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Il piano comunale non può imporre che gli impianti di telefonia siano installati condividendo il sito di un altro operatore

24 Gen 2014
24 Gennaio 2014

Lo precisa la sentenza del TAR Veneto n. 26 del 2014.

Si legge nella sentenza: "3. Ciò premesso è evidente come sia, altresì, illegittimo anche il piano comunale 2013, relativo all’installazione degli impianti di telefonia mobile e, ciò, nella parte in cui impone a Ericsson la condivisione del sito con un altro operatore, in accoglimento del secondo motivo, lett. b), del ricorso in esame.

3.1 Il Comune, infatti, nell’emanare il piano sopra citato, non solo ha omesso di considerare come la realizzazione dell’impianto di cui si tratta fosse oramai assentita, ma nel contempo ha espresso un sostanziale “diniego”, senza nemmeno esplicitare le ragioni a fondamento dello stesso. 

3.2 Si è così, seppur indirettamente, introdotto un limite all’installazione degli impianti che non trova riscontro nella previsione legislativa, non essendo giustificato da ragioni urbanistiche o, più in generale, dalla necessità di tutelare una determinata area del territorio. Ne consegue come la previsione di detto divieto ha l’effetto di introdurre una misura surrettizia, essenzialmente diretta alla tutela della
popolazione da immissione radioelettriche, ipotesi quest’ultima che, la legge n. 36/2000, riserva espressamente alla competenza dello Stato.

3.3 Va, altresì, ricordato che l’impianto in questione è ubicato nelle immediate vicinanze dell’impianto appartenente ad altro operatore, in
relazione al quale la ricorrente aveva già manifestato allo stesso Comune l’impossibilità di una condivisione.

3.4 Sul punto è possibile richiamare quell’orientamento giurisprudenziale (per tutti si veda Consiglio di Stato n. 3493 Sez. IV del 03/06/2010) mediante il quale si è sancito che “muovendo dalla nozione di rete di telecomunicazione che, per definizione, richiede una distribuzione capillare nei diversi punti del territorio - nozione, che ha poi condotto all'assimilazione in via normativa delle infrastrutture di reti pubbliche di telecomunicazione alle opere di urbanizzazione primaria, poste al servizio dell'insediamento abitativo di cui devono seguire lo sviluppo, con conseguente compatibilità dell'installazione di tali manufatti con qualunque destinazione di zona - si devono ritenere illegittime le prescrizioni di piano edilizio, e di regolamento, che si traducono in limiti alla localizzazione e allo sviluppo della rete per intere zone, per di più con scelta generale ed astratta ed in assenza di giustificazioni afferenti alla specifica tipologia dei luoghi o alla presenza di siti che per destinazioni d'uso possano essere qualificati come sensibili  (Conferma della sentenza del Tar Campania - Napoli, sez. I, n. 18934/2004)”.

3.5 Non solo nella fattispecie in esame è del tutto evidente come sia assente una benché minima motivazione, ma va nel contempo rilevato
come nessuna disposizione di legge consente al Comune di imporre la condivisione tra diversi operatori di tali infrastrutture e, ciò, ancor di più in presenza di ragioni ostative, la cui esistenza, era stata affermata da parte ricorrente e manifestata al Comune.

4. E’ possibile, di conseguenza, annullare anche la previsione del Piano comunale del 2013, limitatamente alla parte in cui impone ad Ericsson di installare la stazione radio base in condivisione con la struttura preesistente di altro operatore".

avv. Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto n. 26 del 2014

Nelle gare di appalto vanno escluse le ditte in concordato?

24 Gen 2014
24 Gennaio 2014

Il Consiglio di Stato con la pronuncia della V^ Sezione  del 27 dicembre 2013, n. 6272, relativa ad una gara di appalto in cui l’aggiudicazione era avvenuta a favore di una ditta che aveva chiesto l’attivazione della procedura di concordato preventivo il giorno successivo alla presentazione  dell’offerta, ha stabilito che l’impresa può partecipare alla gara anche se ha formulato la domanda di ammissione al concordato preventivo con continuità aziendale, a condizione  che produca la  documentazione di conformità del piano e che un’altra impresa fornisca i requisiti e assicuri le risorse per eseguire l’appalto.

Per i Giudici è sufficiente, quindi, che l’impresa presenti in gara la relazione di un professionista abilitato che attesti la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento del contratto e una dichiarazione di un’altra impresa che metta a disposizione  i requisiti e le risorse per svolgere l’appalto. Diversamente, il Consiglio di Stato riterrebbe che, impedire all’impresa di partecipare alle gare per l’affidamento dei pubblici contratti, nelle more tra il deposito della domanda  e l’ammissione al concordato, confliggerebbe con la ratio della legge, che vuole consentire all’impresa  (anche) di acquisire contratti per superare la crisi.

Il problema da risolvere riguarda la legittimità della partecipazione alla gara di una ditta aggiudicataria  che aveva, come sopra riferito, presentato domanda per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo con continuità aziendale dopo la scadenza del termine  per la presentazione dell’offerta.

Ciò, a rigor di logica avrebbe determinato il mancato rispetto del possesso del requisito  avente ad oggetto l’assenza di procedure concorsuali in capo  all’impresa aggiudicataria e, quindi, la necessità di escluderla dalla gara.

Il Consiglio di Stato ha ritenuto invece legittima l’ammissione alla gara della ditta e l’aggiudicazione dal momento che  l’impresa non era “in stato “ di concordato preventivo al momento della presentazione  dell’offerta e, quindi era in situazione regolare. In base, poi, al codice dei  contratti pubblici, l’esclusione scatta soltanto per i soggetti che “si trovano  in stato di fallimento , di liquidazione  coatta, di concordato preventivo, salvo il caso di cui all’art. 186 bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, o nei cui riguardi sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni”.

Tuttavia un’altra sentenza della Sezione III^ del Consiglio di Stato , la n. 101/2014 decisa il  3 dicembre 2013 e depositata il 14.01.2014, è arrivata a conclusioni opposte a quella succitata n. 6272/2013, creando così notevole incertezza sulla questione.

In tale sentenza si trattava del caso di affidamento, con bando dell’agosto 2012 da parte di un  Complesso Ospedaliero  dei lavori di scavo archeologicamente assistito propedeutici all’ampliamento e ristrutturazione del presidio ospedaliero.

Alla gara partecipavano dieci concorrenti, tra cui una costituenda a.t.i., che risultava aggiudicataria provvisoria e poi definitiva.

Tuttavia, l'ATI seconda classificata preannunciava ricorso contro l’aggiudicazione in quanto l'aggiudicataria aveva presentato il 3 dicembre 2012 istanza per l’ammissione al concordato preventivo, con termine di 90 giorni per il deposito della domanda di concordato preventivo “in continuità”, sicchè allo stato la società non risultava ammessa. Ricevuto riscontro negativo, con atto notificato il 18 gennaio 2013 l'ATI  proponeva ricorso davanti al TAR per la Valle d’Aosta, che lo accoglieva con sentenza 18 aprile 2013, n. 23.

In sintesi,  il primo giudice ha ritenuto che le norme relative al concordato con continuità aziendale, derogatorie rispetto alle regole ordinarie , quindi di stretta interpretazione, non consentivano l’aggiudicazione dell’a.t.i. a cui partecipava la ditta,  in quanto non ancora ammessa al concordato, né aveva presentato in sede di gara la prescritta documentazione (piano di concordato, attestazione di conformità al piano, dichiarazione di altro operatore all’eventuale subentro).

La Sezione III^ del Consiglio di Stato ha confermato la sentenza del TAR Valle d’Aosta.

Nel merito il Giudice  di seconde cure ha ricordato che la lettera a) del primo comma dell’art. 38 del d.lgs 12 aprile 2006, n. 163, come modificato dall’art. 33, co. 2 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83  (conv. con mod. dalla l. 7 agosto 2012, n. 134), vieta la partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, l’affidamento di subappalti e la stipula dei relativi contratti ai soggetti “ che si trovano in stato di fallimento, di liquidazione coatta, di concordato preventivo, salvo il caso di cui all’art. 186 – bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, o nei cui riguardi sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni”.

La norma fa salvo, secondo il Consiglio di Stato sez. III^, solo il caso regolato dal menzionato art. 186 bis della legge fallimentare (introdotto dall’art. 33, co. 1, del cit. d.l. n. 83 del 2012), il quale disciplina il “concordato con continuità aziendale”, ossia l’ipotesi in cui il concordato preventivo, come da relativo piano delle modalità e dei tempi dell’adempimento della proposta concordataria, contempli (ancorchè possa essere prevista la liquidazione  di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa) la prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore, ovvero la cessione o il conferimento in una o più società dell’azienda “in esercizio”.

In particolare, per quanto riguarda la partecipazione a nuove procedure di affidamento non è dubbio che la norma include tra gli effetti dell’ammissione al concordato con continuità, alle dettate condizioni, il ripristino del requisito di cui trattasi; specularmente, deve ritenersi che la stessa norma escluda un effetto siffatto nel periodo intercorrente tra il deposito della relativa istanza- ricorso ed il decreto del Tribunale conclusivo del procedimento di ammissione (artt 162 o 163 l.f.).

Il disposto  dell’art. 38, co. 1, lettera a) conferma puntualmente siffatta conclusione, laddove fa “salvo il caso di cui all’art. 186-bis” della legge fallimentare ponendone il relativo inciso tra la prevista preclusione per le imprese che versino nello stato fallimentare, liquidazione coatta e concordato preventivo e la disposizione che equipara tali imprese a quelle in cui in corso il procedimento per la  dichiarazione di tali situazioni.

Più precisamente, l’inciso “salvo il caso di cui all’art. 186 – bis “ fa seguito all’elencazione dei soggetti esclusi in quanto “si trovano in stato (……..) di concordato preventivo”, quindi si riferisce  al soggetto che “si trova” nello stato  di concordato preventivo con continuità aziendale, cioè nei cui confronti il tribunale abbia dichiarato  detto stato ai sensi  dell’art. 163 l.f.; lo stesso inciso è conchiuso, precede ed è separato con virgola dalla successiva  dizione “o nei cui riguardi sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni”, cioè degli ulteriori soggetti esclusi, tra i quali, dunque, rientra l’impresa nei cui riguardi sia in corso il procedimento per l’anzidetta dichiarazione. Vale a dire che, diversamente (ed a prescindere dall’inequivoco testo dell’art. 186 bis l.f. a cui fa rinvio) la norma sarebbe stata formulata ponendo l’inciso derogatorio al termine della disposizione, mentre, poiché la disgiuntiva “o” è collocata dopo ed al di fuori della deroga, la deroga stessa non comprende  l’ipotesi in cui sia pendente la procedura per l’ammissione al concordato con continuità aziendale.

Inoltre, trattandosi appunto di deroga all’ordinario regime dei requisiti di carattere generale (i quali, com’è noto, devono sussistere al momento della scadenza del termine per la presentazione  delle domande di partecipazione alla gara e permanere per tutta  la durata dell’appalto), non ne è consentito il superamento del dato letterale mediante un’interpretazione estensiva (o analogica), peraltro non autorizzata neppure dalla ratio legis desumibile dalla normativa in parola.

Invero, ove si accedesse alla tesi dell’effetto escludente dalla gara non al momento della presentazione dell’istanza  ex art. 161 l.f., bensì a quello della non ammissione ex successivo art. 162, non v’è dubbio che si verrebbe a creare una situazione di incertezza ed indeterminatezza  anche temporale della gara stessa, quindi resterebbero disattesi i predetti principi, segnatamente , oltre che di par condicio tra concorrenti, di economicità, efficacia e tempestività con ovvia ricaduta sull’intera attività amministrativa e sul perseguimento dell’interesse pubblico generale, tenuto altresì conto – come bene sottolineato dal primo giudice – del caso frequente in cui il finanziamento degli appalti sia condizionato dal rispetto dei termini perentori per la conclusione  delle procedure e l’esecuzione degli appalti stessi.

In conclusione, secondo il suddetto pronunciamento del Consiglio di Stato Sez. III^, il legislatore ha inteso, si incentivare la tempestiva emersione di criticità ed il ritorno in bonis dell’impresa  o la conservazione dell’azienda “in esercizio”, ma nella materia delle gare pubbliche ha circondato di cautele l’applicazione di tale normativa di favore, sia richiedendo in ogni caso  opportune garanzie, sia limitando la partecipazione al concorrente in status di suttoposto a concordato  con continuità, con conseguente permanere della preclusione qualora prima della scadenza del termine  prefissato per la presentazione delle istanze di partecipazione alla gara l’iter iniziato dall’imprenditore non sia approdato al decreto del tribunale di ammissione  al concordato con continuità e di formale apertura della procedura di concordato finalizzata all’omologazione.

avv. Giamartino Fontana

sentenza CDS 6272 del 2013

Cons_Stato_III_101-2014

Non spetta al Comune disporre l’affidamento del servizio idrico integrato

23 Gen 2014
23 Gennaio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza del 21 gennaio 2014 n. 79, dopo aver chiarito la normativa relativa alle Autorità d’Ambito Territoriale Ottimale (c.d. A.T.O.), afferma che il Comune non è competente a disporre l’affidamento del servizio di distribuzione dell’acqua poiché, a partire dalla L. R. Veneto n. 36/1994, la gestione del servizio idrico è stata estesa all’intero Ambito Territoriale Ottimale e risulta essere affidata in via esclusiva alle c.d. A.T.O. e, successivamente, al Consigli di Bacino destinati a subentrare a queste ultime.

A tal fine si riporta il passo della sentenza che si sofferma sulla normativa di cui supra: "Giova preliminarmente ricostruire il quadro normativo di riferimento. Le autorità d’Ambito erano già previste dagli artt. 8 e 9 della legge n. 36 del 1994 e dagli articoli da 24 a 26-bis della legge 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali), che ne consentivano l’istituzione, da parte delle Regioni, con strutture e forme giuridiche diverse alle quali partecipavano necessariamente gli enti locali, come le convenzioni, i consorzi, le unioni di comuni, l’esercizio associato delle funzioni, con conseguente passaggio dalle gestioni municipali dirette alle gestioni estese all’intero ambito, e assegnazione della specifica legittimazione a compiere tutti gli atti necessari allo svolgimento del servizio idrico all’Autorità d’Ambito medesima. La legge regionale n. 5/98, in attuazione della L. n. 36/94, ha individuato gli ambiti territoriali ottimali, ribadendo che l’Autorità d’Ambito svolge «funzioni di programmazione, organizzazione e controllo del servizio idrico integrato, ivi comprese quelle concernenti il rapporto con il gestore del servizio anche per quanto attiene alla relativa instaurazione, modifica o cessazione» (cfr. art. 3, comma 5).

7.2. Tale impianto risulta sostanzialmente confermato dagli artt. 142, 147 e 148 del Codice dell’ambiente (d.lgs. n.152/2006), in base ai quali:

a) «Gli enti locali, attraverso l’Autorità d’ambito di cui all’articolo 148, comma 1, svolgono le funzioni di organizzazione del servizio idrico integrato, di scelta della forma di gestione, di determinazione e modulazione delle tariffe all’utenza, di affidamento della gestione e relativo controllo, secondo le disposizioni della parte terza del presente decreto» (art. 142, comma 1);

b) «L’Autorità d’ambito è una struttura dotata di personalità giuridica costituita in ciascun ambito territoriale ottimale delimitato dalla competente regione, alla quale gli enti locali partecipano obbligatoriamente ed alla quale è trasferito l’esercizio delle competenze ad essi spettanti in materia di gestione delle risorse idriche, ivi compresa la programmazione delle infrastrutture idriche di cui all’articolo 143, comma 1» (art. 148, comma 1);

c) «L’Autorità d’ambito, nel rispetto del piano d’ambito e del principio di unitarietà della gestione per ciascun ambito, delibera la forma di gestione fra quelle di cui all’articolo 113, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267. L’Autorità d’ambito aggiudica la gestione del servizio idrico integrato mediante gara disciplinata dai principi e dalle disposizioni comunitarie, in conformità ai criteri di cui all’articolo 113, comma 7, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, secondo modalità e termini stabiliti con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare nel rispetto delle competenze regionali in materia. La gestione può essere altresì affidata a società partecipate esclusivamente e direttamente da comuni o altri enti locali compresi nell’ambito territoriale ottimale, qualora ricorrano obiettive ragioni tecniche od economiche, secondo la previsione del comma 5, lettera c), dell’articolo 113 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, o a società solo parzialmente partecipate da tali enti, secondo la previsione del comma 5, lettera b), dell’articolo 113 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, purché il socio privato sia stato scelto, prima dell’affidamento, con gara da espletarsi con le modalità di cui al comma 2. I soggetti di cui al presente articolo gestiscono il servizio idrico integrato su tutto il territorio degli enti locali ricadenti nell’ambito territoriale ottimale, salvo quanto previsto dall’articolo 148, comma 5» (art. 148, commi 1, 2,3, e 4).

La Corte costituzionale, inoltre, con la sentenza n. 246 del 2009, ha affermato la legittimità costituzionale dell’art. 148 del Codice dell’ambiente rilevando, fra l’altro, che la disposizione attiene «anche alla tutela dell’ambiente, perché l’allocazione all’Autorità d’Ambito territoriale ottimale delle competenze sulla gestione serve a razionalizzare l’uso delle risorse idriche e le interazioni e gli equilibri fra le diverse componenti della “biosfera” intesa come “sistema” [...] nel suo aspetto dinamico» (sentenze n. 168 del 2008, n. 378 e n. 144 del 2007). E che «tanto il comma 5 dell’art. 148 quanto la legge n. 36 del 1994, …, fissano il principio del “superamento della frammentazione delle gestioni” ».

Successivamente, con l’art. 2, comma 186 bis, della L. n. 191/2009 (Legge Finanziaria per il 2010), è stata disposta la soppressione delle Autorità d’Ambito Territoriali di cui all’art. 148 del d.lgs. n. 152/2006, prevedendosi che le Regioni attribuiscano con legge le funzioni esercitate dalle Autorità, nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.

Con la legge regionale n. l 7/2012 la Regione del Veneto ha quindi attribuito «le funzioni amministrative relative alla programmazione e controllo del servizio idrico integrato di cui agli art. 147 e seguenti del D.lgs n. 152/2006» per ciascun ambito territoriale ottimale ai Consigli di Bacino (cfr. art. l, comma 5, della L.R. n. 17/2012), quali specifiche forme di cooperazione tra i Comuni per la programmazione e l’organizzazione del servizio idrico integrato, a cui spetta la funzione di approvare le modalità organizzative del servizio in questione e di procedere al relativo affidamento in conformità alla normativa vigente, fermo rimanendo che, fino alla costituzione dei nuovi Consigli di Bacino, continuano ad operare, ex art. 13, comma l, L.R. n. 17/2012, le Autorità d’Ambito, costituite con la legge regionale n. 5/98, con i propri organi e, dal l gennaio 2013, con il Commissario Straordinario.

L’organizzazione dei servizi pubblici in ambiti territoriali risulta, infine, confermata dall’art. 3 bis, comma 1, del D.L. n. 138/2011, il quale, prevede che « (…), è fatta salva l’organizzazione di servizi pubblici locali di settore in ambiti o bacini territoriali ottimali già prevista in attuazione di specifiche direttive europee nonché ai sensi delle discipline di settore vigenti o, infine, delle disposizioni regionali che abbiano già avviato la costituzione di ambiti o bacini territoriali in coerenza con le previsioni indicate nel presente comma»”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 79 del 2014

Le zone agricole possono essere trasformate dal punto di vista edilizio e urbanistico solamente per soddisfare esigenze legate all’agricoltura

23 Gen 2014
23 Gennaio 2014

Lo precisa il TAR Veneto nella sentenza n. 17 del 2014.

Scrive il TAR: "Ebbene, in esito ad un più approfondito esame, il Collegio ritiene di dover rivisitare la propria interpretazione delle citate norme del p.r.g. del Comune di Vigodarzene adottata nella fase cautelare. Ed infatti, considerato il tenore neutrale di tali norme, che non vietano né consentono espressamente l’insediamento di attività improprie in zona agricola, nonché la teorica compatibilità tra la destinazione “residuale” dell’area agricola e l’insediamento di un’attività artigianale  previo cambio di destinazione d’uso di un fabbricato preesistente, il Collegio si era inizialmente orientato nel senso della compatibilità degli interventi in oggetto con la destinazione di zona. Tuttavia, a ben vedere, ad essere di ostacolo ad una tale ricostruzione interpretativa è la nettezza delle scelte operate dal legislatore regionale in ordine alla disciplina dell’edificabilità delle aree agricole. L’art. 44 della L.R. n. 11/2004, infatti, si apre stabilendo chiaramente che “nella zona agricola sono ammessi…esclusivamente interventi edilizi in funzione dell’attività agricola, siano essi destinati alla residenza che a strutture agricolo-produttive..”. Tale rigorosa affermazione, già tale da non lasciar spazio ad integrazioni interpretative, trova poi rafforzamento nelle successive previsioni del medesimo articolo in esame, in base alle quali qualsiasi intervento edilizio deve essere, non solo, strettamente funzionale all’attività agricola, ma anche necessario allo sviluppo dell’azienda agricola, sulla base di un “piano aziendale” che appunto dimostri l’effettiva necessità dei nuovi interventi. Non v’è dubbio, pertanto, che secondo la legge regionale il territorio agricolo può essere modificato in senso urbanistico (cioè funzionalmente) ed edilizio (ossia con costruzioni: edifici e manufatti in genere) solamente per soddisfare esigenze legate all’agricoltura. In tal senso si è espresso anche il Consiglio di Stato (sent. n. 798 del 12 febbraio 2010) laddove, a proposito dell’art. 44 L.R. 11/2004, ha affermato che: “certamente il legislatore (regionale) abbraccia una concezione estremamente rigorosa delle costruzioni in zona agricola, tanto da impedire del tutto nuovi interventi che non siano funzionali all’attività agricola, e quindi vieta espressamente, a chi non abbia i  requisiti previsti, qualsiasi tipo di realizzazione che sia assimilabile al concetto di intervento edilizio”. Ne consegue che gli artt. 17 e 18 del p.r.g. del Comune di Vigodarzene, i quali si limitano a disciplinare gli interventi ammessi in zona agricola, senza accennare alla possibilità di realizzarvi manufatti diversi da quelli agricolo-produttivi, devono essere interpretati, alla luce della superiore disciplina regionale appena esaminata, nel senso che gli unici interventi edilizi ammessi sono quelli esclusivamente funzionali all’attività agricola. Pertanto, il provvedimento di diniego di sanatoria è legittimo, essendo, gli interventi edilizi in oggetto, funzionali alla realizzazione di un compendio a destinazione artigianale non compatibile con la zona agricola".

avv. Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto n. 17 del 2014

 

Il soggetto non proprietario e non autore dell’abuso ma che ha la disponibilità dell’immobile può essere destinatario dell’ordinanza di demolizione?

23 Gen 2014
23 Gennaio 2014

Dice di si il TAR Veneto nella sentenza n. 17 del 2014.

Scrive il TAR: "3. Quanto all’ordine di demolizione, i ricorrenti, con il secondo motivo di ricorso, contestano che lo stesso sia stato indirizzato e notificato anche a soggetti terzi (G. C. e B. D. L.) non titolari di alcun diritto sugli immobili oggetto dell’ordinanza, né responsabili degli abusi contestati. Tale doglianza è in parte infondata, risultando che B. D. L., in quanto titolare della G. G., trovandosi nella disponibilità delle opere in oggetto ed essendo in condizione di intervenire su di esse per reprimere gli abusi contestati, è responsabile degli stessi e quindi destinataria ex lege dell’ordine di demolizione. Quanto invece a G. C., l’eccezione in esame non è idonea a determinare l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione, in quanto, se la stessa non è proprietaria degli immobili oggetto dell’ordinanza, essa non  subirà alcun effetto pregiudizievole in caso d’inottemperanza, e dunque residuerà un adempimento superfluo da parte dell’amministrazione inidoneo a determinare un vizio del provvedimento in esame, che è stato comunque indirizzato e notificato anche ai soggetti direttamente interessati".

L’inedificabilità del vincolo cimiteriale riguarda anche le strutture non finalizzate alla stabile presenza di persone

22 Gen 2014
22 Gennaio 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 19 del 2014, che riguarda la demolizione di un edificio per il quale era stato negato il rilascio del condono edilizio, perchè ricadente all'interno del vincolo cimiteriale.  

Scrive il TAR: "..il condono è stato negato per l’esistenza di un vincolo d’inedificabilità (art. 33, I comma, lett. d l. 47/85) quale regolato dal precitato art. 338. .. Questo prevede anzitutto (I comma) che “I cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal entro abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge”(I comma): peraltro, il consiglio comunale può approvare, “la costruzione di nuovi cimiteri o l'ampliamento di quelli già esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal centro abitato, purché non oltre il limite di 50 metri” quando ricorrano determinate condizioni. Il contravventore deve “demolire l'edificio o la parte di nuova costruzione, salvi i provvedimenti di ufficio in caso di inadempienza” (III comma). ... La tesi del ricorrente è che tali previsioni non si applicherebbero alle strutture non finalizzate alla stabile presenza di persone, e tali sarebbero quelle per cui è stato richiesto il condono. ... La censura va senz’altro respinta. Anzitutto, la norma non pone alcuna distinzione: del resto, il vincolo di rispetto cimiteriale trova la sua giustificazione anche in ragioni di decoro (alla “peculiare sacralità che connota i luoghi destinati a cimitero”, si riferisce C.d.S., V, 8 settembre 2008, n. 4256), e di possibili successivi ampliamenti della struttura, oltre che in intuibili ragioni igienicosanitarie. È da aggiungere che sarebbe concretamente assai difficile stabilire quale  tipologia di manufatto sia compatibile con i predetti motivi di tutela igienico-sanitaria: certamente non quelli oggetto della domanda di condono, parte integrante della struttura alberghiera e destinati, dunque, ad essere utilizzati con continuità dal personale e dalla clientela”. Ciò premesso, il provvedimento di diniego qui impugnato, ha ribadito, anche per gli interventi di trasformazione proposti dal ricorrente (peraltro su manufatti già confermati come abusivi e quindi da demolire in toto), il contrasto della loro presenza con la destinazione impressa all’area sulla quale essi insistono dalle n.t.a. del vigente P.R.G., quale zona di rispetto cimiteriale, per la quale, in base al Testo Unico in materia sanitaria, n. 1265/34, è consentita la sola costruzione di chioschi provvisori con vincolo legale di precarietà per fiori ed arredi sacri, con specifiche dimensioni ivi parimenti indicate. E’ quindi evidente che, al di là dell’eventuale osservanza delle garanzie di igiene che parte ricorrente ritiene sufficienti per consentire ugualmente la realizzazione di manufatti aventi diversa destinazione e conformazione, lo spirito della norma è quello di limitare proprio la tipologia dei manufatti da realizzare nell’ambito della zona di rispetto cimiteriale, la quale , come noto, è di per sé inedificabile, salvo le sole  peculiari eccezioni di cui sopra, strettamente connesse al culto dei defunti. Il contrasto con la destinazione di zona è quindi evidente e non superabile, anche seguendo l’interpretazione più estensiva suggerita da parte ricorrente, in quanto tali manufatti, anche se trasformati secondo il progetto di recupero presentato, esorbitano in ogni caso dalle specifiche tipologie ammesse dalle n.t.a., in perfetta aderenza alle prescrizioni del Testo Unico. Oltre a tali considerazioni, di per sé comunque assorbenti ogni ulteriore motivazione del diniego opposto, va ribadita l’abusività dei manufatti sui quali il ricorrente intende realizzare gli interventi di trasformazione, con l’evidente conseguenza per cui trattasi di interventi non ammissibili in quanto aventi per oggetto immobili abusivi, di cui doveva già essere effettuata la demolizione. Per tutte le considerazioni sin qui espresse quindi il ricorso non è fondato e va respinto".

avv. Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto n. 19 del 2014

Il Consiglio di Stato promuove la norma della L.U. Toscana, simile a quella Veneta, che prevede la decadenza delle previsioni di trasformazione qualora entro cinque anni dall’approvazione del piano non sia stata stipulata la relativa convenzione

22 Gen 2014
22 Gennaio 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del Consiglio di Stato n. 44 del 2014.

Scrive il Consiglio di Stato: ""....Si evidenzia in particolare che l’art. 55 della L.R. Toscana 3-1-2005 n. 1 (Norme per il governo del territorio) così dispone:

1. Il regolamento urbanistico disciplina l'attività urbanistica ed edilizia per l'intero territorio comunale; esso si compone di due parti:

a) disciplina per la gestione degli insediamenti esistenti;

b) disciplina delle trasformazioni degli assetti insediativi, infrastrutturali ed edilizi del territorio.

omissis...

4. Mediante la disciplina di cui al comma 1 lettera b), il regolamento urbanistico individua e definisce:

a) gli interventi di addizione agli insediamenti esistenti consentiti anche all'esterno del perimetro dei centri abitati;

b) gli ambiti interessati da interventi di riorganizzazione del tessuto urbanistico;

c) gli interventi che, in ragione della loro complessità e rilevanza, si attuano mediante i piani di cui al presente titolo, capo IV, sezione I;

d) le aree destinate all'attuazione delle politiche di settore del comune;

e) le infrastrutture da realizzare e le relative aree;

f) il programma di intervento per l'abbattimento delle barriere architettoniche ed urbanistiche, contenente il censimento delle barriere architettoniche nell'ambito urbano e la determinazione degli interventi necessari al loro superamento, per garantire un'adeguata fruibilità delle strutture di uso pubblico e degli spazi comuni delle città;

g) la individuazione dei beni sottoposti a vincolo ai fini espropriativi ai sensi degli articoli 9 e 10 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità);

h) la disciplina della perequazione di cui all'articolo 60.

5. Le previsioni di cui al comma 4 ed i conseguenti vincoli preordinati alla espropriazione sono dimensionati sulla base del quadro previsionale strategico per i cinque anni successivi alla loro approvazione; perdono efficacia nel caso in cui, alla scadenza del quinquennio dall'approvazione del regolamento o dalla modifica che li contempla, non siano stati approvati i conseguenti piani attuativi o progetti esecutivi.

6. Nei casi in cui il regolamento urbanistico preveda la possibilità di piani attuativi di iniziativa privata, la perdita di efficacia di cui al comma 5 si verifica allorché entro cinque anni non sia stata stipulata la relativa convenzione ovvero i proponenti non abbiano formato un valido atto unilaterale d'obbligo a favore del comune.

7. Alla scadenza di ogni quinquennio dall'approvazione del regolamento urbanistico, il comune redige una relazione sul monitoraggio degli effetti di cui all'articolo 13.

 All’evidenza, la disposizione di cui al comma 6 detta una prescrizione specifica “dedicata” ai piani attuativi di iniziativa privata, che prescinde del tutto dalla natura della prescrizione vincolistica: costituisce illazione, infatti, non suffragata dalla portata testuale della norma, l’affermazione secondo la quale, per i piani attuativi privati, la disposizione vada restrittivamente intesa, nel senso che la perdita di efficacia operi soltanto allorchè i vincoli abbiano natura espropriativa e non conformativa.

2.3. Fermo il detto convincimento, aderente al dato letterale ivi contenuto, neppure persuade la ratio della necessità di una interpretazione restrittiva della detta disposizione, siccome postulato da parte appellante.

2.4. E’ ben vero che la legislazione nazionale è ancorata al binomio vincolo conformativo/durata indeterminata, vincolo espropriativo/scadenza prefissata.

Ma è altresì vero, che tale scissione concettuale “nasce” a tutela della posizione del privato e si rende necessaria alla stregua dei principi espressi dalla Corte costituzionale, con la “storica” sentenza 20 maggio 1999, n. 179 (dichiarativa dell'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 7, n. 2, 3 e 4 e 40 della L. 17 agosto 1942, n. 1150, e 2, primo comma, della L. 19 novembre 1968, n. 1187, nella parte in cui consente all'Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificabilità, senza la previsione di un indennizzo).

Il che ha portato la uniforme giurisprudenza amministrativa ad affermare (ex multis Cons. Stato Sez. V, 13-04-2012, n. 2116) che “i vincoli urbanistici non indennizzabili, che sfuggono alla previsione del predetto articolo 2 della L. 19 novembre 1968, n. 1187, sono quelli che riguardano intere categorie di beni, quelli di tipo conformativo e i vincoli paesistici, mentre i vincoli urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, che devono invece essere indennizzati, sono:

a) quelli preordinati all'espropriazione ovvero aventi carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà, se non discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore statale o regionale, attraverso l'imposizione a titolo particolare su beni determinati di condizioni di inedificabilità assoluta;

b) quelli che superano la durata non irragionevole e non arbitraria ove non si compia l'esproprio o non si avvii la procedura attuativa preordinata a tale esproprio con l'approvazione dei piani urbanistici esecutivi;

c) quelli che superano quantitativamente la normale tollerabilità, secondo una concezione della proprietà regolata dalla legge nell'ambito dell'art. 42 Cost..”.

 Non apparirebbe quindi contrario ad alcun principio, né collidente con la valutazione espressa dal Giudice delle leggi, una prescrizione contenuta in una legge regionale che prevedesse la perdita di efficacia anche dei vincoli conformativi (mentre, al contrario, lo sarebbe certamente, l’inversa ipotesi di una durata sine die di quelli espropriativi).

geom. Daniele Iselle

sentenza CDS n. 44 del 2014

Per il TAR Veneto è tramontata l’era dell”IPSE DIXIT” della Soprintendenza‏

21 Gen 2014
21 Gennaio 2014

Con una serie di recenti sentenze di costante orientamento, il TAR Veneto dice che la motivazione di taluni dinieghi in materia paesaggistica da parte delle Soprintendenza risulta: "...vaga ed inconsistente e denota una carente istruttoria...".

A leggere le sentenze del TAR Veneto sembrerebbe finita l'era dell'ipse dixit delle Soprintendenze quali "supreme autorità".

Anch'esse sembrerebbero oramai cadute dall'Olimpo e rientrate a pieno titolo nel novero delle normali comuni autorità amministrative; per sostenere i loro dinieghi non pare possano più pretendere di dire: "è così perchè lo dico io" (che finora era diventato anche: "è così perchè lo ha detto la Soprintendenza") .  Anche le Soprintendenze devono tenere in debito conto la legge 241/90 in materia di procedimento amministrativo ed eventualmente, se non concordano, motivare in fatto e controdedurre in modo analitico e puntuale rispetto alle posizioni espresse da altre autorità amministrative in corso di procedimento.

Il TAR Veneto restituisce così dignità ai comuni subdelegati dalla regione in materia paesaggistica ed alle commissioni del paesaggio, ove confermate.

Indico come esempi di questo orientamento le sentenze del TAR Veneto n.  44 e n. 51 del 2014.

 Peraltro segnalo, oltre a queste citate, anche altre recenti sentenze nelle quali il TAR Veneto esprime il proprio orientamento critico sui provvedimenti negativi della Soprintendenza:

 - TAR Veneto - sentenza n. 1407/2013: " 2. Per quanto concerne il ricorso 2151/11 è possibile disporne l’accoglimento, con conseguente annullamento dei provvedimenti impugnati, ritenendo sul punto fondato il primo motivo, nell’ambito del quale si censura il carattere apodittico e generico della motivazione.";

 - TAR Veneto - sentenza n. 1294/2013 - "che, invero, detta valutazione, pur espressione di un potere di discrezionalità tecnica, risulta del tutto apodittica e generica, in quanto prescinde dall’esprimere un giudizio riferito, in concreto, all’intervento di cui si tratta;"

 - TAR Veneto - sentenza n. 1104/2013 . " 1.2 La semplice lettura della motivazione sopra citata consente di rilevare come la valutazione, pur espressione di un potere di discrezionalità tecnica, sia del tutto apodittica e generica, in quanto prescinde dall’esprimere un giudizio riferito, in concreto e all’intervento di cui si tratta." ;

 - TAR Veneto - sentenza n. 48/2014 - "Il ricorso può essere accolto, risultando fondato il primo motivo del ricorso, mediante il quale si sostiene il carattere apodittico e generico della motivazione contenuta nel parere della Soprintendenza".

Confidiamo che il Consiglio di Stato confermi tale innovativo orientamento del TAR Veneto.

dott. David De Arena

sentenza TAR Veneto n. 44 del 2013

sentenza TAR veneto n. 51 del 2014

Anche i procedimenti per l’adozione degli atti amministrativi generali di pianificazione e di programmazione (es. PRAC) sono soggetti al dovere di conclusione del procedimento di cui all’art. 2 della legge n. 241/1990

21 Gen 2014
21 Gennaio 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 47 del 2014.

Scrive il TAR: "4. Ciò premesso è possibile accogliere il ricorso ritenendo illegittimo il silenzio serbato dalla Regione Veneto avverso le precedenti diffide e, più in generale, in conseguenza della violazione dell’obbligo di approvare il piano Regionale dell’attività di cava entro “dodici mesi dall'entrata in vigore della presente legge secondo le procedura stabilite dall'art. 7” ai sensi di quanto previsto dall’art. 42 della L. reg. 44/1982.

5. Sul punto è del tutto irrilevante, sostenere che il termine di cui all’art. 42 non ha carattere perentorio, bensì ordinatorio.

5.1 E’, al contrario, dirimente constatare la violazione di una puntuale e frazionata procedura, nell’ambito della quale le singole fasi procedimentali sono dettagliatamente disciplinate dall’art. 7 della disciplina sopra richiamata.

5.2 L'art. 2 della l. n. 241/1990, nella parte in cui ricomprende uno dei principi fondamentali dell'ordinamento in tema di azione amministrativa, sancisce l'obbligo per l'amministrazione di concludere ogni procedimento con un provvedimento espresso entro un termine certo e, ciò, a prescindere dal carattere perentorio o ordinatorio dello stesso.

5.3 E’ del pari confermato da un costante orientamento giurisprudenziale che anche i procedimenti per l'adozione degli atti amministrativi generali di pianificazione e di programmazione sono soggetti al dovere di conclusione del procedimento di cui all'art. 2 della legge n. 241/1990 (in questo senso si veda Cons. Stato Sez. V, 29-05-2006, n. 3265).

5.4 Nel caso di specie la mancata approvazione del Piano Regionale dell’attività di cava ha l’effetto di impedire lo svolgimento dell’attività estrattiva con inevitabili ripercussioni nel mercato di riferimento e, ciò, considerando come lo strumento pianificatorio costituisca un presupposto essenziale per le attività dell’intero settore.

5.5 Si consideri, ancora, come la violazione di detto termine sia stata riconosciuta illegittima già da due pronunce, in quanto riferite sia a questo Tribunale Amministrativo sia, ancora, al Consiglio di Stato e, ciò, senza che il comportamento inerte sia cessato.

6. Costituisce, altresì, carattere dirimente constatare come anche nell’atto di costituzione dell’Amministrazione non sia possibile evincere le ragioni di detta inerzia, protrattasi per un così considerevole periodo di tempo, risultando al contrario evidente i soli tentativi di approvazione, non conclusisi in un provvedimento definitivo.

6.1 Detta accertata inerzia non è suscettibile di venire meno con la semplice “adozione” del Piano sopra citato e, ciò, considerando come ne risulti comunque violata la procedura di cui all’art. 7 e, contestualmente, lo stesso termine di cui all’art. 42 nella parte in cui si richiede che il Piano di cui si tratta venga “approvato” entro i dodici mesi sopra citati.

7. Ne consegue che deve ritenersi illegittima l’inerzia della Regione Veneto protratta nell’approvazione del Piano sopra citato".

geom. Daniele Iselle 

sentenza TAR veneto n. 47 del 2014

Ingegnere impara l’arte e mettila da parte

21 Gen 2014
21 Gennaio 2014

Il Consiglio di Stato, sez. VI, nella sentenza del 09 gennaio 2014 n. 21, dichiara che gli ingegneri possono essere esclusi dall’attribuzione di incarichi professionali afferenti la direzione di lavori relativi ad immobili di interesse storico-artistico perché tali compiti spettano, almeno parzialmente, ai soli architetti ex art. 52 del R.D. 2537 del 1925 il quale prevede che: “1. Formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative. 2.Tuttavia le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla L. 20 giugno 1909, n. 364, per l'antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere”.

 A tal fine si riportano i passi salienti della sentenza:

  • in entrambi i ricorsi in appello che vengono all’esame di questo Consiglio di Stato viene riproposta, sia pure con prospettazione asimmetrica nelle distinte controversie, in ragione delle antitetiche posizioni processuali delle parti, la questione della compatibilità comunitaria della disciplina normativa italiana che riserva ai soli architetti le prestazioni principali sugli immobili di interesse culturale (art. 52 del R.D. del 22 ottobre 1925 n. 2537). Nel ricorso in appello RG n.6736/08, in particolare, è il Ministero dei beni e le attività culturali a censurare la sentenza di accoglimento del T.A.R. del Veneto, rilevando che dalla stessa ordinanza della Corte di Giustizia 5 aprile 2004 si ricaverebbe il principio secondo cui la diversificazione normativa nell’accesso ad alcune prestazioni particolari dell’architettura, oltre che essere una esclusiva prerogativa statuale, come tale estranea alla sfera di intervento del diritto comunitario, rappresenterebbe anche una soluzione coerente con la diversità dei percorsi formativi degli ingegneri e degli architetti. (...) Nel ricorso in appello RG n. 2527/09 sono gli ordini provinciali degli ingegneri del Veneto a censurare la sentenza di rigetto di primo grado ed a riproporre, sia pure in via subordinata, la stessa questione afferente la illegittimità de iure communitario dell’articolo 52 del R.D. 22 ottobre 1925 n. 2537, sostenendosi in via principale l’affidabilità (anche) agli ingegneri dell’incarico oggetto d’appalto, in ragione della natura delle attività oggetto di gara, in tesi estranee al campo applicativo delle prestazioni riservate agli architetti secondo la richiamata disposizione di diritto interno. Con la richiamata ordinanza 27 gennaio 2012, n. 386 questo Consiglio ha ritenuto che, al fine della definizione della controversia, fosse necessario investire la Corte di giustizia dell’UE di due quesiti pregiudiziali ai sensi dell’articolo 267 del TFUE”;
  • La Corte di giustizia ha definito il ricorso per rinvio pregiudiziale con la sentenza della Quinta Sezione 21 febbraio 2013 (in causa C-111/12). Con tale decisione, in particolare, la Corte ha statuito che gli articoli 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE del Consiglio, del 10 giugno 1985, concernente il reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli del settore dell’architettura e comportante misure destinate ad agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione di servizi, devono essere interpretati nel senso che essi ostano ad una normativa nazionale secondo cui persone in possesso di un titolo rilasciato da uno Stato membro diverso dallo Stato membro ospitante - titolo abilitante all’esercizio di attività nel settore dell’architettura ed espressamente menzionato al citato articolo 11 - possono svolgere, in quest’ultimo Stato, attività riguardanti immobili di interesse artistico solamente qualora dimostrino, eventualmente nell’ambito di una specifica verifica della loro idoneità professionale, di possedere particolari qualifiche nel settore dei beni culturali”;
  • Nel merito, il ricorso n. 6736/2008 – proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali – deve essere accolto, mentre deve essere respinto il ricorso n. 2527/2009 – proposto dagli Ordini degli Ingegneri delle Province del Veneto”;
  • Per quanto riguarda, in primo luogo, la delimitazione dell’ambito oggettivo della richiamata, parziale riserva, la giurisprudenza di questo Consiglio ha condivisibilmente osservato che, ai sensi dell’articolo 52, cit., non la totalità degli interventi concernenti gli immobili di interesse storico e artistico deve essere affidata alla specifica professionalità dell’architetto, ma solo “le parti di intervento di edilizia civile che riguardino scelte culturali connesse alla maggiore preparazione accademica conseguita dagli architetti nell’ambito del restauro e risanamento degli immobili di interesse storico e artistico”, restando invece nella competenza dell’ingegnere civile la cd. parte tecnica, ossia “le attività progettuali e di direzione dei lavori che riguardano l’edilizia civile vera e propria (…)” (in tal senso: Cons. Stato, VI, 11 settembre 2006, n. 5239)”;
  • Sempre con riferimento all’ambito di applicazione della parziale riserva di cui al più volte richiamato articolo 52, la giurisprudenza nazionale (ancora una volta, sulla scorta dei chiarimenti interpretativi forniti dalla Corte di giustizia dell’UE) ha ulteriormente chiarito che le disposizioni della direttiva 85/384/CEE (concernente il reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli del settore dell'architettura e comportante misure destinate ad agevolare l'esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione di servizi e da ultimo trasfusa nel corpus della direttiva 2005/37/CE) non hanno in alcun modo comportato la piena equiparazione dei titoli di architetto e di ingegnere civile ai fini dell’esercizio delle attività professionali nel campo dell’architettura”;
  • In definitiva, secondo la Corte di giustizia, la più volte richiamata direttiva non impone allo Stato membro di porre i diplomi di laurea in architettura e in ingegneria civile indicati all’articolo 11 su un piano di perfetta parità per quanto riguarda l’accesso alla professione di architetto in Italia; né tantomeno essa può essere di ostacolo ad una normativa nazionale che riservi ai soli architetti i lavori riguardanti gli immobili d’interesse storico-artistico sottoposti a vincolo (in tal senso: Cons. Stato, sent. 5239/06, cit.)”;
  • In definitiva la Corte ha ritenuto di non potersi pronunziare in modo espresso sul se la normativa italiana rilevante comporti o meno un fenomeno di ‘discriminazione alla rovescia’ in danno dei professionisti italiani (giacché ciò esula dalle sue competenze istituzionali, le quali non includono le ‘situazioni puramente interne’, al cui ambito sono pacificamente da ricondurre le controversie in esame – punto 34 della motivazione -). Tuttavia, la Corte ha ritenuto di dover comunque definire e chiarire ulteriormente i contorni applicativi della normativa comunitaria dinanzi richiamata (e segnatamente, degli obblighi di mutuo riconoscimento di cui agli articoli 7, 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE) al fine di consentire a questo Giudice del rinvio di disporre di una quadro conoscitivo più completo per definire il giudizio – ad esso solo demandato in via esclusiva – relativo alla sussistenza o meno del richiamato fenomeno di discriminazione alla rovescia”;
  • il Collegio ritiene che l’esame degli atti di causa e della pertinente normativa comunitaria e nazionale non palesino i paventati profili di discriminazione alla rovescia in danno dell’ingegnere civile italiano, al quale (nella tesi degli ordini degli Ingegneri appellanti nel ricorso n. 2527/2009, condivisa dal T.A.R. del Veneto con la sentenza n. 3630/2007) sarebbe indiscriminatamente e irrazionalmente vietato l’esercizio di alcune attività professionali (quelle inerenti gli interventi sui beni di interesse storico e artistico) le quali – al contrario – sarebbero altrettanto indiscriminatamente consentite agli Ingegneri di altri Paesi dell’Unione europea”;
  • nello stato attuale di evoluzione del diritto comunitario, la disciplina sostanziale dell’attività degli architetti e degli ingegneri non costituisce oggetto di armonizzazione, né di ravvicinamento delle legislazioni, così come risulta allo stato non armonizzata la disciplina delle condizioni di accesso a tali professioni, ragione per cui non risulta esatto affermare (contrariamente a quanto si legge a pag. 10 della sentenza n. 3630, cit.) che la direttiva 384, cit. avrebbe sancito la piena “equiordinazione sul piano comunitario dei titoli di ingegnere civile e di architetto”;
  • è del tutto determinante osservare che (contrariamente a quanto affermato nell’impugnata sentenza n. 3630/2007 e a quanto sembrano sostenere gli Ordini degli ingegneri appellanti nel ricorso n. 2527/2009) non tutti i diplomi, certificati e altri titoli di ingegnere civile rilasciati da altri Paesi dell’UE consentono l’indifferenziato svolgimento di tutte le attività proprie della professione di architetto.Al contrario, l’esame della pertinente normativa comunitaria (e, segnatamente, dell’articolo 7 della direttiva 85/384/CEE) rende chiaro che l’inclusione negli elenchi nazionali predisposti – per così dire – ‘a regìme’ ai sensi del medesimo articolo 7 è consentita solo ai professionisti i quali abbiano svolto un adeguato percorso di formazione tipico della professione di architetto”;
  • conclusivamente, non è possibile affermare che il sistema normativo nazionale di parziale riserva in favore degli architetti delle attività previste dall’articolo 52 del R.D. 2537 del 1925 sia idoneo a sortire in danno degli ingegneri italiani l’effetto di ‘discriminazione alla rovescia’ richiamato dalla sentenza del T.A.R. del Veneto n. 3630/2007 e la cui sussistenza in concreto la stessa Corte di giustizia ha demandato alla verifica in sede giudiziale da parte di questo Giudice del rinvio, trattandosi pur sempre – secondo quanto statuito dalla medesima Corte – di controversia nell’ambito della quale vengono pacificamente in rilievo ‘situazioni puramente interne’ (in tal senso: CGCE, sentenza in causa C-111/12, cit. punto 34).6.3. E il richiamato (e meramente paventato) effetto di ‘reverse discrimination’ quale effetto della previsione di cui all’articolo 52, cit. deve essere escluso sia per quanto riguarda il particolare sistema transitorio e derogatorio di cui agli articoli 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE, sia per quanto riguarda il sistema ‘a regime’ di cui all’articolo 7 della medesima direttiva” (...) Al riguardo si osserva che, secondo un condiviso orientamento, la parziale riserva di cui al più volte richiamato articolo 52 non riguarda la totalità degli interventi concernenti immobili di interesse storico e artistico, ma inerisce alle sole parti di intervento di edilizia civile che implichino scelte culturali connesse alla maggiore preparazione accademica conseguita dagli architetti nell’ambito delle attività di restauro e risanamento di tale particolarissima tipologia di immobili (si richiama ancora una volta, al riguardo, la sentenza di questo Consiglio n. 5239 del 2006)”;
  • Infine, non può trovare accoglimento il terzo motivo di appello, con il quale (reiterando ancora una volta un motivo di doglianza già articolato in primo grado e disatteso dal T.A.R.) si è lamentata l’illegittimità della scelta di riservare agli architetti anche il ruolo di coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione”.

dott. Matteo Acquasaliente

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