Quando nell’avvalimento si prestino requisiti immateriali si dovrà confezionare un contratto idoneo a determinare una sorta di “traditio simbolica” di tali requisiti

09 Nov 2012
9 Novembre 2012

Lo chiarisce il Consiglio di Stato nella stessa sentenza n. 5595, già allegata al post che precede.

Scrive il Consiglio di Stato: "poiché nell’avvalimento l’operazione economica complessiva si compone di un contratto tra impresa ausiliata ed impresa ausiliaria, di una dichiarazione di impegno dell’impresa ausiliaria e di un contratto di appalto, manifestandosi, dunque, quale collegamento negoziale composto da un susseguirsi di schemi contrattuali inscindibilmente connessi, è evidente che l’oggetto dell’impegno negoziale dell’impresa ausiliata con cui essa trasferisce il requisito mancante in capo all’impresa partecipante, deve essere non solo lecito e determinato (o determinabile), ma anche possibile ex art. 1346 c.c.
In presenza di requisiti strettamente personali, dunque, l’oggetto di un eventuale contratto di avvalimento non può ritenersi giuridicamente possibile, in quanto non deducibile quale prestazione ai sensi degli art. 1173 e 1321 c.c.
Il Collegio osserva, peraltro, che in astratto gli schemi contrattuali che compongono l’operazione economica delineata dal citato art. 49 possono avere ad oggetto sia requisiti materiali (mezzi, attrezzature, forza lavoro), sia requisiti immateriali (capacità economica-finanziaria, fatturato, attestazione SOA e, secondo un filone prevalente nella giurisprudenza di questo Consiglio, anche le certificazioni di qualità).
Nell’ipotesi di conferimento di requisiti materiali l’impresa avvalsa si priva (nei limiti delle prestazioni necessarie ad eseguire il contratto da affidare con gara) effettivamente dei mezzi prestati a favore dell’impresa concorrente; nell’ipotesi, invece, in cui si conferiscano (rectius: si prestino) requisiti immateriali si dovrà comunque confezionare un contratto idoneo a determinare una sorta di “traditio simbolica” di tali requisiti dall’impresa ausiliaria a quella ausiliata partecipante alla gara d’appalto (ad es., ricorrendo all’affitto di azienda o di ramo di azienda).
Il tratto comune è rappresentato, come detto, dal fatto che il prestito dei requisiti riguarda i requisiti dell’impresa e non quelli dell’imprenditore, che sono insuscettibili di trasferimento anche in forma simbolica, trattandosi di requisiti soggettivamente indefettibili di cui il possessore non può, neppure in modo circostanziato e eposodico, privarsi e, di conseguenza, non possono nemmeno essere dedotti quali oggetto di “possibile” prestazione contrattuale, come si deve ribadire.
Peraltro, si deve aggiungere ad abundantiam che anche il d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207 (Regolamento di esecuzione e attuazione del Codice dei contratti pubblici) conferma tale interpretazione: l’art. 88, comma 5, dedicato al contratto di avvalimento in gara e alla qualificazione mediante avvalimento, prevede espressamente, infatti, che l’impresa ausiliata per conseguire la qualificazione di cui all’art. 50 del codice, deve possedere i requisiti di cui all’art. 78 in proprio.
I requisiti di cui all’art. 78 che l’impresa deve possedere in proprio sono i requisiti d’ordine generale che, ai sensi del comma 1 del predetto articolo, sono quelli previsti dagli articoli 38, comma 1, e 39 commi 1 e 2, del Codice appalti".

Sono insuscettibili di avvalimento i requisiti di cui agli artt. 38 e 39 del Codice degli appalti

09 Nov 2012
9 Novembre 2012

Lo precisa il Consiglio di Stato nella sentenza n. 5595 del 2012.

Scrive il Consiglio di Stato: "questo Consiglio, con la sentenza della sez. III 15 Novembre 2011, n. 6040, ha icasticamente affermato che in tema di gare di appalto pubblico, anche se all'istituto dell'avvalimento deve ormai essere riconosciuta portata generale, resta salva, tuttavia, l'infungibilità dei requisiti ex artt. 38 e 39 del codice dei contratti, in quanto requisiti di tipo soggettivo, intrinsecamente legati al soggetto e alla sua idoneità a porsi come valido e affidabile contraente per l'Amministrazione.
Si deve, infatti, rilevare che l’avvalimento, istituto di iniziale elaborazione della giurisprudenza comunitaria (sentenza Ballast Nedam Groep I, ricavata dall'interpretazione dell'art. 26, lett. e, direttiva n. 71/305/CEE, nonché C. Giust. CE, sez. V, 14 aprile 1994, C-389/92, C. giust. CE, sez. III, 18 dicembre 1997, C-5/97 e C. Giust. CE, sez. V, 2 dicembre 1999, C-176/98, Holst Italia S.p.A. c. Comune di Cagliari), è fondato sulla necessità di potenziare la libertà di concorrenza delle imprese, essendo lo stesso funzionale a rimuovere ogni ostacolo al suo libero esercizio in ambito Comunitario e idoneo a garantire la massima partecipazione alle procedure di gara e, nel contempo, la par condicio dei concorrenti.
La disciplina dell'art. 49 del Codice Appalti, in coerenza con la giurisprudenza e la normativa comunitaria, non pone alcuna limitazione all'avvalimento, stabilendo che un operatore economico può, se del caso e per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi, purché vi sia, in positivo, un’adeguata prova della disponibilità dei requisiti prestati, dimostrando all’Amministrazione aggiudicatrice che l’impresa concorrente disporrà dei mezzi necessari.
Fanno eccezione a questa portata generale dell’istituto i requisiti strettamente personali, come quelli di carattere generale ai sensi dell’art. 38 del Codice appalti (cd. requisiti di idoneità morale), così come quelli soggettivi di carattere personale, individuati nell’art. 39 del medesimo Codice (cd. requisiti professionali).
Tali requisiti, infatti, non sono attinenti all’impresa e ai mezzi di cui essa dispone e non sono intesi a garantire l’obiettiva qualità dell'adempimento; essi, invece, sono relativi alla mera e soggettiva idoneità (professionale) del concorrente (quindi non dell’impresa ma dell’imprenditore) a partecipare alla gara d’appalto e ad essere, quindi, contraente con la Pubblica Amministrazione.
Pertanto, secondo il Collegio, è per una ragione logica, prima ancora che giuridica, che devono ritenersi insuscettibili di avvalimento i requisiti di cui agli artt. 38 e 39 del Codice degli appalti, trattandosi, si ribadisce, di requisiti di onorabilità, moralità e professionalità intrinsecamente legati al soggetto concorrente alla gara e alla sua idoneità a porsi come valido e affidabile contraente per l'Amministrazione".

sentenza CDS 5595 del 2012

L’art. 96 lett. f) del r.d. n. 523 del 1904 e la distanza “stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località”

08 Nov 2012
8 Novembre 2012

La sentenza del Consiglio di Stato n. 5619 del 2012 interveniene sulla questione di cui al titolo del post.

Scrive il Consiglio di Stato: "L’art. 96 citato elenca una serie di “lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese”.
Come afferma costantemente la giurisprudenza, il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d’acqua, previsto dalla lettera f) dell’art. 96, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (cfr. Cass. civ., SS.UU., 30 luglio 2009, n. 17784) e ha carattere legale e inderogabile: ne segue che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell’art. 33 della legge n. 47 del 1985 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria (cfr. per tutte Cons. Stato, Sez. V, 26 marzo 2009, n. 1814; Id., Sez. IV, 12 febbraio 2010, n. 772; Id., Sez. IV, 22 giugno 2011, n. 3781; Trib. Sup. acque pubbl., 15 marzo 2011, n. 35; ivi riferimenti ulteriori).
E’ ben vero che la lettera f) dell’art. 96, che qui viene in questione, commisura il divieto alla distanza “stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località” e in mancanza di queste lo stabilisce alla distanza “minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”.
Senonché – come è stato più volte affermato in giurisprudenza – alla luce del generale divieto di costruzione di opere in prossimità degli argini dei corsi d’acqua, il rinvio alla normativa locale assume carattere eccezionale. Tale normativa, per prevalere sulla norma generale, deve avere carattere specifico, ossia essere una normativa espressamente dedicata alla regolamentazione della tutela delle acque e alla distanza dagli argini delle costruzioni, che tenga esplicitamente conto della regola generale espressa dalla normativa statale e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale deroga. Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche mediante l'utilizzo di uno strumento urbanistico, come può essere il piano regolatore generale, ma occorre che tale strumento contenga una norma esplicitamente dedicata alla regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli argini anche in eventuale deroga alla disposizione della lettera f) dell’art. 96, in relazione alla specifica condizione locale delle acque di cui trattasi (cfr. Cass. civ., SS. UU., 18 luglio 2008, n. 19813; Cons. Stato, Sez. IV, 29 aprile 2011, n. 2544).
In mancanza di una difforme disciplina sul punto specifico nel P.R.G. dell’epoca, deve ritenersi non sussistere una normativa locale derogatoria di quella generale, alla quale dunque occorre fare riferimento.
Neppure giova alla tesi, infine, il richiamo alla presenza in zona di altri manufatti, trattandosi di circostanza che, genericamente affermata più che effettivamente dimostrata, andrebbe comunque esaminata con riguardo ai singoli casi concreti".

sentenza CDS 5619 del 2012

Il decreto legge 188 del 2012 in materia di Province e Città metropolitane

08 Nov 2012
8 Novembre 2012

E' stato pubblicato sulla GU n. 259 del 6-11-2012 ed è entrato in vigore il 7-11-2012 il DECRETO-LEGGE 5 novembre 2012, n. 188, recante "Disposizioni urgenti in materia di Province e Citta' metropolitane. (12G0210)".

DECRETO-LEGGE 5 novembre 2012, n. 188
  Disposizioni urgenti in materia di Province e Citta' metropolitane. (12G0210)  
 

 

Le slides ARPAV per il convegno del 26 ottobre 2012 sulla gestione ottimale del servizio di raccolta dei rifiuti nel Veneto

08 Nov 2012
8 Novembre 2012

L'ing. Silvia Rizzardi dell'Osservatorio Regionale Rifiuti dell'ARPAV, che sentitamente ringraziamo, ci ha fornito le slides della sua relazione sulla gestione ottimale del servizio di raccolta dei rifiuti nel Veneto, tenuta nel convegno del 26 ottobre 2012 ad Arzignano.

GESTIONE DEI RIFIUTI_ARPAV 26_10_2012

Il vincolo idraulico (art. 96 r.d. 523 del 1904) vale per tutte le acque pubbliche (compreso il lago di Garda) e comporta inedificabilità assoluta

07 Nov 2012
7 Novembre 2012

La questione è esaminata dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 5620 del 2012.

Scrive il Consiglio di Stato: "L’art. 96 del regio decreto n. 523 del 1904 reca l’elenco dei “lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese”.
Nello specifico, la lettera f) vieta “le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”.
In punto di fatto, non è contestato che i lavori di ampliamento dell’hotel Venezia si siano svolti a distanza inferiore a dieci metri dalla sponda del lago. Gli appellanti sostengono però l’inapplicabilità alla fattispecie della disposizione in questione.
La tesi, però, non è fondata.
Il divieto di edificazione in oggetto ha carattere assoluto e riguarda in genere le acque pubbliche; tale è senz’altro il lago di Garda, sul quale l’albergo è costruito.
Nessuno dei rilievi opposti per affermare l’inapplicabilità del divieto alle sponde dei laghi resiste alla critica. Ciò si deve dire, in particolare, per gli argomenti che gli appellanti vorrebbero trarre dall’analisi delle norme contenute nel regio decreto citato.
Osservano gli appellanti che dal complesso delle disposizioni recate dall’art. 96 emergerebbe l’intento del legislatore dell’epoca di limitare la disciplina ai soli corsi d’acqua. Questa sembra piuttosto una petizione di principio, per di più in contrasto con l’alinea dell’articolo, che, nel fare riferimento alle acque pubbliche in genere, non pone alcuna restrizione del genere diversamente da quanto invece dispone l’art. 98, la lettera d) del quale testualmente è circoscritta a “le nuove costruzioni nell'alveo dei fiumi, torrenti, rivi, scolatoi pubblici o canali demaniali”.
E’ poi irrilevante la circostanza che solo il successivo art. 97 menzioni espressamente i laghi. La disposizione della lettera n), alla quale ci si richiama, reca infatti una previsione particolare riferita al regime delle spiagge dei laghi e nulla dice circa la disciplina delle sponde, per la quale dunque non può non valere la norma generale dell’art. 96.
Il rilievo secondo cui l’inciso della lettera f) dell’art. 96 “dal piede degli argini e loro accessori come sopra” richiamerebbe “i fiumi, torrenti e canali navigabili” previsti dalla lettera e) che precede è del pari fallace, apparendo invece chiaro che esso, rispetto agli argini, si riferisce alle loro “banche o sottobanche”.
Che questa sia la corretta interpretazione delle norme lo dimostra poi una considerazione ulteriore di carattere generale. Se la finalità delle disposizioni in oggetto è quella di consentire il libero deflusso delle acque, è evidente che la medesima esigenza si pone con riguardo alle acque dei laghi, anch’esse soggette a innalzamenti di livello. Mentre infine non può rilevare che la violazione della regola sulla distanza non riguarderebbe il piano terra, ma un piano superiore, perché, così argomentando, si vuole introdurre una deroga, che la legge non conosce, al divieto di edificare, assoluto e inderogabile.
A una diversa conclusione, infine, non è possibile giungere prendendo in considerazione l’esistenza di altri manufatti a ridosso della riva del lago di Garda. Si tratta di circostanza che, genericamente affermata più che effettivamente dimostrata, andrebbe comunque esaminata con riguardo ai singoli casi concreti. Dato il divieto di edificabilità, peraltro, l’esistenza di eventuali abusi edilizi non potrebbe di per sé legittimare la pretesa a identico trattamento (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 14 aprile 2010, n. 2105; Id., Sez. IV, 24 febbraio 2011, n. 1235).
L’accertata violazione della norma sulla distanza della costruzione dalle acque pubbliche è di per sé ragione sufficiente per giudicare illegittimo il permesso di costruire rilasciato dal Comune di Malcesine".

sentenza cds 5620 del 2012

Cosa facevi di sera sotto le piante di kiwi?

06 Nov 2012
6 Novembre 2012

Una struttura in legno delle dimensioni di m 30,30 x 4,40, aperta sui lati e originariamente coperta da un telo (poi rimosso), è un pergolato per la coltivazione dei Kiwi o un riparo per le autovetture?

Se si valuta la questione in termini di et-et, è evidente che sotto i kiwi ci possono stare anche le macchine (quante cose si possono fare sotto le fronde degli alberi!).

Il TAR Veneto, invece, nella sentenza n. 1290 del 2012 valuta la faccenda in termini di aut-aut e conclude dicendo che è possibile distinguere tra un garage e una coltivazione di Kiwi e che le due cose non possono coesistere.

Scrive il TAR: "La descrizione dell’opera realizzata, sopra riportata, permette di evidenziare come si sia in presenza di un manufatto di dimensioni considerevoli e, ciò, a prescindere dal fatto che la copertura sia stata rimossa, ipotesi quest’ultima che se, da un lato, ha permesso al Giudice penale di ritenere non configurabile il reato di cui all’art. 44 lett. b) del Dpr 380/2001, non permette, ora, di qualificare lo stesso manufatto quale “pergolato” e di renderlo così astrattamente compatibile con l’incidenza su un area agricola.
5. Sul punto va ricordato l’esistenza di una pronuncia del Consiglio di Stato (sez. IV del 29 settembre 2011 n. 5409) che ha affermato come …”il pergolato, rilevante ai fini edilizi, deve essere inteso come un manufatto avente natura ornamentale, realizzato in struttura leggera di legno o altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, che funge da sostegno per piante rampicanti, a mezzo delle quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni; di conseguenza non è riconducibile alla nozione di pergolato una struttura costituita da pilastri e travi in legno di importanti dimensioni, tali da rendere la struttura solida e robusta e da farne presumere una permanenza prolungata nel tempo, possa essere ricondotta alla nozione di pergolato .
6. Si consideri ancora come la Giurisprudenza prevalente (per tutti si veda T.A.R. Napoli Campania sez. VII 10 giugno 2011 n. 3099) ha sancito che ….” non rientra nella nozione di pergolato - e pertanto non è soggetta a d.i.a., bensì al rilascio di un permesso di costruire - un'opera costituita da pilastri e travi in legno di importanti dimensioni, atti a rendere la struttura solida e robusta. In tal caso, infatti, le rilevanti dimensioni e consistenza delle travi utilizzate, il loro stabile collegamento (nella specie a mezzo di bulloni e perni metallici) con una platea cementizia appositamente realizzata, la notevole estensione superficiaria ricoperta e la presenza di una copertura (ancorché precaria) risultano chiaro indice dell'essere preordinata, l'opera, ad un utilizzo prolungato nel tempo e non certo provvisorio”.
7. E’, inoltre, necessario evidenziare come il semplice esame della documentazione fotografica addotta dalla stessa parte ricorrente, non solo consente di ritenere ai fini urbanistici “non provvisorio” detto manufatto, ma, al contrario, consente di ritenere verosimile la qualificazione operata dal Comune nel momento in cui lo ha qualificato quale “struttura in legno adibita al riparo delle autovetture”.
8. E’ allora evidente la legittimità del provvedimento impugnato che ha ritenuto il manufatto di cui si tratta in contrasto con le vigenti disposizioni urbanistiche che, come ricordato nei provvedimenti impugnati, consentono soltanto la realizzazione di opere a servizio del fondo rustico e dell’azienda agricola ad esso collegata".

Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 1290 del 2012

Modifiche alla legge regionale veneta 15 del 2004 in materia di commercio

06 Nov 2012
6 Novembre 2012

Sul Bur n. 90 del 02 novembre 2012 è stata pubblicata la legge regionale veneta n. 42 del 26 ottobre 2012, recante "Interpretazione autentica degli articoli 8, 10 e 12 e novellazione dell'articolo 12 della legge regionale 13 agosto 2004, n. 15 "Norme di programmazione per l'insediamento di attività commerciali nel Veneto".

legge regione Veneto n. 42 del 2012

Anche le opere monetizzate sono scomputabili dagli oneri di urbanizzazione

05 Nov 2012
5 Novembre 2012

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 1293 del 2012.

Scrive il TAR: "per il maggior carico urbanistico derivante dall’intervento è stata prevista la possibilità per i ricorrenti di procedere alla monetizzazione degli standard necessari e di tale importo è espressamente riportato l’ammontare in convenzione, sia per le aree necessarie a parcheggio che per quelle destinate a verde attrezzato primario.
Il ricorso alla monetizzazione è, come noto, ammesso ogni qual volta non sia possibile, proprio in considerazione del livello di urbanizzazione presente nelle aree interessate, dare luogo alla realizzazione diretta degli interventi necessari da parte del soggetto lottizzante e la cessione a favore dell’amministrazione delle aree utilizzate.
L’ipotesi della monetizzazione è quindi equiparabile all’ipotesi ordinaria, nella quale il concessionario ha titolo allo scomputo totale o parziale della quota di contributo per oneri di urbanizzazione qualora, in luogo totale o parziale della stessa, si obblighi verso il Comune alla cessione delle aree e delle opere da realizzare o già esistenti.
Orbene, atteso che sia la normativa statale che quella regionale prevede che il richiedente il titolo edilizio per la realizzazione delle opere possa scomputare dagli oneri di urbanizzazione (fermo restando quanto dovuto per il costo di costruzione) il valore delle opere di urbanizzazione realizzate in attuazione di una convenzione urbanistica, proprio al fine di non dare luogo ad una duplicazione di prestazione a fronte della medesima causa (cfr. sul punto C.d.S., V, n. 807/1998 e T.A.R Veneto, II, n. 1132/2003), ne deriva l’illegittimità della previsione contenuta nella convenzione proprio nella parte in cui ha escluso il futuro scomputo dei suddetti oneri all’atto del rilascio del titolo edilizio (fermo restando, così come previsto dall’ultimo comma dell’art. 6, che dovrà in ogni caso essere versta l’eventuale maggior somma che dovesse determinarsi con riguardo agli oneri di urbanizzazione primaria)".

sentenza TAR Veneto 1293 del 2012

La cassazione penale sul “carico urbanistico”

05 Nov 2012
5 Novembre 2012

Allo stato attuale, manca una definizione legislativa di carico urbanistico: di regola,  sono i Piani Regolatori dei Comuni – o deliberazioni comunali ad hoc - a definire i criteri e le tabelle per calcolare il carico urbanistico dei diversi interventi edilizi.

La Corte di Cassazione, III sez. penale, con la sentenza del 5.10.2011, n. 36104, affronta il tema del carico urbanistico e degli interventi che ne determinano un aggravio, richiamando una precedente pronuncia delle Sezioni Unite (sentenza 29.01.2003 n. 12878), secondo cui la nozione di carico urbanistico “deriva dall'osservazione che ogni insediamento umano è costituito da un elemento c.d. primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di servizio (opere pubbliche in genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione del gas) che deve essere proporzionato all'insediamento primario ossia al numero degli abitanti insediati ed alle caratteristiche dell'attività da costoro svolte. Quindi, il carico urbanistico è l'effetto che viene prodotto dall'insediamento primario come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero delle persone insediate su di un determinato territorio. Si tratta di un concetto, non definito dalla vigente legislazione, ma che è in concreto preso in considerazione in vari istituti di diritto urbanistico: a) negli standards urbanistici di cui al D.M. 02/04/1968, n. 1444 che richiedono l'inclusione, nella formazione degli strumenti urbanistici, di dotazioni minime di spazi pubblici per abitante a seconda delle varie zone; b) nella sottoposizione a concessione e, quindi, a contributo sia di urbanizzazione che sul costo di produzione, delle superfici utili degli edifici, in quanto comportino la costituzione di nuovi vani capaci di produrre nuovo insediamento; c) nel parallelo esonero da contributo di quelle opere che non comportano nuovo insediamento, come le opere di urbanizzazione o le opere soggette ad autorizzazione; d) nell'esonero da ogni autorizzazione e perciò da ogni contributo per le opere interne (art. 26, L. 47/1985 e art. 4 comma 7, L. 493/1993) che non comportano la creazione di nuove superficie utili, ferma restando la destinazione dell'immobile; e) nell'esonero da sanzioni penali delle opere che non costituiscono nuovo o diverso carico urbanistico (art. 10, L. 47/1985 e art. 4, L. 493/1993)”.

dott. Matteo Acquasaliente

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