza delle scelte, attenuando così in tali casi l'onere motivazionale degli strumenti di piano che si risolve nella mera indicazione della congruità con le direttrici di sviluppo del territorio esposte nella relazione tecnica o più in generale nei documenti che accompagnano la predisposizione del piano stesso (cfr, da ultimo, CdS, VI, 13.9.2012 n. 4867 cit.)".

sentenza TAR Veneto 7 del 2013

Procedura negoziata (per incarico di redazione del PAT): i plichi vanno aperti in seduta pubblica e non si applica l’art. 21 octies della L. n. 241/1990 (vizi formali)

15 Gen 2013
15 Gennaio 2013

Con un avviso pubblico un comune indiceva una procedura negoziata, ai sensi dell’art. 56, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006, per il conferimento dell’incarico della redazione del proprio P.A.T. (piano di assetto territoriale).

La seconda in graduatoria presentava un ricroso al TAR, svolgendo tre motivi di censura, tutti attinenti ad asseriti vizi procedurali (senza quindi contestare i maggiori punteggi attribuiti all’aggiudicataria), mirando, in sostanza, non ad ottenere per sé l’incarico oggetto di gara, bensì ad un rifacimento della procedura.

Il TAR del Veneto, dato atto che nelle more il P.A.T. era stato non solo redatto e adottato, ma finanche approvato dalla Regione, con la sentenza n. 402 del 2011 accoglieva il primo motivo dell’impugnativa principale, vertente sulla violazione del principio di pubblicità delle sedute, con particolare riferimento a quella di apertura dei plichi contenenti le offerte, ed annullava la procedura. Il T.A.R. condannava inoltre il Comune a risarcire la ricorrente.

Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 8 del 2013, conferma la sentenza del TAR, affermando che è principio inderogabile in ogni tipo di gara, ivi comprese anche le procedure negoziate, con o senza pubblicazione del bando di gara, quello della pubblicità delle sedute nelle quali si proceda alla verifica dell’integrità dei plichi e alla disamina del loro contenuto (documentazione amministrativa, offerta tecnica ed economica).

Scrive il Consiglio di Stato: "Il Tribunale è pervenuto a tale conclusione accogliendone il primo mezzo, con il quale era stata dedotta l’illegittimità consumata dalla Commissione per il fatto di avere aperto in seduta segreta le buste delle offerte.
Il Giudice territoriale ha richiamato, in proposito, il principio di trasparenza ed imparzialità, che impone la pubblicità delle sedute delle commissioni dedicate alla iniziale apertura dei plichi contenenti le offerte; ne ha rimarcato l’applicabilità senza alcuna distinzione a seconda del tipo di procedura in corso, e quindi anche alle procedure negoziate; ha ritenuto che tale principio, stante la sua cogenza, dovesse ritenersi operante anche nel silenzio della legge di gara sul punto, poiché questa avrebbe dovuto in ogni caso ritenersene integrata; infine, ha escluso che dinanzi al vizio emerso potesse invocarsi l’art. 21 octies della L. n. 241/1990, ossia il principio per cui non è annullabile un provvedimento per vizi formali nei casi in cui il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto comunque essere diverso, in quanto ad avviso del T.A.R. non poteva assegnarsi natura meramente formale alla violazione accertata.
2b Il Comune appellante non contesta la ricostruzione dei fatti operata dal primo Giudice (e dunque il carattere segreto della seduta in concreto tenuta), né la vigenza dei principi generali appena ricordati.
Il Comune fa però leva sulla specificità del procedimento nella specie applicato, una procedura negoziata previa pubblicazione del bando di gara ai sensi dell’art. 56, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006. Ed assume che, se è vero che anche in questa particolare materia devono essere rispettati i principi fondamentali di trasparenza e par condicio, tra questi ultimi non potrebbe tuttavia essere annoverata anche la regola della seduta pubblica per i lavori della Commissione.
Nella particolare procedura, la funzione del preventivo bando sarebbe semplicemente quella di rendere pubblica l’intenzione dell’Amministrazione di affidare l’appalto, individuando i termini essenziali del futuro contratto e i criteri selettivi, ed invitando gli interessati a presentare le loro candidature entro un certo termine.
2c E’ stato però esattamente ricordato ex adverso che un consolidato insegnamento giurisprudenziale, nella cui scia si è posto il primo Giudice, riconosce quale principio inderogabile in ogni tipo di gara, ivi comprese anche le procedure negoziate, quello della pubblicità delle sedute nelle quali si proceda alla verifica dell’integrità dei plichi e alla disamina del loro contenuto (documentazione amministrativa, offerta tecnica ed economica). E va rimarcato che lo stesso principio è stato inequivocabilmente esteso dalla più recente giurisprudenza anche alle procedure negoziate senza previo bando (v. C.d.S., III, 3 marzo 2011, n. 1369; sulla sua applicabilità alla trattativa privata cfr. pure V, 10 novembre 2010, n. 8006), ed ha trovato, da ultimo, il definitivo suggello dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio n. 31 del 31 luglio 2012 proprio nel segno, appunto, della massima latitudine applicativa del canone di pubblicità delle operazioni di gara, quale corollario del più generale principio di trasparenza.
Quest’ultima pronuncia, invero, con grande nettezza ha affermato che le esigenze di informazione dei partecipanti alla gara a tutela dei principi di trasparenza e par condicio, richiamate nella decisione n. 13/2011 della stessa Adunanza a sostegno della necessità che l'apertura delle buste contenenti le offerte tecniche avvenga in seduta pubblica, si pongono in termini sostanzialmente identici anche in relazione alle procedure negoziate, ed ha concluso, pertanto, che anche laddove si tratti di procedure negoziate, con o senza previo bando, l'apertura delle buste contenenti le offerte e la verifica dei documenti in esse contenuti (verifica preliminare alle successive valutazioni tecniche ed economiche delle medesime offerte) vadano effettuate in seduta pubblica.
Altrettanto sicura è poi la necessità di assegnare valenza cogente al suddetto canone di pubblicità delle sedute, stante la statura inderogabile dei principi di cui lo stesso costituisce espressione, il che comporta la conseguente sua applicabilità non solo in presenza di una previsione difforme da parte della lex specialis, ma, a maggior ragione, nel mero silenzio sul punto da parte della medesima legge di gara, che è suscettibile di etero-integrazione al riguardo (con la decisione della Sezione 4 marzo 2008, n. 901, è stato invero già puntualizzato che “non rileva che né la lettera d'invito né il capitolato speciale d'appalto abbiano stabilito alcunché circa la pubblicità o meno delle sedute della commissione, trattandosi di principio generale direttamente applicabile, … ”).
E’, infine, solo una petizione di principio quella che ha portato il Comune ad asserire che l’esito del procedimento sarebbe stato comunque il medesimo già registrato in concreto. Sicché si conferma privo di pregio anche il rinnovato richiamo dell’appellante all’art. 21 octies della L. n. 241/1990".

sentenza CDS 8 del 2013

Tende da sole abusive in zona vincolata e l’art. 27, comma 2 del D.P.R. 380/2001

14 Gen 2013
14 Gennaio 2013

Segnaliamo sul punto la sentenza del Consiglio di Stato n. 62 del 9 gennaio 2013.

 La sentenza in questione affronta due problematiche che si presentano di frequente nella prassi:

-          quale sia titolo abilitativo edilizio necessario per installare tende da sole all’esterno di un edificio;

-          quale sia la norma sanzionatoria applicabile nel caso sia realizzata un’opera  senza titolo edilizio in zona vincolata.

Nel caso concreto il Comune di Napoli aveva sanzionato con la demolizione ex art. 27, comma 2, del D.P.R. 380/2001 l’installazione all’esterno di un edificio commerciale di 3 tende da sole delle dimensioni di 17 ml. x 3 ml., perché eseguita in assenza di permesso di costruire in zona soggetta a vincolo paesaggistico.

Si ricorda che l’art. 27, comma 2, del D.P.R. 380/2001 così recita: “Il dirigente o il responsabile, quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo … su aree … di cui al decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (ora il riferimento è al D.Lgs. 42/2004)  … provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, previa comunicazione alle amministrazioni competenti le quali possono eventualmente intervenire, ai fini della demolizione, anche di propria iniziativa.

Il Giudice di primo grado, dopo avere operato una ricognizione dei tre diversi orientamenti giurisprudenziali relativi alla problematica del titolo edilizio necessario per installare le tende all’esterno di un edificio  - il primo orientamento non richiede alcun titolo; il secondo richiede il permesso di costruire e il terzo una d.i.a. -, dichiarava che riteneva necessaria una d.i.a., inquadrando la fattispecie nella manutenzione straordinaria ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera b) del D.P.R. 380/2001. Conseguentemente aveva annullato l’ordinanza di demolizione, la quale aveva invece ritenuto necessario il permesso di costruire.

Il Comune appellava la sentenza e il Consiglio di Stato ribaltava la decisione, confermando la legittimità del provvedimento demolitorio comunale sulla scorta del seguente ragionamento: si deve prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l’intervento (dia o permesso di costruire), mentre occorre considerare che quest’ultimo era stato posto in essere in zona soggetta a vincolo paesaggistico in assoluta carenza di titolo abilitativo (qualunque esso sia) e, pertanto, ai sensi dell’art. 27, comma 2 del D.P.R. n. 380 del 2001, doveva essere sanzionato.

Il Giudice di appello così interpreta l’art. 27, comma 2 citato: “Detto articolo riconosce, infatti, all’Amministrazione comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutta l’attività urbanistica ed edilizia, imponendo l’adozione di provvedimenti di demolizione in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata dall’intervento edilizio non autorizzato. E ciò mediante l’esercizio di un potere-dovere del tutto privo di margini di discrezionalità in quanto rivolto solo a reprimere gli abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere assentibili con DIA, prive di autorizzazione paesaggistica.

In conclusione, se viene realizzata un’opera in zona soggetta a vincolo paesaggistico in assenza di titolo abilitativo edilizio (qualunque sia quello in concreto richiesto dalla legge, d.i.a. o p.c.), il dirigente o responsabile deve ordinarne la rimozione a tutela dell’interesse pubblico paesaggistico.

Si osserva che il Consiglio di Stato, a differenza del Giudice di primo grado, non prende tuttavia posizione in ordine al titolo edilizio necessario per installare una tenda da sole.

avv. Marta Bassanese

sentenza CDS 62 del 2013

 

 

 

Distinzione tra limiti alla localizzazione (illegittimi) e criteri di localizzazione (legittimi) per gli impianti di telefonia

14 Gen 2013
14 Gennaio 2013

La sentenza è esaminata dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 44 del 2013, in sede di appello avverso la sentenza n. 14448 del 2007 del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, il quale aveva accolto un ricorso con il quale l’Ufficio Tecnico di un comune aveva negato l’autorizzazione alla DIA per l’installazione di un impianto di telefonia mobile.

Il TAR aveva deciso che, come affermato nella sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, del 5 dicembre 2005, n. 6961, l’individuazione di un unico sito per installare un impianto di telefonia mobile, scelto unicamente in base al criterio della massima distanza possibile dal centro abitato, costituisce un limite alla localizzazione e non un criterio di localizzazione ed in quanto tale è da ritenersi illegittima.

Il Consiglio di Stato conferma la decisione del TAR: "il Collegio osserva che i criteri con cui procedere all’individuazione dei siti dove collocare gli impianti di telefonia mobile sono stati già oggetto di decisione del Consiglio di Stato (Sez.VI, 9 giugno 2006, n. 3452), da cui il Collegio non ravvisa motivate ragioni per discostarsi.
In base a tali indirizzi giurisprudenziali è stato ritenuto che alle Regioni ed ai Comuni è consentito - nell’ambito delle proprie e rispettive competenze - individuare criteri localizzativi degli impianti di telefonia mobile (anche espressi sotto forma di divieto) quali ad esempio il divieto di collocare antenne su specifici edifici (ospedali, case di cura ecc.) mentre non è loro consentito introdurre limitazioni alla localizzazione, consistenti in criteri distanziali generici ed eterogenei (prescrizione di distanze minime, da rispettare nell’installazione degli impianti, dal perimetro esterno di edifici destinati ad abitazioni, a luoghi di lavoro o ad attività diverse da quelle specificamente connesse all’esercizio degli impianti stessi, di ospedali, case di cura e di riposo, edifici adibiti al culto, scuole ed asili nido nonché di immobili vincolati ai sensi della legislazione sui beni storico-artistici o individuati come edifici di pregio storico-architettonico, di parchi pubblici, parchi gioco, aree verdi attrezzate ed impianti sportivi).
Ne deriva che la scelta di individuare, come nel caso di specie, un’area ove collocare gli impianti in base al criterio della massima distanza possibile dal centro abitato non può ritenersi condivisibile, costituendo un limite alla localizzazione (non consentito) e non un criterio di localizzazione (consentito).
A ciò deve aggiungersi che la potestà attribuita all’amministrazione comunale di individuare aree dove collocare gli impianti è condizionata dal fatto che l’esercizio di tale facoltà deve essere rivolto alla realizzazione di una rete completa di infrastrutture di telecomunicazioni, tale da non pregiudicare, come ritenuto dalla giurisprudenza, l’interesse nazionale alla copertura del territorio e all’efficiente distribuzione del servizio (Cons. di Stato, Sez. VI, 5 dicembre 2005, n. 6961).
Infine, per quanto riguarda la censura relativa al fatto che l’articolo 3 del Regolamento approvato dal Comune di San Prisco con delibera n. 4 del 2004,
prevede che l’installazione di impianti di telefonia mobile è soggetta al rilascio del permesso di costruire e non alla denuncia di inizio attività (DIA) - procedura seguita invece dalla Società appellata - osserva il Collegio che tale argomentazione, che a giudizio dell’appellante avrebbe reso lecito il diniego espresso dal comune di San Prisco, non è stata fatta propria né dal provvedimento di diniego impugnato - che si è limitato a motivare il non accoglimento della DIA in quanto “il sito non corrisponde a quello previsto nel Regolamento locale in materia di insediamento di antenne, stazioni radio base (S.R.B.), ripetitori e d’infrastrutture connesse” - né dalla parte intimata nel giudizio di primo grado.
La censura, pertanto, non può trovare spazio in questa fase di giudizio".

D.M.

sentenza CDS 44 del 2012

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