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Quando bisogna impugnare a pena di improcedibilitĂ  del ricorso anche il contratto conseguente alla aggiudicazione di una gara?

17 Apr 2014
17 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 31 marzo 2014 n. 424 afferma che, con riferimento ad una procedura concorsuale avente ad oggetto la concessione di un bene demaniale, la mancata impugnazione dell’atto di concessione determina l’improcedibilità del ricorso perché: “In linea generale, nell’ambito del rapporto di presupposizione corrente fra atti inseriti all’interno di un più ampio contesto procedimentale (come quello di evidenza pubblica), occorre distinguere fra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante: nel primo caso l’annullamento dell’atto presupposto determina l’automatico travolgimento dell’atto conseguenziale senza bisogno che quest’ultimo sia stato autonomamente impugnato, mentre in caso di illegittimità ad effetto viziante l’atto consequenziale diviene invalido per vizio di invalidità derivata, ma resta efficace salva apposita ed idonea impugnazione, resistendo all’annullamento dell’atto presupposto.

Tale ricostruzione si basa, in materia di procedure concorsuali, sul condivisibile assunto che non è necessario impugnare l’atto finale, quando sia stato già impugnato quello preparatorio, solo quando fra i due atti vi sia un rapporto di presupposizione-consequenzialità immediata, diretta e necessaria, nel senso che l’atto successivo si pone come inevitabile conseguenza di quello precedente, perché non vi sono nuove e ulteriori valutazioni di interessi, né del destinatario dell’atto presupposto, né di altri soggetti: diversamente, quando l’atto finale, pur facendo parte della stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l’atto preparatorio, non ne costituisca conseguenza inevitabile perché la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi ovvero adempimenti dell’aggiudicatario (nel caso di specie, in particolare, l’adempimento relativo alla prestazione della cauzione definitiva), la immediata impugnazione dell’atto preparatorio non fa venir meno la necessità di impugnare l’atto finale, pena la improcedibilità del ricorso.

Che è esattamente quanto accade avuto riguardo alla natura del contratto di concessione, che non va considerato atto meramente esecutivo, ma atto che, anche quando recepisca i risultati dell’aggiudicazione, comporta comunque una autonoma valutazione degli interessi pubblici sottostanti e, comunque, l’accertamento degli adempimenti a cui l’aggiudicatario è tenuto.

Ciò stante, il gravame proposto avverso i provvedimenti con i quali un concorrente è stato escluso dalla gara per la concessione di un’area demaniale e la gara stessa è stata aggiudicata al controinteressato diventa improcedibile nel caso di mancata impugnazione del contratto successivamente stipulato con l’aggiudicatario, in ragione del carattere inoppugnabile del provvedimento finale attributivo dell’utilitas all’aggiudicatario stesso: giacchè anche qualora il ricorrente fosse riammesso in gara in virtù dell’accoglimento delle censure proposte avverso l’esclusione, ciò non di meno non gli deriverebbe alcun vantaggio, in quanto non potrebbe mai aspirare alla concessione del bene oggetto della procedura concorsuale.

Negli stessi termini, peraltro, si è già espresso questo Tribunale laddove, in una fattispecie affatto analoga, ha affermato che “la mancata impugnazione di tale ulteriore atto, conclusivo della procedura e soprattutto costitutivo della concessione demaniale costituisce causa di improcedibilità del ricorso….per carenza di interesse. In proposito, deve essere ricordato che la costituzione di diritti reali su beni demaniali può avvenire soltanto attraverso uno specifico atto di concessione, avente propriamente natura costitutiva, tanto è vero che, fino all'emissione di tale provvedimento, il soggetto interessato non può comunque vantare alcun titolo legittimo alla fruizione con modalità differenziate rispetto alla generalità dei cittadini di un qualsiasi bene appartenente al demanio”.

Né può essere accreditata la tesi del ricorrente secondo cui non sarebbe sorto l’onere di impugnare il contratto in quanto avrebbe giammai ricevuto la formale comunicazione ex art. 79, V comma del DLgs n. 163/2006 relativa alla sua avvenuta stipulazione: premesso, invero, che in mancanza di comunicazione individuale il termine per l’impugnazione degli atti di gara decorre comunque dalla loro conoscenza (cfr., ex pluribus, CdS, V, 31.10.2012 n. 5565; VI, 13.12.2011 n. 6531; III, 12.5.2011 n. 2842; TAR veneto, I, 23.4.2013 n. 613), l’odierno ricorrente ha senz’altro avuto contezza del contratto in questione quanto meno in data 27 gennaio 2014, con la sua produzione in giudizio da parte della difesa della controinteressata (cfr. il doc. 3).

Orbene, così delineata la portata dell’eccezione, essa va accolta, atteso che nel corso del giudizio il ricorrente non ha impugnato con motivi aggiunti l’atto di concessione del bene demaniale stipulato inter partes, neppure dopo averne avuto piena conoscenza in ordine ai suoi dati identificativi e ai suoi contenuti”. 

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza TAR veneto n. 424 del 2014

Differenza tra sopravvenuta carenza di interesse e cessazione della materia del contendere

17 Apr 2014
17 Aprile 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del Consiglio di Stato n. 1825 del 2014: "2. Costituisce jus receptum il risalente principio secondo il quale l’interesse al ricorso, in quanto condizione dell’azione, deve sussistere sia al momento della proposizione del gravame, che al momento della decisione, con conseguente attribuzione al giudice amministrativo del potere di verificare la persistenza della predetta condizione in relazione a ciascuno di tali momenti (cfr. C.d.S., Sez. VI, n. 475/92).  Di recente, (Cons. Stato Sez. IV, 06-08-2013, n. 4145) questa Sezione del Consiglio di Stato ha ribadito il detto principio e tracciato i criteri differenziali tra forme di improcedibilità sopravvenute del gravame a torto assai spesso ritenute assimilabili, stabilendo che “la sopravvenuta carenza di interesse - figura, di stretta elaborazione giurisprudenziale ed ora espressamente prevista all'art. 35, comma 1 lett. c), c.p.a. (D.Lgs. n. 104/2010) - è accomunata a quella limitrofa della cessazione della materia del contendere per la disciplina, che determina in entrambi i casi l'improcedibilità del ricorso, e per la tipologia di fatto di origine, che è sempre un ulteriore provvedimento della pubblica  amministrazione che interviene nel rapporto in contestazione. Le due figure si differenziano tra loro nettamente per la diversa soddisfazione dell'interesse leso. La sopravvenuta carenza di interesse, infatti, opera solo quando il nuovo provvedimento non soddisfa integralmente il ricorrente, determinando una nuova valutazione dell'assetto del rapporto tra la pubblica amministrazione e l'amministrato; al contrario, la cessazione della materia del contendere si determina quando l'operato successivo della parte pubblica si rivela integralmente satisfattivo dell'interesse azionato.”. Non ignora il Collegio che tale declaratoria sia preclusa allorchè il ricorrente manifesti una qualche forma di residuo interesse alla trattazione del mezzo (di recente la giurisprudenza ha talvolta affermato che esso possa rinvenirsi anche in interessi di natura morale) ovvero che l’accertamento possa essere finalizzato all’esercizio dell’azione risarcitoria.  Ancora in passato, peraltro, si era detto che (Cons. Stato Sez. IV, 04-12- 2012, n. 6190) “la concreta individuazione dei casi di sopravvenuta carenza d'interesse al ricorso giurisdizionale innanzi al Giudice Amministrativo precludendo la disamina del merito della controversia, dev'essere condotta secondo criteri assai rigorosi e, in particolare, in modo che la declaratoria d'improcedibilità non si traduca in una sostanziale elusione dell'obbligo del giudice di pronunciarsi sulla domanda del ricorrente, perché l'interesse residuo alla pronuncia del merito della controversia va inteso in senso assai ampio, ossia alla luce degli effetti conformativi e ripristinatori dell'eventuale sentenza d'accoglimento - la quale, oltre all'efficacia meramente caducatoria dell'atto impugnato, si riverbera e condiziona la futura attività amministrativa - in quanto la persistenza dell'interesse va valutata considerando anche le possibili ulteriori iniziative attivate o attivabili dal ricorrente per ottenere la soddisfazione della di lui pretesa, potendo la predetta sentenza costituire il presupposto per l'accoglimento dei gravami contro gli atti consequenziali o per esercitare l'azione risarcitoria contro la P.A. emanante”. Di converso, però è stato colto dalla giurisprudenza della Sezione (decisione n. 3458/2013 ) che detta forma “residua” di interesse è connotato essenziale del ricorso di primo grado, in carenza del quale esso va dichiarato inammissibile od improcedibile e che non possa allegarsi per la prima volta in secondo grado posto che nel processo di appello vige il divieto di nuove domande, nuove allegazioni, e nuove prove (art. 345 c.p.c., oggi si veda art. 104 del c.p.a.).  2.1. Orbene, parte appellante supporta la propria critica appellatoria con la presentazione della domanda risarcitoria: ma nella incontestata considerazione che i provvedimenti “sostitutivi” erano stati adottati a seguito di una nuova delibazione che aveva portato ad un nuovo assetto di interessi, che essa aveva già ottenuto la restituzione dell’area in data 5 maggio 1998, e che con deliberazione 8 ottobre 1997 n. 1702 si era provveduto alla riapprovazione ex articolo 1 della legge 1 del 1978 del progetto esecutivo per il recupero e sistemazione dell’area da destinare a parco giochi, dette valutazioni in ordine alla permanenza dell’interesse vanno parenteticamente verificate in concreto alla stregua delle circostanze di fatto, anche sopravvenute rispetto alla proposizione del gravame.

3. A tal proposito, rileva il Collegio che non residua dubbio in ordine alla circostanza che, allo stato, tale interesse, non sussistesse al
momento della decisione del T.A.R., e che in ogni caso certamente giammai esso potrebbe ravvisarsi persistente oggi. 
3.1. Dalla produzione di parte appellante risulta infatti che il Giudice Ordinario, in primo grado, ha pacificamente ritenuto illegittima la
attività dell’amministrazione comunale sino al momento della emissione degli atti per cui è causa nell’odierno processo, e sino comunque al 1998; che il comune (vedasi il quinto motivo dell’atto di appello innanzi alla Corte di Appello di Bologna) non ha contestato detta declaratoria di illegittimità/illiceità della condotta, dalla quale il Tribunale di Modena ha fatto discendere la condanna risarcitoria pronunciata in primo grado, ma, semmai, le censure si sono incentrate sulla quantificazione del quantum liquidato e sul preteso errore materiale contenuto nella sentenza  di primo grado del Tribunale di Modena; che nessuna delle problematiche sollevate innanzi alla Corte di Appello dal Comune interferisce con quelle dell’odierno giudizio e che peraltro, la causa d’appello è stata rinviata per precisazione delle conclusioni, di guisa che nessun ulteriore tema (ammesso che comunque lo fosse, ex art. 345 c.p.c.) sarebbe sollevabile in detto giudizio, ed in particolare non sarebbe ivi possibile rimettere in discussione, da parte dell’appellante amministrazione comunale, la sussistenza della propria responsabilità risarcitoria ex art. 2043 c.c.. Va rilevato altresì che il segmento successivo dell’azione amministrativa ha formato oggetto di distinto gravame, prospettato dalla odierna appellante innanzi al competente T.A.R. territoriale per l’Emilia-Romagna, e che quest’ultimo ha respinto il petitum con la sentenza n. 00451/2012 impugnata innanzi a questo Consiglio di Stato (ric. n. 5373/2012 tuttora pendente) di guisa che neppure sotto tale profilo permane in capo all’odierna appellante alcun interesse apprezzabile alla coltivazione del presente gravame. Quest’ultimo ricorso, quindi, deve essere respinto, mentre tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso".

sentenza CDS 1825 del 2014.

 

La convenzione urbanistica che preveda l’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione non è disciplinata dal codice degli appalti

16 Apr 2014
16 Aprile 2014

Scrive il TAR Veneto nella sentenza n. 505 del 2014: "2.1. In ordine ai vizi formali e procedurali della dichiarazione di risoluzione della convenzione, adottata dal Comune con la nota del 7 settembre 2011, il Collegio rileva innanzitutto come il caso in esame di esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione, da parte del privato, in attuazione di una convenzione urbanistica, non sia in alcun modo equiparabile all’esecuzione di un appalto di opere pubbliche, con la conseguenza che non possono trovare applicazione alla fattispecie in questione le norme del codice dei contratti pubblici (art. 136 D.lgs n. 163/2006), ed in particolare quelle relative allo specifico procedimento previsto per addivenire alla risoluzione di un tale tipo di contratto.  Piuttosto può essere utile osservare in proposito che l’obbligo della gara pubblica per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione è stato espressamente escluso - dal D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in L. 22 dicembre 2011, n. 214, che ha introdotto un comma 2 bis all’art. 16 del D.P.R. n. 380/2001 - per le opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla soglia comunitaria (come sono nel caso in esame) la cui esecuzione “è a carico del titolare del permesso di costruire e non trova applicazione il decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163”.

La controversia sull’escussione di una polizza fideiussoria relativa a una convenzione urbanistica non spetta al giudice amministrativo

16 Apr 2014
16 Aprile 2014

Lo afferma il TAR Veneto nella sentenza n. 505 del 2014.

Scrive il TAR: "1. Preliminarmente, in accoglimento dell’eccezione sollevata dalla difesa del Comune, deve essere dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo con riguardo alla (seconda) domanda di accertamento dell’infondatezza della pretesa del Comune di Conegliano di escutere la polizza fideiussoria. Tale pretesa dell’amministrazione è infatti basata sul contratto di garanzia, collegato, ma autonomo rispetto alla convenzione urbanistica (in ordine alla quale, invece, pacificamente sussiste la giurisdizione esclusiva del G.A.), e non implica l’esercizio di pubblici poteri da parte della P.A., bensì l’attivazione di un diritto soggettivo nell'ambito di un rapporto privatistico-paritetico (cfr. Cons. Giust. Amm. Sic., 27 marzo 2012, n. 343; Cass. civ. Sez. Unite, 23 febbraio 2010, n. 4319). Va peraltro osservato che il giudizio avente ad oggetto l’escussione della polizza fideiussoria da parte del Comune di Conegliano, al quale ha partecipato anche la Montedil s.r.l., è stato già deciso in primo grado con sentenza del Tribunale di Treviso di conferma del decreto ingiuntivo emesso nei confronti della Assicurazioni Generali".

La questione appare chiara e indubbia quando la controversia sorga tra l'assicurazione e il Comune (proprio per l'autonomia del contratto), mentre è meno intuitiva quando sia il soggetto attuatore che contesti il diritto del Comune di escutere la polizza, perchè sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulla convenzione urbanistica.

Dario Meneguzzo - avvocato

 sentenza TAR Veneto n. 505 del 2014

Servizi pubblici: è competente il G.O. od il G.A.?

16 Apr 2014
16 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza n. 434 del 2014, dopo aver chiarito che in materia di tariffe sanitarie: “va osservato che, come correttamente osserva l’Amministrazione resistente, ai sensi degli artt. 8 sexies e 8 octies del Dlgs. 30 dicembre 1992, n. 502, spetta alla Regione e non all’Ulss il potere di fissare le tariffe sanitarie e di coordinare, con direttive vincolanti, l’esercizio dei controlli sull’appropriatezza delle prestazioni erogate e sulla loro corretta codifica, e in tal senso dispone anche l’allegato alla deliberazione della Giunta regionale n. 2609 del 7 agosto 2007”, indica che nel settore dei servizi pubblici vi è la competenza dell’Autorità Giudiziaria Amministrativa soltanto se si impugnano dei provvedimenti di carattere autoritativo: “E’ vero, come afferma la parte ricorrente, che la controversia verte in una materia di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo perché si versa nell’ambito di un servizio pubblico.

Va tuttavia ricordato che la sentenza della Corte Costituzionale 6 luglio 2004, n. 204, ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale del Dlgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 33, come modificato dall’art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205, laddove prevedeva una giurisdizione esclusiva estensivamente riferita a tutte le controversie in tema dei pubblici servizi anziché alle sole controversie "relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi....", e il principio è stato recepito dall’art. 133, comma 1, lett. c) cod. proc. amm.. ai sensi del quale sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo "le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo”.

Nel caso di specie, come sopra precisato, la domanda proposta ha ad oggetto una pretesa patrimoniale nei confronti dell’Ulss che riguarda una fase che precede, prescindendone, l’esercizio di poteri autoritativi in materia di fissazione delle tariffe sanitarie che competono - così come le funzioni in materia di coordinamento, con direttive vincolanti, dei controlli sull’appropriatezza delle prestazioni erogate e sulla loro corretta codifica - solo alla Regione.

La controversia non riguarda pertanto provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo, ma corrispettivi che prescindono dall’intermediazione di una atto provvedimentale, e per tale ragione esula dalla cognizione del giudice amministrativo e spetta a quella del giudice ordinario (cfr. Cass. Sez. Un. 26 gennaio 2011, nn. 1771,1772 e 1773; id. 20 giugno 2012, n. 10149)”.

 Anche nella sentenza del 31 marzo 2014 n. 432 il T.A.R. Veneto, sez. III, giunge alle medesime conclusioni ove, dopo aver chiarito che cos’è il finanziamento a funzione: “il finanziamento a funzione costituisce una modalità eccezionale e derogatoria dell’ordinario sistema di remunerazione a prestazione, che è volto a garantire lo svolgimento di servizi relativi ad attività caratterizzate da aleatorietà circa il numero di casi trattati, non prevedibili o programmabili, o in situazioni temporanee e contingenti caratterizzate da momentanei deficit organizzativi che non rendano possibile stabilire in via ordinaria un congruo parametro retributivo delle prestazioni erogate (per le conseguenze derivanti da riassetti organizzativi, da interventi legislativi o nuove soluzioni tecnologiche e sanitarie), o per incentivare l’applicazione di determinate metodiche o servizi il cui costo di impianto può risultare diseconomico rispetto al regime delle prestazioni correnti.

L’eccezionalità e il carattere derogatorio dal sistema di remunerazione a prestazione, risulta chiaramente dalla circostanza che, benché il sistema di finanziamento a funzione sia stato introdotto con deliberazione della Giunta regionale n. 4081 del 22 dicembre 2000, e che l’attività di angiologia sia stata ricompresa fin dall’inizio, non tutte le strutture sono state ammesse al finanziamento a funzione relativamente all’attività di angiologia” afferma che: “E’ vero, come afferma la ricorrente, che la controversia si inquadra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo perché si versa nell’ambito di un pubblico servizio.

Va tuttavia ricordato che la sentenza della Corte Costituzionale 6 luglio 2004, n. 204, ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale del Dlgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 33, come modificato dall’art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205, laddove prevedeva una giurisdizione esclusiva estensivamente riferita a tutte le controversie in tema dei pubblici servizi anziché alle sole controversie "relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi....", e il principio è stato recepito dall’art. 133, comma 1, lett. c) cod. proc. amm..

Nel caso di specie la domanda proposta ha ad oggetto una pretesa patrimoniale che prescinde dall’esercizio di poteri autoritativi, non riguarda provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo, e per tale ragione esula dalla cognizione del giudice amministrativo e spetta al giudice ordinario (cfr. Cass. Sez. Un. 26 gennaio 2011, nn. 1771,1772 e 1773; id. 20 giugno 2012, n. 10149; con riferimento alle concessioni di beni cfr. Cass. Sez. Un. 5 marzo 2008, n. 5912)”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 432 del 2014

TAR Veneto n. 434 del 2014

Il TAR Liguria dichiara legittimo (almeno per ora) il Registro delle unioni civili

16 Apr 2014
16 Aprile 2014

Il T.A.R, Liguria, Genova, sez. I, nella sentenza del 04 aprile 2014 n. 518 dichiara legittima la delibera del Consiglio comunale di Genova n. 31/2013 che approva il Regolamento di istituzione del Registro amministrativo delle unioni civili delle persone che, indipendentemente dal sesso, sono legate da vincoli affettivi e di reciproca solidarietĂ , sono conviventi e hanno lo loro dimora abituale nel Comune di Genova. Questo registro, in sostanza, equipara le coppie sposate alle coppie conviventi soltanto nei rapporti tra i cittadini ed il Comune.

Nello specifico il T.A.R. Liguria dichiara inammissibile il ricorso proposta dall’Associazione Essere Famiglia e da due persone fisiche che agiscono “in riferimento al proprio stato familiare, ritenuto leso dal regolamento impugnato e dalla prevista equiparazione” perché, essendosi impugnato un atto regolamentare a carattere generale ed astratto, non vi sarebbe stata alcuna attuale lesione: “In primo luogo, trattandosi di atto regolamentare, nel caso di specie non sussistono i limitati ed eccezionali presupposti per l’impugnativa di tale tipologia di atto normativo.

In proposito, costituisce jus receptum il principio a mente del quale il regolamento non è di per sé impugnabile, in quanto esso è privo di disposizioni immediatamente lesive, proprio per il suo contenuto normativo, astratto e programmatico, a nulla rilevando che le dette disposizioni possano prefigurare un’incisione futura sulla sfera giuridica di chi ne risulterà in concreto destinatario. Conseguentemente, esso potrà formare oggetto di impugnazione solo insieme agli atti applicativi, perché è attraverso tali atti che si realizza il pregiudizio della sfera soggettiva degli effettivi destinatari e, quindi, si attualizza l’interesse a ricorrere. Soltanto se il regolamento contenga anche disposizioni immediatamente lesive, incidendo direttamente e unilateralmente sulla sfera giuridica di uno o più soggetti individuati, esso sarà immediatamente impugnabile, emergendo allora un contenuto provvedimentale.

Invero, la costante giurisprudenza amministrativa (condivisa dal Collegio) ha sempre escluso, di norma, l'impugnabilitĂ  diretta dei regolamenti, le cui prescrizioni sono caratterizzate da generalitĂ  ed astrattezza (cfr., ad es.: C.d.S., sez. VI, 12 febbraio 2001 n. 663; sez. IV, 12 febbraio 2012 n. 812; id., 18 novembre 2013, n. 5451, Tar Trento, sez. I 16 dicembre 2013 n. 408).

Le relative previsioni regolamentari, riguardano, di solito (ed all’evidenza anche nella specie), una pluralità indistinta e non determinabile di destinatari (neppure potendosi, nel caso de quo rispetto ad altri, circoscrivere alcune categorie di esse), il che ne determina, appunto, la "generalità".

Inoltre, tali previsioni si caratterizzano per la loro ripetibilitĂ , in quanto applicabili ad un numero indefinito di casi concreti, il che ne determina l'astrattezza.

Quanto al regime di impugnazione, per tradizionale affermazione giurisprudenziale - fondata proprio sulle anzidette caratteristiche dell'atto - il regolamento non è di per sé impugnabile, in quanto, come detto, privo di disposizioni immediatamente lesive, proprio per il suo contenuto normativo, astratto e programmatico, a nulla rilevando che le dette disposizioni possano prefigurare una incisione futura sulla sfera giuridica di chi ne risulterà in concreto destinatario

Nella specie non vi è alcuna disposizione immediatamente lesiva di situazioni giuridiche ma solo affermazioni di principio e generali, la cui condivisibilità ed opinabilità costituisce questione latu sensu politica e di valore, tale da oltrepassare ampiamente i limiti propri del giudizio di legittimità, come si avrà modo di evidenziare anche oltre”.

 Alla luce di ciò il T.A.R. conclude affermando che: “In proposito, curiosamente, deve evidenziarsi come i fini indicati nelle premesse del regolamento coincidano con quelli dell’associazione: lo sviluppo della persona. Ciò conferma come si tratti di visioni generali, politiche e di valori, indipendenti quindi da scelte di legittimità amministrativa rispetto alle quali la problematica si porrà, eventualmente, in sede applicativa e gestionale. Anche di atti amministrativi generali, ma pur sempre di carattere latu sensu gestionale, non normativo e libero nei fini come nella specie, in cui ci si trova dinanzi a scelte normative, più o meno opinabili o condivisibili che siano” ed ancora che: “Non vi è un interesse diretto, mancando un riflesso diretto sulla sfera giuridica del ricorrente; infatti, la norma contestata (in quanto previsione generale ed astratta) allo stato non ha effetto diretto su tale sfera nè, conseguentemente, può averne il relativo annullamento. Non vi è un interesse attuale, essendo il paventato vantaggio unicamente prospettico, in relazione alle future (e allo stato non individuabili, anche a cagione della genericità ed astrattezza delle previsioni regolamentari in contestazione) applicazioni in sede amministrativa.

L’interesse morale, invocato da parte ricorrente nei propri scritti difensivi, risulta peraltro riferito ai ben distinti casi in cui si pone la questione della permanenza di un interesse alla decisione in relazione al sopravvenire di eventi successivi alla instaurazione del giudizio, dovendo in tali casi essere esclusa l'utilità dell'atto impugnato, ancorché meramente strumentale o morale, ovvero che sia chiara e certa l'inutilità di una pronuncia di annullamento dell'atto impugnato (cfr. da ultimo Consiglio di Stato sent. n. 70\2014).

Nel caso de quo l’interesse morale – vantato per l’instaurazione al giudizio - assume connotati in senso lato politici e di valore che, pur laddove reputati condivisibili, fuoriescono all’evidenza dagli ambiti propri del giudizio di legittimità amministrativa. Il concetto di morale viene in questo caso forzato e, in termini giuridici di interesse al ricorso, stravolto: nel senso che è reputato morale il sostenere un’idea di famiglia e di sviluppo della persona – fondata sul matrimonio - a scapito di una visione diversa e più ampia (quale quella che sarebbe sottesa alla scelta politica del Consiglio comunale), che quindi assumerebbe i connotati dell’amoralità o comunque della non moralità, del contrasto con l’interesse morale sussistente in capo ai ricorrenti; orbene, pur nel comprendere le ragioni portate a sostegno della nozione di famiglia nucleare fondata sul matrimonio, il concetto di moralità nei termini assolutisti proposti da parte ricorrente non alberga nel giudizio di legittimità, così come inteso dalla costante giurisprudenza invocata, laddove l’invocato interesse morale ad avere comunque la decisione di un ricorso (inizialmente sorretto da un interesse diretto concreto ed attuale) concerne il distinto caso dell’ottenimento del riconoscimento dell’originaria fondatezza delle ragioni addotte a sostegno del gravame proposto”.

 Particolarmente interessante è anche l’excursus giurisprudenziale affrontato dal Collegio in materia di famiglia: “La stessa giurisprudenza invocata da parte ricorrente (Tar Veneto 2786\2007) evidenzia l’ampiezza del concetto di famiglia nell’ordinamento, in cui a quello di famiglia nucleare o civile si accompagna quello di famiglia anagrafica (per la quale i requisiti sono individuati dalla presenza fra i membri di un vincolo familiare o affettivo e la coabitazione o dimora abituale nella stessa abitazione. Analogamente, altra condivisibile giurisprudenza (Tar Toscana 1041\2001) evidenzia come la stessa Costituzione non escluda la sussistenza di altre formazioni sociali, espressamente tutelate dall’art. 2 Cost., tanto che la giurisprudenza della Corte costituzionale ( cfr. ad es. sentenze nn. 237/86, 281/94, 8/96. 138/2010) ha riconosciuto l'ambito di operatività dell'art.2 Cost., ai sensi del quale anche un consolidato rapporto di fatto può essere tutelato come espressione del principio solidaristico del quale è permeato l'ordinamento giuridico, e il principio di eguaglianza espresso nell'art. 3 Cost. impone a tutti i soggetti istituzionali della "Repubblica", e quindi anche ai Comuni (arg. ex art. 5 Cost.), di eliminare qualsiasi ostacolo che si frapponga al rispetto della persona umana da tutelare anche nella sua diversità. E lo statuto dell’associazione pare proprio muoversi nell’ottica dello sviluppo della persona, in ogni ambito familiare e sociale; in termini quindi tanto condivisibili quanto ben più ampi e non coincidenti con quelli ben più ristretti azionati in ricorso.

Incidentalmente, merita un espresso richiamo quanto evidenziato dalla Consulta nella sentenza del 2010: “L'art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Orbene, per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l'unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone - nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge - il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri. Si deve escludere, tuttavia, che l'aspirazione a tale riconoscimento - che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia - possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio”. Ciò quindi non esclude che le cc.dd. unioni civili possano assumere rilievo in termini generali di famiglia, come confermato dal concetto di famiglia anagrafica”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Liguria n. 518 del 2014

Il Comune di Asiago: il piano casa può comportare consumo di suolo a fini speculativi

15 Apr 2014
15 Aprile 2014
Trasmetto a Venetoius copia della lettera a firma del Sindaco, inviata al Vicepresidente della Regione Zorzato, su una richiesta di Piano Casa presentato in Comune di Asiago, che evidenzia come l'applicazione consentita in zona agricola di fatto generi nuova occupazione di aree inedificate con conseguente consumo di suolo unita a finalità speculative, trattandosi di comune turistico (assenza di vincoli sul numero delle unità abitative ed assenza di indicazioni prescrittive sulla destinazione d'uso a residenza permanente).
Volevo evidenziare che il disposto dell'art. 3bis comma 3 in realtà rende possibile una situazione ancora peggiore di quella riportata nel caso illustrato, in quanto si precisa che non solo l'ampliamento calcolato sulla volumetria massima assentibile può essere realizzato sul corpo separato, ma anche l'eventuale ampliamento previsto dall'art. 44 comma della LR 11/2004: nel nostro caso, quindi, avremmo non solo il 45% di 800 mc, ma anche la differenza di volumetria tra il volume attuale e gli 800 mc. stessi, cioè altri 725 mc!
Il nuovo fabbricato (ampliamento dell'esistente) potrebbe raggiungere i 1000 mc. con realizzazione di 5-6 alloggi: di fatto un condominio in zona agricola.
Non ritengo che questo fosse lo spirito della legge e poco ha a che fare anche con la finalitĂ  di riqualificazione del patrimonio edilizio esistente.
 
Architetto Donatella Michelazzo - Comune di Asiago
 

Note sulla riforma degli enti locali

15 Apr 2014
15 Aprile 2014

Approda in Gazzetta ufficiale la Legge 7 aprile 2014 n. 56, meglio nota come Legge Del Rio.

Nelle more dell'approvazione della riforma costituzionale , viene dettata un'ampia riforma in tema di Enti locali. Si norma, infatti, l'istituzione e la disciplina delle CittĂ  metropolitane, si ridefinisce il sistema delle Province e si dettano nuove norme in tema di unioni e fusioni di comuni. Concludono il quadro alcune disposizioni sugli organi dei Comuni.

Il testo si compone di un articolo unico suddiviso in 151 commi.

Le cittĂ  metropolitane sono individuate quali Enti territoriali di area vasta a cui sono attribuite specifiche finalitĂ  istituzionali quali la cura dello sviluppo strategico del territorio metropolitano, la promozione e gestione integrata dei servizi, delle infrastrutture e delle reti di comunicazione di interesse della medesima cittĂ  metropolitana, cura delle relazioni istituzionali afferenti il proprio livello, comprese quelle con le cittĂ  metropolitane europee.

Le cittĂ  meropolitane individuate sono 9: Torino , Milano , Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria.

Il territorio di ciascuna cittĂ  metropolitana coincide con quello della Provincia omonima, fatto salvo il procedimento ordinario per il passaggio di singoli comuni da una provincia limitrofa alla cittĂ  metropolitana e viceversa sulla base dell'art. 133 primo comma della Costituzione, con il rafforzamento, rispetto al procedimento disciplinato dalla Costituzione, del ruolo della Regione.

Organi della cittĂ  metropolitana sono il Sindaco metropolitano, il consiglio metropolitano e la conferenza metropolitana; tutti gli incarichi sono svolti a titolo gratuito.

Il Sindaco metropolitano, che rappresenta l'Ente e sovrintende al funzionamento degli uffici e servizi,  è di diritto il Sindaco del comune capoluogo: si prevede anche la figura di un vicesindaco scelto tra i consiglieri metropolitani e la delegabilità di funzioni ai consiglieri, nel rispetto, però, del principio della "collegialità".

Il Consiglio metropolitano, con competenze di indirizzo e di controllo,  è un organo elettivo di secondo grado a composizione variabile in base alla popolazione: il diritto di elettorato attivo e passivo è, infatti, attribuito ai Sindaci e ai Consiglieri dei Comuni della città metropolitana.

La conferenza metropolitana, composta dai Sindaci dei comuni appartenenti, ha competenze limitate all'adozione dello Statuto e al parere sul bilancio oltre che ad altri poteri propositivi e consuntivi eventualmente previsti nello statuto.

Alla città metropolitana sono attribuite sia le funzioni fondamentali delle province che funzioni specifiche proprie come la pianificazione territoriale generale, il piano strategico del territorio metropolitano, strutturazione di sistemi coordinati di servizi pubblici,  organizzazione di servizi pubblici di interesse generale di ambito metropolitano, mobilità e viabilità, promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale e dei sistemi di informatizzazione e di digitalizzazione ed eventuali ulterio funzioni attribuibili dallo stato e dalle Regioni.

In sede di prima applicazione la città metropolitana è costituita nel territorio dell'omonima provincia e la Legge disciplina un articolato procedimento per l'istituzione, che prevede , nelle more delle elezioni del consiglio metropolitano, la proroga delle funzioni del Presidente della Privincia , che assume anche le funzioni del consiglio provinciale, e delle giunta provinciale per l'ordinaria amministrazione fino al 31 dicembre 2014. Analogamente sono prorogati i commissariamenti in atto. L'effettivo passaggio dalla Provincia alla città metropolitana è, quindi, fissato al primo gennaio 2015 con il trasferimento del patrimonio , del personale e delle risorse della provincia e con il subentro in tutti i rapporti attivi e passivi.

Una disciplina, dichiarata espressamente,  con norma meramente dichiarativa,  di natura transitoria, introduce, altresì,  la riforma delle province, che diventano organi rappresentativi di secondo livello, con un Presidente eletto tra i  Sindaci dei comuni della provincia stessa e un consiglio provinciale scelto tra i consiglieri e i sindaci dei comuni della provincia. Il diritto di elettorato attivo spetta, in entrambi i casi, ai medesimi Sindaci e ai consiglieri della provincia. Anche in questo caso le cariche previste sono gratuite.

Il riparto di competenze ricalca quello previsto per le cittĂ  metropolitane. In modo analogo, alcuni poteri specifici e limitati sono attribuiti all'Assemblea dei Sindaci dei Comuni della provincia.

Specifiche norme disciplinano la prima costituzione dei nuovi organi provinciali che riguardano le Province attualmente commissariate e quelle i cui organi scadono per fine mandato nel 2014. La completa operativitĂ  dovrebbe aversi al primo gennaio 2015.

Relativamente alle funzioni, la Legge, che definisce le province, in modo generico, come enti con "funzioni di area vasta",  elenca al comma 85 quelle fondamentali, tra cui si segnalano, in particolare, la pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, la gestione dell'edilizia scolastica, la tutela ambientale.

Al fine di rafforzare il ruolo di supporto della Provincia a favore dei Comuni , d'intesa con questi, possono, tra l'altro,  esserle attribuite funzioni di stazione appaltante e di organizzazione dei concorsi.

In attuazione dell'art. 118 della Costituzione, ulteriori funzioni possono essere attribuite dallo Stato e dalle Regioni, sulla base di uno specifico procedimento e nel perseguimento di particolari finalitĂ  come garantire che determinati compiti siano esercitati in ambiti territoriali ottimali, che funzioni fondamentali dei comuni siano garantite con la massima efficacia o per riconosciute esigenze di unitarietĂ .

I commi da 104 a 115  e da 131 a 134 dettano disposizioni in materia di unioni di Comuni introducendo alcune modifiche all'art. 32 del TUEL sulla composizione numerica del Consiglio dell'unione, determinazione rimessa allo Statuto senza predeterminazione di un numero massimo ex lege,  sull'attribuzione di potestà stauttaria oltre che regolamentare,  sulla previsione obbligatoria che il presidente dell'Unione si avvalga del segretario comunale di uno dei Comuni. E' confermata, anche per questi organi, la gratuità delle cariche.

Di particolare rilevanza il comma 110 che introduce alcune significative precisazioni in merito alla possibilitĂ  che, tramite le Unioni, possano essere svolte in forma associata per i comuni che le costituiscono le attivitĂ  di responsabile anticorruzione, responsabile per la trasparenza e quelle proprie del nucleo di valutazione.

Misure agevolative  e accelerative sono introdotte, nei commi successivi,  in materia di fusioni di comuni, oltre che essere definite disposizioni organizzative di tipo procedurale per regolamentare il passaggio dalla vecchia ala nuova gestione.

Le ultime disposizioni , che precedono quelle finali, introducono, ad invarianza della spesa, l'aumento del numero massimo di consiglieri e di assessori nei comuni fino a 10000 abitanti.

Al fine di garantire che non vi sia incremento di spesa, ogni Comune interessato, deve rideterminare gli oneri connessi con le attivitĂ  in materia di status degli amministratori, prima di applicare la disposizione . Tale ultimo inciso richiederĂ  sicuramente un intervento di chiarimento in merito alle modalitĂ  da seguire.

Il principio della parità di genere, già vigente in via generale anche per le giunte comunali, è ulteriormente rafforzato con la previsione che nessuno dei due sessi, in questi organi,  può essere rappresentato in misura inferiore  al  40% , eccetto che nei Comuni con meno di 3000 abitanti. L'applicazione di tale norma rischia di avere dei problemi applicativi nei Comuni, al di sotto dei 15000 abitanti, in cui è possibile la nomina ad Assessori di cittadini non facerti parte del Consiglio solo se previsto dallo Statuto; non è detto, infatti che a seguito delle elezioni nel consiglio sia garantita la parità di genere, ancora di più nei Comuni con meno di 5000 abitanti dove  sussiste il generico obblico di assicurare la rappresentanza di entrambi i sessi nella presentazione delle liste di candidati, ma non la previsione di una percentuale minima o massima.

Per i Sindaci dei Comuni con meno di 3000 abitanti il limite dei mandati consecutivi passa da due a tre e per i Comuni fino a 15000 viene meno l'incompatibilitĂ  tra la carica di parlamentare nazionale o europeo o di membro di Governo con quella di Sindaco.

La riforma introdotta , anche se, per la gran parte, "transitoria" , risulta particolarmente corposa; va sottolineato, però, che, sebbene alcune disposizioni incidano in modo significativo sull'ambito materiale del decreto legislativo 267/2000, non ne introducono una diretta modifica, con la conseguenza che rischiano di essere compromessi i caratteri di unitarietà e omnicomprensività che in materia di ordinamento degli enti locali ha il predetto testo unico, con i conseguenti rischi in sede interpretativa e applicativa.

 Dott.sa  Stefania Di Cindio - Segretario comunale

Circa l’omessa comunicazione di avvio del procedimento per l’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio ai sensi dell’art. 11 del Dpr 327/2001

15 Apr 2014
15 Aprile 2014

Nella sentenza del TAR Veneto n. 503 del 2014 si precisa che rispondono a finalità diverse gli avvisi di avvio del procedimento previsti dagli artt. 11 e 16 del DPR 327 del 2001 (l'apposizione del vincolo preordinato all'esproprio, il primo, e l’approvazione del progetto definitivo ai fini della dichiarazione di pubblica utilità, il secondo) e, quindi devono essere inviati entrambi.

Tuttavia l'omissione del primo in taluni casi può essere "sanata", ai sensi dell'articolo  21 octies della legge n. 241/1990.

Scrive il TAR: "2.1 L’Amministrazione ha, infatti, depositato in giudizio prova dell’avvenuta ricezione della raccomandata del 25 Marzo 2013 mediante la quale si era inteso comunicare l’avvio del procedimento espropriativo finalizzato all’approvazione del progetto definitivo ai fini della dichiarazione di pubblica utilità.

2.2 Non è stata, al contrario, esibita prova per quanto attiene l’avvenuta ricezione, da parte della ricorrente, della comunicazione di avvio del procedimento, diretta all’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio ai sensi dell’art. 11 del Dpr 380/2001.

3. Sul punto va ricordato che per un costante orientamento giurisprudenziale (per tutti si veda T.A.R. Calabria Catanzaro Sez. I, 15-11-2011, n. 1370) le previsioni di cui agli art. 11 e 16 rispondono a funzioni e finalità del tutto differenti, circostanza quest’ultima che impone l’obbligo che l’Amministrazione espropriante proceda all’invio di entrambe le comunicazioni di avvio sopra citate.

3.1 Si è infatti sostenuto che “in forza di quanto previsto dagli articoli 11 e 16 del D.P.R. n. 327/2001 (T.U. Espropriazione per p.u.), al proprietario del bene sul quale si intende apporre il vincolo preordinato all'esproprio deve essere inviato l'avviso dell'avvio del procedimento e del deposito degli atti di cui al comma 1 (ossia  quelli volti a promuovere l'adozione dell'atto dichiarativo di pubblica utilità), con l'indicazione del nominativo del responsabile del procedimento. In sostanza, deve ritenersi sussistente un duplice obbligo di comunicazione, il cui mancato assolvimento implica illegittimità dell'atto dichiarativo della pubblica utilità e degli altri atti successivi, a nulla rilevando che l'interessato abbia avuto comunque conoscenza del procedimento, dato che le esigenze partecipative alla base dell'obbligo di comunicazione non possono essere ritenute soddisfatte da una generica conoscenza dell'esistenza di un procedimento espropriativo, essendo necessario, per escludere la rilevanza dell'omissione della comunicazione di avvio, una precisa conoscenza dell'andamento del procedimento e dell'oggetto di esso”.

3.2 Pur considerando l’esistenza di detto orientamento, i cui contenuti questo Collegio ritiene di condividere, va evidenziato come la fattispecie di cui si tratta risulti caratterizzata da un serie di circostanze del tutto peculiari che, in quanto tali, fanno ritenere prevalente l’applicazione dell’art. 21 octies, rispetto all’orientamento sopra citato. Sul punto risulta, infatti, dirimente constatare come il Comune di Rovigo abbia dato prova, negli atti in causa, che l’area di cui si tratta non avrebbe potuto essere destinata ad una diversa finalità o funzione.

3.3 A dette conclusioni è presumibile che sia pervenuta anche parte ricorrente nel momento in cui ha ritenuto di non presentare osservazioni, o rilievi di sorta, a seguito dell’avvenuto ricevimento della prima comunicazione, diretta a sancire l’avvio del procedimento espropriativo. Nemmeno in sede di giudizio, ed a seguito delle argomentazioni in questo senso dedotte dall’Amministrazione resistente, si è dato conto circa l’ammissibilità di un uso diverso per le aree di cui si tratta o, ancora, circa l’esistenza di elementi tali da rendere illegittimo l’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio.

3.4 Deve ritenersi, inoltre, come costituisse circostanza nota quella relativa all’incidenza nell’area di cui si tratta di un vincolo di inedificabilità assoluta, la cui esistenza era stata peraltro confermata dalla stessa Soprintendenza nel momento in cui aveva sancito, con appositi provvedimenti, la necessità di rispettare nell’area specifiche, e puntuali, prescrizioni.

4. Dette circostanze sono, altresì, desumibili dalla documentazione contenuta nei precedenti ricorsi che, in quanto tali, avevano avuto ad oggetto la restituzione dell’area al Comune di Rovigo e che sono stati decisi da questo Tribunale.

5. In presenza di detti elementi oggettivi è evidente che l’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio costituisse il risultato di una destinazione urbanistica dell’area già in precedenza espressa dall’Amministrazione comunale, destinazione urbanistica che era stata confermata anche dal provvedimento della Soprintendenza nella parte in cui aveva sancito la necessità che venissero rispettate alcune prescrizioni finalizzate a salvaguardare la consistenza vegetativa, escludendo ogni attività edificatoria.

5.1 E’, allora, evidente come nessun elemento ulteriore avrebbe potuto essere eccepito dalla ricorrente e, ciò, nell’eventualità in cui quest’ultima fosse risultata destinataria anche della comunicazione di avvio del procedimento preordinato all’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio.

5.2 Deve ritenersi, pertanto, che il Comune di Rovigo, nel costituirsi in giudizio, abbia dato prova circa l’esistenza di quei presupposti in base ai quali “alla luce del disposto dell'art. 21 octies della legge n. 241/1990 il giudice non può annullare il provvedimento amministrativi per vizi formali che non abbiano inciso sulla sua legittimità sostanziale, quando il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato ((in questo senso si veda Consiglio di Stato Sez. VI, Sent. n. 4614 del 04-09-2007 e Cons. Stato Sez. IV, 29- 01-2014, n. 449)”. L’applicabilità dell’art. 21 octies al caso di specie consente di respingere la censura sopra citata".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto n. 503 del 2014

Non è necessario che l’autorizzazione paesaggistica preceda l’approvazione del progetto preliminare

15 Apr 2014
15 Aprile 2014

Segnaliamo sul punto un passaggio della sentenza del TAR Veneto n. 503 del 2014, dove si legge che: "6. Deve essere respinta, altresì, la seconda censura mediante la quale si evidenzia come la progettazione di un intervento su area vincolata non sarebbe stata preceduta dall’autorizzazione di cui all’art. 146 del Codice dei beni culturali.

6.1 Sul punto va ricordato come costituisca principio consolidato quello diretto a sancire il carattere di atto autonomo e presupposto
dell'autorizzazione paesaggistica, rispetto al permesso di costruire. E’, infatti, noto che il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e
permesso di costruire è un rapporto di presupposizione, necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche e urbanistiche, diretto com’è a subordinare l’esecuzione dei lavori all’emanazione del provvedimento di compatibilità.

6.2 Ne consegue che la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica non ha l’effetto di incidere sul procedimento diretto all’approvazione del progetto preliminare (provvedimento ora impugnato) e, ciò, considerando che il rapporto di presupposizione sopra citato consente  all’Amministrazione di acquisire i pareri in un momento successivo e, comunque, antecedente alla predisposizione del progetto definitivo e della stessa realizzazione dei lavori. La censura è, pertanto, infondata e va respinta".

Dario Meneguzzo - avvocato

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