La “disciplina comunitaria” sui ritardi nei pagamenti si applica anche alle Pubbliche Amministrazioni

08 Feb 2013
8 Febbraio 2013

Premesso che l’art. 10, c. 1, l. 180/2011 (c.d. Statuto delle imprese) stabilisce che: “Il Governo è delegato ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo recante modifiche al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, per l'integrale recepimento della direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011”, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali e che, di conseguenza, veniva adottato il D. Lgs. 192/2012 concernente le “Modifiche al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, per l'integrale recepimento della direttiva 2011/7/UE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, a norma dell'articolo 10, comma 1, della legge 11 novembre 2011, n. 180”, il Ministero dello Sviluppo Economico, con una nota del 23 gennaio 2013, ha chiarito che la “nuova disciplina dei ritardati pagamenti introdotta in attuazione della normativa comunitaria 7/2011/UE si applica ai contratti pubblici relativi a tutti i settori produttivi, inclusi i lavori, stipulati a decorrere dal 1° gennaio 2013, ai sensi dell’art. 3, co. 1, del d.lgs. n. 192 del 2012”, quindi anche alle Pubbliche Amministrazioni, atteso l’ampio concetto di “pubblica amministrazione” contenuto nell’art. 2 della predetta direttiva.

Di conseguenza: “le disposizioni dettate dal codice dei contratti pubblici e dal regolamento di attuazione vigenti per il settore dei lavori pubblici, relative ai termini di pagamento delle rate di acconto e di saldo nonché alla misura degli interessi da corrispondere in caso di ritardato pagamento, devono essere interpretate e chiarite alla luce delle disposizioni del decreto legislativo 9 novembre 2012, n. 192, ritenendosi prevalenti queste ultime sulle disposizioni di settore confliggenti, tenendo conto anche dell’espressa clausola di salvezza, secondo cui restano «salve le vigenti disposizioni del codice civile e delle leggi speciali che contengono una disciplina più favorevole per il creditore» (art. 11, co. 2, d. lgs. n. 231 del 2002)”.

In particolare la nota de qua fornisce dei chiarimenti in materia di:

-        termini di pagamento delle prestazioni contrattuali;

-        interessi da corrispondere in caso di ritardato pagamento.

 Si riporta, altresì, la circolare n. 2 del 05 febbraio 2013 del Ministero dell’Economia e delle Finanze che, nell’ottica del contenimento della spese pubblica, fornisce alcune indicazioni in ordine alla predisposizione dei bilanci di previsione del 2013 riguardanti gli enti e gli organismi pubblici; in particolare si sottolineano le norme concernenti la “razionalizzazione delle spese per l’acquisto di beni e servizi”.

Dott. Matteo Acquasaliente

direttiva 2011 UE

Circolare del 23 gennaio 2013

Circolare_del_5_febbraio_2013_n_2

Se un’opera va demolita per il vincolo paesaggistico, non si può salvare applicando la monetizzazione prevista dagli artt. 33 e 34 del DPR 380 in materia edilizia

07 Feb 2013
7 Febbraio 2013

Lo precisa la sentenza del TAR Veneto n. 54 del 2013.

Il caso esaminato dal TAR è quello di una veranda che:
- è stata realizzata senza alcun titolo abilitativo in area sottoposta a vincolo paesaggistico;
- con provvedimento del 15 ottobre 2010 è stata esclusa dal condono, in quanto realizzata oltre il 1° ottobre 1983;
- con provvedimento dell’8 agosto 2011 ne è stata ordinata la demolizione ai sensi del 1° comma dell’art. 167 del D.lgs. n. 42/2004;
- con provvedimento del 12 giugno 2012 ne è stata negata la compatibilità paesaggistica, costituendo la stessa aumento di volume;
- con provvedimento del 12 giugno 2012 è stata ritenuta non sanabile, anche per contrasto della stessa con le NTA del PRG;
- è stata oggetto di un nuovo ordine di demolizione del 18 luglio 2012.

Scrive il TAR: "Ne consegue che ai ricorrenti non può che essere applicata la sanzione della rimessione in pristino, ai sensi dell’art. 167, comma 1, del D.lvo n. 42/2004, non essendo prevista una sanzione pecuniaria in alternativa alla demolizione, bensì soltanto la “rimessione in pristino” a spese del trasgressore, sanzione alla quale quest’ultimo è sempre tenuto in caso di violazione degli obblighi e degli ordini disciplinati dalla legge di tutela del vincolo paesaggistico. Per contro, l’irrogazione di una sanzione pecuniaria è prevista, dal comma 5 dell’art. 167 del D.lvo n. 42/2004, come mera eventualità con riferimento all’ipotesi in cui, a seguito di specifica istanza formulata dal soggetto interessato, l’amministrazione accerti la “compatibilità paesaggistica” degli interventi effettuati. Nel caso in esame, l’autorizzazione paesaggistica è stata necessariamente negata, ai sensi dell’art. 167 comma 4 lett. a), avendo la nuova costruzione determinato un aumento di volume. Per quanto riguarda la violazione dell'art. 33 D.P.R. n. 380 del 2001 e la dedotta impossibilità di demolire senza danneggiare la restante parte del fabbricato, il Collegio rileva come tale norma si applichi ai casi di "interventi di ristrutturazione edilizia realizzati in assenza di permesso di costruire o in totale difformità" e non sia in alcun modo applicabile alle misure demolitorie ordinate ai sensi dell'art. 167, comma 1, D.Lgs. n. 42 del 2004. Pertanto, poiché l’unica sanzione applicabile alla fattispecie era quella del ripristino dello stato dei luoghi, è evidente che la richiesta dei  ricorrenti di una istruttoria tecnica, diretta a verificare la sussistenza delle condizioni per l’applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria, non poteva trovare ingresso".

sentenza TAR Veneto 54 del 2013

Il c.d. criterio della prevenzione non si applica alle opere abusive

07 Feb 2013
7 Febbraio 2013

La sentenza del Tribunale di Vicenza n. 1077/2012, emessa in data 13.10.2012 e depositata in cancelleria il 23.10.2012, dichiara non applicabile alle opere abusive (nella fattispecie una veranda di vetro ed alluminio costruita violando le distanze legali dai confini) il c.d. criterio della prevenzione.

Premesso che: “dal punto di vista edilizio e civilistico, per integrare il concetto di costruzione, come più volte affermato dalla Cassazione, vengono in rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi caratteri della stabilità e dell’immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti ed oggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura, tali da potersi definire di entità trascurabile. Anche la migliore dottrina include nella nozione di “costruzione” non solo l’opera che abbia le caratteristiche di un edificio o di altra fabbricatura in muratura, ma anche qualsiasi altra opera edilizia che presenti carattere di solidità, stabilità e di immobilizzazione rispetto al suolo, ancorché manchi di propria individualità ed autonomia in quanto costituente un semplice accessorio del fabbricato”, il Tribunale di Vicenza conferma quanto affermato dal T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 02.12.2009, n. 8326, secondo cui la normativa in materia di distanze tra le costruzioni (sia comunale che statale), essendo dettata anche a tutela di interessi pubblici generali - tra cui la salubrità e la sicurezza pubblica -, “impone di prendere in considerazione la situazione di fatto quale si presenta in concreto in sede di rilascio del titolo edilizio, a nulla rilevando che taluno dei fabbricati preesistenti, in relazione al quale va calcolata la distanza, sia abusivo, ferma restando l'attività repressiva della p.a.”.

Di conseguenza, il c.d. criterio della prevenzione derivante dal combinato disposto dell’art. 873 c.c. secondo cui: “ Le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore” e dall’art. 875 c.c. secondo cui: “Quando il muro si trova ad una distanza dal confine minore di un metro e mezzo ovvero a distanza minore della metà di quella stabilita dai regolamenti locali, il vicino può chiedere la comunione del muro soltanto allo scopo di fabbricare  contro il muro stesso, pagando, oltre il valore della metà del muro, il valore del suolo da occupare con la nuova fabbrica, salvo che il proprietario preferisca estendere il suo muro sino al confine. Il vicino che intende domandare la comunione deve interpellare  preventivamente il proprietario se preferisca di estendere il muro al confine o di procedere alla sua demolizione. Questi deve manifestare la propria volontà entro il termine di giorni quindici e deve procedere alla costruzione o alla demolizione entro sei mesi dal giorno in cui ha comunicato la risposta”, non si applica alle opere abusive atteso che la Cassazione civile, sez. II, 30.10.2007, n. 22896, in fattispecie analoghe, afferma che: “In tema di distanze nelle costruzioni, il cosiddetto criterio della prevenzione di cui agli art. 873 e 875 c.c., è derogato dal regolamento edilizio locale nel caso in cui questo fissi le distanze non solo tra le costruzioni ma anche delle stesse dal confine, tranne che consenta anche le costruzioni in aderenza o in appoggio; pertanto, fuori dal caso del criterio della prevenzione, in cui è possibile costruire in aderenza o in appoggio al fabbricato preesistente, chi costruisce per primo ha la scelta fra il costruire alla distanza regolamentare e l'erigere la propria fabbrica fino ad occupare l'estremo limite del confine medesimo, ma non anche quella di costruire a distanza inferiore dal confine, poiché la finalità di tale prescrizione è di ripartire tra i proprietari confinanti l'onere della creazione della zona di distacco tra le costruzioni”.

Indi, ove il regolamento comunale fissa le distanze tra le costruzioni e tra queste ed i confini e non consente la costruzione in aderenza o in appoggio, i privati non possono costruire a distanza inferiore, soprattutto nel caso di specie ove “neppure era ragionevole la costruzione a distanza irregolare dal confine della sola veranda, proprio perché accessoria ad un fabbricato principale distaccato dal confine stesso, e quindi giammai utilizzabile per un’ipotetica costruzione in aderenza o appoggio”.

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza Trib VI 1077 del 2012

Il TAR Veneto ribadisce che il piano casa deroga alle distanze previste dal PRG (purtroppo)

06 Feb 2013
6 Febbraio 2013

Purtroppo il piano casa del Veneto consente di derogare alle distanze dai confini previste dal PRG. o, almeno, così si ritiene.

Non ne sentiva affatto il bisogno e non se ne capisce l'utilità, vista che  questo crea solo danni ai vicini: speriamo che il legislatore regionale se ne renda conto.

Sulla questione torna il TAR Veneto, con la sentenza n. 122 del 2013, riguardante l'impugnazione di un diniego di un intervento edilizio col piano casa, emanato per violazione delle distanze previste dal PRG. Il TAR accoglie il ricorso per violazione della legge sul piano casa, interpretata tradizionalmente nel senso che essa consenta la deroga alla distanza dai confini prevista dal PRG.

Scrive il TAR: "ferma restando la disciplina di cui all’art. 873 c.c. e del D.M. 1444/68 in presenza di pareti finestrate (10 mt), ai sensi dell’art. 2 della legge regionale richiamata, applicabile anche nel caso di specie, è consentito l’ampliamento dell’edificio in deroga alle previsioni dei regolamenti locali e quindi anche alle norme da questi previste in materia di distanze; considerato che, come si evince dalla documentazione agli atti, risulta rispettata la distanza minima di 10 metri fra pareti finestrate, con riferimento all’edificio da ampliare e quello posto sul mappale 194, mentre la minore distanza rilevata rispetto alla tettoia di pertinenza dell’edificio confinante per quanto riguarda la costruzione e la tettoia di pertinenza del ricorrente rientra nell’ambito delle ipotesi in cui è consentita la deroga alle previsioni locali; che a tale specifica ipotesi non è invero applicabile, anche in base alla disciplina locale, il limite minimo dei 10 metri, previsto solo per le distanze fra pareti finestrate, che, di conseguenza, il diniego impugnato, nella parte in cui invoca il mancato rispetto delle distanze previste dall’art. 13 delle n.t.o. del P.I., risulta illegittimo per contrasto con la speciale disciplina derogatoria introdotta dalla normativa sul “Piano Casa”.

So che ormai è una battaglia di retroguardia, ma segnalo lo stesso che il comma 1 dell'articolo 2 della L. 14 del 2009 (come sostituito dalla L. 13 del 2011), nel momento in cui consente gli ampliamenti in deroga alle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali, avrebbe anche potuto essere interpretato nel senso che la deroga riguardi i limiti volumetrici e non le distanze dai confini (visto che l'articolo non specifica che si deroga a qualsiasi previsione dei regolamenti e degli strumenti urbanistici e che, subito dopo, si occupa del volume).

Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 122 del 2013

Cassazione e CDS hanno opinioni divergenti sulla natura giuridica del ricorso straordinario

06 Feb 2013
6 Febbraio 2013

Il Consiglio di Stato, sez. VI, con l’ordinanza del 1° febbraio 2013 n. 637, rimette all’Adunanza Plenaria la questione sulla natura giuridica della pronuncia emessa in esito al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.

Accertata l’esistenza di un duplice orientamento giurisprudenziale, poiché: “con sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, n. 3513 del 10.6.2011, infatti, è stata sostanzialmente affermata la piena giurisdizionalizzazione, anche ai fini dell’ottemperanza, del ricorso straordinario alla Presidenza della Repubblica, tenuto conto dell’evoluzione di tale rimedio giustiziale e della disciplina legislativa al riguardo intervenuta, al fine di assicurare "un grado di tutela non inferiore a quello conseguibile agendo giudizialmente"”, mentre: “nell’ordinanza del medesimo Consiglio, sez. III, n. 4666 del 4.8.2011, invece – pur ribadendosi l’esperibilità del giudizio di ottemperanza, per la piena esecuzione del "decisum" conseguente a ricorso straordinario (in conformità alla sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 2065/2011) – si esprimeva un diverso avviso, anche rispetto al citato pronunciamento della Suprema Corte, per quanto riguarda l’individuazione del giudice dell’esecuzione competente, a norma dell’art. 113 c.p.a., con conclusiva riconduzione della decisione sul ricorso straordinario all’art. 112, comma 1, lettera d) c.p.a. (che sancisce la proponibilità del giudizio di ottemperanza non solo per le sentenze passate in giudicato, ma anche per "gli altri provvedimenti ad esse equiparati, per i quali non sia previsto il rimedio dell’ottemperanza, al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi alla decisione"). Nella citata ordinanza si sottolineava come – pur dopo le significative novità introdotte dalla legge n. 69/2009 (natura vincolante del parere del Consiglio di Stato e possibilità di sollevare questioni di legittimità costituzionale) – l’attività consultiva del medesimo Consiglio di Stato conservasse "significativi profili" di differenza rispetto a quella giurisdizionale, organizzata "secondo i canoni più rigorosi del giusto processo (v. art. 2 c.p.a.)", senza possibilità di integrale equiparazione del ricorso straordinario a quello giurisdizionale, tenuto conto, in particolare, della "specificità e perfettibilità del rito del ricorso straordinario….con riferimento ai nodi essenziali del contraddittorio, dell’istruzione probatoria e del doppio grado di giudizio”, il Consiglio di Stato, con l’ordinanza de qua, è propenso ad escludere che la decisione del ricorso straordinario abbia carattere giurisdizionale atteso che: “a) appare innegabile che – per i pareri emessi dal Consiglio di Stato in sede di ricorso straordinario, dopo l’emanazione della legge n. 69/2009 – sia configurabile un’accezione nuova e non meramente provvedimentale dell’atto, conformemente emesso in forma di decreto presidenziale;

b) la piena assimilazione di tale atto ad una sentenza risulta, d’altra parte, da escludere, per i delicati interrogativi che dovrebbero porsi, in caso contrario, in rapporto all’art. 111 della Costituzione e all’art. 6 CEDU;

c) appare ragionevole ritenere che – in considerazione della natura giustiziale del predetto ricorso straordinario e dell’autorevolezza del parere, emesso in posizione neutra e a garanzia oggettiva dell’ordinamento dal Consiglio di Stato – la presa d’atto, ormai vincolata, proveniente dall’Amministrazione e formalmente espressa dal Capo dello Stato sia da considerare non "provvedimento esecutivo del giudice amministrativo", ma provvedimento equiparato a sentenza ai fini dell’esecuzione (nei limiti delle statuizioni nel parere stesso contenute), con conseguente riconducibilità della fattispecie all’art. 112, comma 2, lettera d) c.p.a..

Nell’ottica di cui al precedente punto c), le decisioni rese in esito a ricorso straordinario non perderebbero il formale carattere di provvedimento amministrativo, ma risulterebbero rafforzate sul piano dell’esecutorietà (in via ordinaria – ovvero per la generalità dei provvedimenti – rimessa all’Autorità amministrativa, ma nel caso di specie affidata al Plesso giurisdizionale di riferimento, risultando già effettuata dall’Organo di vertice di quest’ultimo la richiesta valutazione di legittimità, benchè senza le integrali garanzie del processo per la valutazione della fattispecie concreta). A sostegno della tesi anzidetta si pongono considerazioni, che attengono alla natura del giudicato, ai limiti di competenza interna delle sezioni del Consiglio di Stato e al principio generale del doppio grado di giurisdizione.

Sotto il primo profilo, infatti, suscita perplessità la piena equiparazione, che si volesse ritenere introdotta fra pronuncia – emessa in esito a ricorso straordinario – e sentenza conclusiva del processo, con anomalo riconoscimento di un "doppio binario" giurisdizionale, nell’ambito del quale potrebbero acquisire la forza propria del giudicato (indiscutibile per principio risalente al diritto romano: "facit de albo nigrum, aequat quadrata rotundis….") anche pronunce non assistite dalle previe garanzie del "giusto processo", così come oggi scolpite nell’art. 111 della Costituzione. Quanto sopra con conseguenze che – per i limiti istruttori sottolineati nel citato parere n. 2131/2012 – implicherebbero un giudizio di esecuzione vincolato non solo dai principi di diritto, espressi nel parere del Consiglio di Stato, ma anche dai presupposti di fatto, nel medesimo parere talvolta non compiutamente accertati. Ove, inoltre, il pronunciamento emesso a seguito di ricorso straordinario avesse la medesima natura giuridica di una sentenza, non si vede perché – a livello di competenza interna – detto ricorso non potrebbe essere esaminato (anche) dalle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, così come risulta anomalo che – per l’ottemperanza al medesimo – venga chiamata a pronunciarsi una sezione giurisdizionale, anziché la sezione consultiva che abbia emesso il parere; in altri termini, la possibile configurazione del parere in questione come "ius dicere", non distinguibile dalla pronuncia giurisdizionale, porrebbe evidenti problemi di rilevanza costituzionale e comunitaria, ove le scarne indicazioni, contenute nell’art. 112 c.p.a., fossero da considerare introduttive di una totale equiparazione fra attività consultiva di tipo giustiziale e attività giudicante in senso proprio (riconducibili, rispettivamente, agli articoli 100 e 103 della Costituzione).

Ugualmente ardua appare la riconducibilità alle medesime indicazioni codicistiche della soppressione del doppio grado di giurisdizione, pacificamente riconosciuto anche per le sentenze emesse in sede di ottemperanza quando il gravame non investa mere questioni esecutive, con effetto devolutivo pieno in relazione alla regolarità del rito instaurato, alle condizioni soggettive ed oggettive dell’azione ed alla fondatezza della pretesa azionata (cfr. in tal senso per il principio, Cons. St., sez. V, 8.7.2002, n. 3789; Cons. St., sez. VI, 27.1.2012, n. 385); quanto sopra, oltre tutto, per una decisione che non perderebbe la propria natura di provvedimento amministrativo, continuandosi a ritenere ammissibile al riguardo anche l’ordinario ricorso giurisdizionale (cfr. in tal senso il citato parere n. 2131/2012)”.

Tale pronuncia, tuttavia, sembra essere in contrasto la recente sentenza delle Corte di Cassazione, sez. Unite, 19 dicembre 2012, n. 23464, commentata nel post dell’8 gennaio 2013, ove si afferma la natura giurisdizionale del decreto emesso in sede di ricorso straordinario.

Vedremo l’Adunanza Plenaria quale orientamento seguirà.

dott. Matteo Acquasaliente

ordinanza CdS n. 637 del 2013

Regolamento di attuazione della legge 11 novembre 2011, n. 180 “Norme per la tutela della liberta’ d’impresa. Statuto delle imprese”.

06 Feb 2013
6 Febbraio 2013

Sulla G.U. n. 29 del 4 febbraio 2013 è stato pubblicato il DPCM 14 novembre 2012, n. 252, recante "Regolamento recante i criteri e le modalita' per la pubblicazione degli atti e degli allegati elenchi degli oneri introdotti ed eliminati, ai sensi dell'articolo 7, comma 2, della legge 11 novembre 2011, n. 180 "Norme per la tutela della liberta' d'impresa. Statuto delle imprese". (13G00033)

Il regolamento, che si applica solo alle amministrazioni dello Stato, entrerà in vigore il 19 febbraio 2013.

L'articolo 7, comma 1, della legge 11 novembre 2011, n.  180, recante "Norme per la tutela della liberta' d'impresa. Statuto  delle Imprese",   dispone   che i provvedimenti amministrativi a carattere generale adottati dalle  amministrazioni  dello  Stato,  al  fine  di regolare  l'esercizio   di   poteri   autorizzatori,   concessori   o certificatori,  nonche'  l'accesso  ai  servizi  pubblici  ovvero  la concessione di benefici, devono recare in allegato l'elenco di  tutti gli oneri informativi gravanti sui cittadini e le imprese  introdotti o eliminati con gli atti medesimi.

 L'articolo 7, comma 2, della legge 11 novembre 2011, n.  180, dispone che gli atti di cui al  comma  1,  anche  se  pubblicati nella  Gazzetta   Ufficiale,   sono   pubblicati   anche   nei   siti istituzionali di ciascuna amministrazione  secondo  i  criteri  e  le modalita' definiti con apposito regolamento da  emanare  con  decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta  del  Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione.

 L'articolo 7, comma 4, della legge 11 novembre 2011, n.  180, demanda al regolamento previsto  dal  precedente  comma  2  anche l'individuazione, ai fini della valutazione degli  eventuali  profili di responsabilita' dei dirigenti preposti  agli  uffici  interessati, delle modalita' di presentazione dei reclami da parte dei cittadini e delle imprese per la  mancata  applicazione  delle  disposizioni  del citato articolo.

 Si allega il regolamento e l'allegato "A".

DPCM 252 del 2012

allegatoA

Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani

06 Feb 2013
6 Febbraio 2013

E' stata pubblicata sulla G.U. n. 27 del 1° febbraio 2013 ed entrerà in vigore il 16 febbraio 2013 la L. 14 gennaio 2013, n. 10, recante "Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani".

Della legge segnaliamo gli articoli 4 e 6 e la curiosa disposizione che prevede una gara in forma ristretta, senza pubblicazione del bando di gara, per i cittadini che vogliano accollarsi gli oneri di manutenzione del verde pubblico.

Non avevamo sospettato che ci fosse la fila dei cittadini in attesa di partecipare. O forse il nostro legislatore vive in un altro pianeta.

Legge verde urbano n. 10 del 2013

Il CDS chiede all’Adunanza Plenaria se i bandi di gara debbano essere sempre impugnati subito

05 Feb 2013
5 Febbraio 2013

Con l'ordinanza n. 634 del 1 febbraio 2013 la VI° Sezione del Consiglio di Stato, come già avvenuto con le precedenti nn. 351 del 18.1.2011 e 2633 del 8.5.2012, ripropone all'Adunanza Plenaria la sussistenza di ragioni per pervenire ad un diverso indirizzo, rispetto a quello tradizionale cristallizzato nella nota A.P. n. 1/2003.

In forza dell'indirizzo tradizionale (e tutt'ora vigente) i bandi di gara devono impugnati entro i termini decadenziali - e non assieme all'atto conclusivo della procedura - solo ove immediatamente lesivi di una situazione soggettiva protetta: ovvero in presenza di clausole ingiustamente impeditive, o impositive di oneri sproporzionati per la partecipazione, o di condizioni non comprensibili. E ciò sul presupposto che in ogni altro caso mancherebbe una lesione diretta ed attuale dell'interesse protetto.

Secondo la VI° Sezione tale orientamento non appare più convincente, per le ragioni che vengono così brevemente riassunte:

1. "la volontà deflattiva del contenzioso, sottostante all'indirizzo di immediata impugnabilità delle sole clausole escludenti, non ha trovato rispondenza nei fatti, con reiterate impugnazioni che, dopo la conclusione delle procedure di gara, postulano l'annullamento del bando e quindi l'azzeramento delle procedure stesse, con notevole aggravio di spese per l'amministrazione e danno per le imprese aggiudicatarie incolpevoli, sulle cui offerte non fosse emerso o riconosciuto alcun vizio";

2. "i principi di buona fede e affidamento, di cui agli articoli 1337 e 1338 cod. civ., dovrebbero implicare che le imprese, tenute a partecipare alla gara con attenta disamina delle prescrizioni del bando, fossero non solo abilitate, ma obbligate a segnalare tempestivamente, tramite impugnazione del bando stesso, eventuali cause di invalidità della procedura di gara così come predisposta, anche come possibile fonte di responsabilità precontrattuale; quanto sopra, in linea con la ratio ispiratrice dell'art. 243 bis del codice degli appalti (d.lgs. n. 163/2006), nel testo introdotto dal d.lgs. n. 53/2010 (informativa preventiva dell'intento di proporre ricorso giurisdizionale)";

3. "con la domanda di partecipazione alla gara le imprese concorrenti divengono titolari di un interesse legittimo, quale situazione soggettiva protetta corrispondente all'esercizio di un potere, soggetto al principio di legalità ed esplicato, in primo luogo, con l'emanazione del bando. A qualsiasi vizio di quest'ultimo si contrappone, pertanto, l'interesse protetto al corretto svolgimento della procedura, nei termini disciplinati dalla normativa vigente in materia e dalla lex specialis; l'inoppugnabilità della disciplina di gara contenuta nel bando, alla scadenza degli ordinari termini decadenziali, appare dunque conforme alle esigenze di efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa, che detti termini presuppongono, affinchè l'interesse pubblico sia perseguito senza perduranti margini di incertezza, connessi ad eventuali impugnative".

Su tali presupposti, pertanto, la VI° Sezione "ritiene che le imprese partecipanti a procedure contrattuali ad evidenza pubblica dovrebbero ritenersi tenute ad impugnare qualsiasi clausola del bando ritenuta illegittima, entro gli ordinari termini decadenziali".

 Avv. Gianluca Ghirigatto

Ordinanza_di_Rimessione_1_febbraio_2013

La proroga della dichiarazione di pubblica utilità richiede l’avviso di avvio del procedimento e la dimostrazione delle cause di forza maggiore

05 Feb 2013
5 Febbraio 2013

Della questione si occupa la sentenza del TAR Veneto n. 51 del 2013.

Col ricorso era stato impugnato il provvedimento del 2009 col quale l'ANAS aveva disposto,  ai sensi dell’art. 13, comma 5 del D.P.R. 327/01, la proroga di due anni del termine della dichiarazione di pubblica utilità (che scadeva nel 2009); per effetto di tale proproga è stato possibile emettere il decreto di esproprio nel corso del successivo biennio.

Il ricorso era fondato su due motivi: la violazione dell’art. 7 della L. 241/90, in quanto non era stata preventivamente data comunicazione ai soggetti direttamente interessati della volontà e delle ragioni per le quali l’amministrazione aveva inteso prorogare i termini della dichiarazione di pubblica utilità, nonché per la violazione della stessa disposizione di cui all’art. 13, comma 5 D.P.R. 327/01, in quanto non risultano esternate né comprovate le ragioni di forza maggiore o di altra natura che avevano determinato la necessità di disporre la proroga. Infatti l'ANAS si era limitata a fare riferimento
a generici problemi riguardanti il completamento da parte dell’Agenzia del Territorio delle operazioni di frazionamento catastale dei beni, i quali avrebbero determinato l’impossibilità di completare nei termini le procedure espropriative.

Il TAR ha accolto il ricorso: "ritiene il Collegio che entrambi i ricorsi, proponenti identiche censure, siano fondati, in primo luogo, in considerazione del fatto che la proroga è stata disposta in difetto della comunicazione di avvio del relativo procedimento. Come già osservato da questo Tribunale in fattispecie analoga : “Il decreto di proroga della dichiarazione di pubblica utilità costituisce, infatti, provvedimento discrezionale che, ponendosi a chiusura del subprocedimento autonomo, è capace di ledere in via autonoma la sfera giuridica del proprietario, quanto meno sotto il profilo del ritardo nella emanazione del decreto di esproprio e conseguentemente nel pagamento della relativa indennità. Da detta connotazione discrezionale del provvedimento in parola discende, in assenza di una situazione di urgenza qualificata, la necessità di procedere, in ossequio ai principi sanciti dalla decisione dell'Adunanza Plenaria del Consiglio n. 14 del 1999, alla comunicazione dell'avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241/90 (CdS, IV, 16.3.2001 n. 1578; 19.1.2000 n. 248; T.A.R. Emilia Romagna, Parma, 4.12.2002 n. 877)” (così, T.A.R. Veneto, I, n. 2173/2009).
In secondo luogo, il provvedimento risulta carente nell’esternazione dei presupposti indicati dalla norma per consentire la proroga del termine della dichiarazione di pubblica utilità. Invero, il provvedimento di proroga fa riferimento a mere difficoltà attuative relative alla lunghezza delle procedure o più specificatamente alle pratiche relative al frazionamento catastale, demandate all’Agenzia del Territorio di Treviso, senza tuttavia evidenziare alcun fatto obiettivo non dipendente dalla volontà del soggetto procedente, difficoltà e rallentamenti come tali non riconducibili a cause di forza maggiore o ad altre giustificate ragioni. A tale proposito va richiamato l’orientamento già espresso in fattispecie analoga dalla Sezione, con la pronuncia n.291/2012, ove si è ricordato che “… è legittima la proroga dei termini dei lavori e delle espropriazioni, solo nei casi di forza maggiore o per altre ragioni indipendenti dalla volontà dei concessionari”, per cui eventuali ragioni (così come dedotte dall’ANAS riguardo alle operazioni da compiersi da
parte del l’Agenzia del Territorio) consistenti nel mancato completamento dei frazionamenti catastali, non paiono riconducibili a situazioni di obiettiva difficoltà, bensì a circostanze prevedibili prima dell’adozione di provvedimenti in questione e a difficoltà ben risolubili nei cinque anni di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità".

Il TAR ha conseguentemente annullato anche il decreto di esproprio.

sentenza TAR Veneto 51 del 2013

Il cumulo di domande nel processo amministrativo

05 Feb 2013
5 Febbraio 2013

All'art. 32, comma 1, del Codice del processo amministrativo (D.Lgs 104 del 2010) si legge: " E' sempre possibile nello stesso giudizio il cumulo di domande connesse proposte in via principale o in via incidentale. Se le azioni sono soggette a riti diversi, si applica quello ordinario, salvo quanto previsto dal titolo V del libro IV".

A parere di molti studiosi la disposizione in esame appare lacunosa: la formula utilizzata fa riferimento al concetto di "connessione", in modo ampio e non ulteriormente specificato. Questo, diversamente da quanto avviene nel processo civile dove il cumulo delle domande viene disciplinato attentamente sia per quanto attiene alla connessione oggettiva (art. 104 c.p.c.), sia in riferimento alla connessione soggettiva (art. 33 c.p.c.).

Una funzione chiarificatrice sul punto l’ha avuta la sentenza Consiglio di Stato, 22 gennaio 2013, n. 359, ove stabilisce che Va a questo punto premesso che, in via di principio e a differenza del processo civile, in cui il cumulo delle domande può essere giustificato tanto da una connessione oggettiva, quanto da una connessione soggettiva (cfr. art. 40 cod. proc. civ.), assume di per sé rilevanza soltanto la prima forma di connessione, posto che la connessione soggettiva non consente l'impugnativa con un unico ricorso di provvedimenti diversi (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 14 dicembre 2011 n. 6537) se non quando sussiste anche un collegamento oggettivo tra di essi, con la conseguenza che nel giudizio amministrativo occorre che le domande siano o contemporaneamente connesse dal punto di vista oggettivo e soggettivo , oppure semplicemente connesse dal punto di vista oggettivo (cfr. ibidem). In quest'ultima evenienza tra gli atti impugnati viene identificata una connessione tale da giustificare un unico processo, costituendo essi manifestazioni provvedimentali collegate ad un unico sviluppo dello stesso episodio di concreto esercizio del potere pubblicistico, idoneo a far emergere la consistenza e la lesione di un unitario interesse soggettivo , storicamente connotato come contrapposto a quel determinato esercizio del potere: ossia - detto altrimenti - tra gli atti complessivamente impugnati sussiste una connessione procedimentale, ovvero un rapporto di presupposizione giuridica, o quantomeno di carattere logico”.

La sentenza riprende la precedente statuizione del Consiglio di Stato, 14 dicembre 2011, n. 6537, che per amor di completezza si riporta: “Il ricorso cumulativo è quello con il quale vengono impugnati più provvedimenti amministrativi; al riguardo giova rilevare che nel processo amministrativo vale la regola, discendente da una antica tradizione, secondo cui il ricorso deve essere diretto contro un solo provvedimento a meno che tra gli atti impugnati esista una connessione procedimentale o funzionale tale da giustificare un unico processo. A differenza che nel processo civile, in cui il cumulo delle domande può essere giustificato tanto da una connessione oggettiva, quanto da una connessione soggettiva, nel processo amministrativo impugnatorio di legittimità assume rilevanza soltanto la prima forma di connessione. La connessione soggettiva, al contrario, in base al ricordato orientamento giurisprudenziale, non consente l'impugnativa con un unico ricorso di provvedimenti diversi, a meno che sussista anche un collegamento oggettivo tra di essi. In altri termini, nel giudizio amministrativo occorre che le domande siano o contemporaneamente connesse dal punto di vista oggettivo e soggettivo, oppure semplicemente connesse dal punto di vista oggettivo. La ratio del su riferito indirizzo si fonda:

a) sull'esigenza di evitare la confusione tra controversie diverse con conseguente aggravio dei tempi del processo;

b) sulla necessità di impedire l'elusione delle disposizioni fiscali, atteso che con il ricorso cumulativo il ricorrente chiede più pronunce giurisdizionali provvedendo, però, una sola volta al pagamento dei relativi tributi. Muovendosi all'interno delle sopra illustrate coordinate, la connessione oggettiva è stata tradizionalmente ravvisata dalla giurisprudenza (cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 17 gennaio 2011, n. 202; sez. IV, 27 novembre 2010, n. 8251sez. VI, 17 marzo 2010, n. 1564):

c) quando fra gli atti impugnati viene ravvisata quantomeno una connessione procedimentale di presupposizione giuridica o di carattere logico, in quanto i diversi atti incidono sulla medesima vicenda;

d) quando le domande cumulativamente avanzate si basino sugli stessi presupposti di fatto o di diritto e siano riconducibili nell'ambito del medesimo rapporto o di un'unica sequenza procedimentale;

c) quando sussistano elementi di connessione tali da legittimare la riunione dei ricorsi”.

 Proseguendo nell’esame della fattispecie ci siamo chiesti cosa accada a quei ricorsi, in cui le domande proposte sono del tutto autonome, non presentando alcun profilo di connessione oggettiva, ma solamente soggettiva. A tale quesito ha risposto la sentenza del T.A.R. Calabria, sede Catanzaro, sez. I, 25 gennaio 2013, n.87, ove si stabilisce che il giudice deve dichiarare il ricorso inammissibile, in quanto con esso sono state proposte più domande prive di profili di connessione oggettiva. Al giudice infatti, è precluso scegliere quale tra le due o più domande proposte sia di prevalente interesse per il ricorrente.

dott.sa Giada Scuccato

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