Tag Archive for: Veneto

Soltanto negli appalti di servizi e/o forniture c’è l’obbligo di indicare gli oneri di sicurezza a pena di esclusione

03 Lug 2014
3 Luglio 2014

Nella sentenza del Consiglio di Stato n. 3056/2014, commentata nel post del 19.06.2014, si sottolineava che, negli appalti di lavori, non sussiste l’obbligo di indicare gli oneri di sicurezza a pena di esclusione. Questa sentenza deve essere coordinata anche con la recente del 30 giugno 2014 n. 3291, ove il Massimo Organo della Giustizia Amministrativa chiarisce che, se da un lato nemmeno nelle concessioni di servizi c’è tale obbligo, esso è presente negli appalti di servizi e/o forniture: “- nella fattispecie viene in rilievo una concessione di servizi pubblici, provvedimento la cui emanazione, ai sensi dell’art. 30 del codice dei contratti pubblici, non soggiace alle norme puntuali recate dal codice, ma ai soli principi generali della materia, principi tra i quali non è annoverabile la regula iuris fissata dalla norma di cui all’art. 86, comma 4, che impone, solo per gli appalti di servizi e di forniture, l’indicazione degli oneri di sicurezza in sede di formulazione dell’ offerta economica (cfr., con riguardo ai servizi esclusi dal codice dei contratti pubblici, Cons. Stato, sez. III, 21 gennaio 2014, n, 280);

- l’obbligo di indicare i costi di sicurezza nella specie non è evincibile neanche da un auto-vincolo assunto dalla stazione appaltante, posto che il bando di gara, per un verso, stabilisce la struttura dell’offerta economica indicando cinque voci senza fare menzionare i costi di sicurezza (punto 8.1.2., pag. 5); e, dall’altro, richiama gli artt. 86 e 87 del codice dei contratti pubblici ai soli fini della disciplina della verifica dell’anomalia (punto 8.1.2., pag. 6);

- posta l’assenza di un vincolo derivante dalla normativa primaria o dalla normativa speciale di gara, deve ritenersi che l’amministrazione abbia correttamente consentito all’impresa prima classificata, attraverso l’esplicazione di un’obbligatoria cooperazione istruttoria, l’indicazione degli oneri di sicurezza evincibili, attraverso un’operazione di scomputo, dall’offerta economica (cfr., sull’illegittimità dell’esclusione dalla gara ove il bando non abbia previsto l’obbligo di specificazione degli oneri nella disciplina di gara, Cons. Stato, sez. V, 16 maggio 2014, n. 2517)”.

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 3291 del 2014

Il curatore fallimentare non può essere destinatario dell’ordinanza di rimozione dei rifiuti

03 Lug 2014
3 Luglio 2014

Nel post del 16.05.2014 si ricordava che la giurisprudenza maggioritaria nega che il curatore fallimentare, di regola, possa essere destinatario delle ordinanze di rimozione dei rifiuti.

 Questo principio è stato di recente ribadito anche dal Consiglio di Sato, sez. V, nella sentenza del 30 giugno 2014 n. 3274 secondo cui: “2a La Sezione, dato subito atto che è pacifico che il Fallimento non sia stato autorizzato, nella specie, alla prosecuzione dell’attività della società fallita, sul thema decidendum non può non richiamarsi al proprio precedente, motivato pronunciamento di cui alla decisione n. 4328 del 29 luglio 2003.

“12 La questione da esaminare … consiste nello stabilire se la curatela fallimentare possa essere destinataria di ordinanze sindacali dirette alla bonifica di siti inquinati, per effetto del precedente comportamento omissivo o commissivo dell'impresa fallita.

13 Al riguardo, il comune sostiene che la responsabilità del fallimento deriva dalla inottemperanza ai precedenti provvedimenti adottati nei confronti della società (…).

14 Inoltre, l'amministrazione espone che le "migliaia di tonnellate dei pneumatici inquinanti", oggetto dell'ordinanza impugnata, sono uscite dalla disponibilitĂ  della societĂ  fallita, entrando a far parte della massa fallimentare, gestita ed amministrata dal curatore.

15 In tal senso, secondo l'appellante, si pone un orientamento giurisprudenziale, in forza del quale l'adempimento dell'obbligo di smaltimento dei rifiuti grava sulla curatela fallimentare (TAR Toscana, Prima Sezione, 3 marzo 1993, n. 196; Tar Toscana, Seconda Sezione, 28 aprile 2000, n. 780), poiché la disponibilità dei beni, anche di quelli classificati come rifiuti nocivi, entragiuridicamente nella titolarità del curatore e conseguentemente con essa anche il dovere di rimuoverli in applicazione delle leggi vigenti.

16 In termini più generali, il comune sostiene che il fallimento subentra negli obblighi facenti capo all'impresa fallita e, quindi, è tenuto all'adempimento dei doveri derivanti dall'accertata responsabilità della stessa impresa.

17 A tal fine, il comune appellante richiama, fra l'altro, le disposizioni della legge fallimentare riguardanti la prosecuzione dei contratti facenti capo all'impresa fallita.

18 Nessuno degli argomenti proposti è persuasivo.

19 In primo luogo, proprio l'amministrazione comunale evidenzia che l'ordinanza sindacale è rivolta al fallimento in conseguenza dell'inottemperanza dell'impresa ad un precedente provvedimento. In tal modo, si evidenzia l'estraneità della curatela fallimentare alla determinazione degli inconvenienti sanitari riscontrati nell'area.

20 In questo senso, si pone, del resto, anche una parte della giurisprudenza amministrativa di primo grado (TAR Toscana, Sezione Terza, 1 agosto 2001, n. 1318), la quale evidenzia l'assenza di unacorresponsabilitĂ  del fallimento, anche meramente omissiva, in relazione alle condotte poste in essere dall'impresa fallita.

21 In secondo luogo, il riferimento alla disponibilità giuridica degli oggetti, qualificati dal comune come rifiuti inquinanti, non è sufficiente per imporre l'adempimento di un obbligo gravante sull'impresa fallita.

Il potere di disporre dei beni fallimentari (secondo le particolari regole della procedura concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato) non comporta necessariamente il dovere di adottare particolari comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti.

22 In terzo luogo, poi, proprio il richiamo alla disciplina del fallimento e della successione nei contratti evidenzia che la curatela fallimentare non subentra negli obblighi piĂą strettamente correlati alla responsabilitĂ  dell'imprenditore fallito.

Non assume alcun rilievo la disposizione contenuta nell'art. 1576 del codice civile, poiché l'obbligo di mantenimento della cosa in buono stato locativo riguarda i rapporti tra conduttore e locatore e non si riverbera, direttamente, sui doveri fissati da disposizioni dirette ad altro scopo.

23 Si deve aggiungere, poi, che il fallimento non è stato autorizzato a proseguire l'attività precedentemente svolta dall'impresa fallita. Pertanto, l'obbligo di bonifica del sito non potrebbe essere nemmeno collegato allo svolgimento di operazioni potenzialmente inquinanti.

24 In definitiva, quindi, l'appello deve essere rigettato” (C.d.S., Sez. V, n. 4328/2003 cit.).

La Sezione ha ribadito questa chiara impostazione con la successiva decisione n. 3885 del 16 giugno 2009.

La nuova pronuncia, nel convalidare, sulla scia del riferito precedente giurisprudenziale, l’atto dell’Amministrazione che in un caso simile aveva escluso la legittimazione passiva del curatore, ha puntualizzato che la soluzione opposta “determinerebbe un sovvertimento del principio “chi inquina paga" scaricando i costi sui creditori che non presentano alcun collegamento con l'inquinamento”.

2b Né l’impostazione così ribadita potrebbe essere ribaltata in ragione del disposto dell’art. 192, comma 4, del d.lgs. n. 152 del 2006.

Questo recita: “Qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni.”

Ai fini di un’eventuale applicazione della norma appena trascritta si pone la questione di stabilire se il Fallimento della MARCONI possa essere considerato alla stregua di un soggetto “subentrato nei diritti” della società fallita.

Orbene, il Fallimento non può essere reputato un “subentrante”, ossia un successore, dell’impresa sottoposta alla procedura fallimentare.

La società dichiarata fallita, invero, conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio: solo, ne perde la facoltà di disposizione, pur sotto pena di inefficacia solo relativa dei suoi atti, subendo la caratteristica vicenda dello spossessamento (art. 42 R.D. n. 267/1942 : “La sentenza che dichiara il fallimento, priva dalla sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento”; art. 44: “Tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori”).

Correlativamente, il Fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli organi della procedura (art. 31 R.D. n. 267/1942: “Il curatore ha l'amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell'ambito delle funzioni ad esso attribuite”).

Il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (cfr. l’art. 72 R.D. n. 267/1942), in via generale “non è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge” (Cassazione civile, sez. I, 23/06/1980, n. 3926).

PiĂą ampiamente, la Suprema Corte (sez. I, 14 settembre 1991, n. 9605) ha difatti osservato quanto segue:

“Il fatto che alla curatela sia affidata l'amministrazione del patrimonio del fallito, per fini conservativi predisposti alla liquidazione dell'attivo ed alla soddisfazione paritetica dei creditori, non comporta affatto che sul curatore incomba l'adempimento di obblighi facenti carico originariamente all'imprenditore, ancorché relativi a rapporti tuttavia pendenti all'inizio della procedura concorsuale. Al curatore competono gli adempimenti che la legge (sia esso il R.D. 16-3-1942 n.. 267, siano esse leggi speciali) gli attribuisce e tra essi non è ravvisabile alcun obbligo generale di subentro nelle situazioni giuridiche passive di cui era onerato il fallito. … Poiché in linea generale, come ricordato, il curatore, nell'espletamento della pubblica funzione, non si pone come successore o sostituto necessario del fallito, su di lui non incombono né gli obblighi dal fallito inadempiuti volontariamente o per colpa, né quelli che lo stesso non sia stato in grado di adempiere a causa dell'inizio della procedura concorsuale, ancorché la scadenza di adempimento avvenga in periodo temporale in cui lo stesso curatore possa qualificarsi come datore di lavoro nei confronti degli stessi dipendenti, o di alcuni di essi.”.

Per quanto esposto, dunque, nei confronti del Fallimento non è ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo potrebbe far scattare il meccanismo estensivo, previsto dall’art. 194, comma 4, d.lgs. cit., della legittimazione passiva rispetto agli obblighi di ripristino che l’articolo stesso pone in prima battuta a carico del responsabile e del proprietario versante in dolo o colpa”.

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 3274 del 2014

Il vincolo assoluto di inedificabilitĂ  sopravvenuto all’edificazione rende l’opera condonabile solo col parere favorevole dell’autoritĂ  preposta alla tutela

02 Lug 2014
2 Luglio 2014

Segnaliamo sulla questione la sentenza del TAR Veneto n. 769 del 2014: "Il ricorso principale è fondato in relazione al prospettato difetto di motivazione dei provvedimenti impugnati. Infatti, sia il parere negativo espresso dalla Soprintendenza, sia il successivo diniego del Comune, si basano sulla semplice constatazione per cui le opere oggetto di domanda di sanatoria sarebbero in contrasto con la prescrizione d’ inedificabilità assoluta recata dal D.M. 29 maggio 1990, che aveva apposto sull’area interessata dai lavori un vincolo di tutela indiretta ai sensi della L. n. 1089/1939; vincolo sopravvenuto rispetto all’epoca di realizzazione delle opere ed alla conseguente domanda di sanatoria. Occorre premettere che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza sul punto, anche in caso di vincolo successivo alla realizzazione dell'opera, è comunque necessario il parere dell'autorità preposta alla gestione del vincolo, in quanto la compatibilità dell'opera con il contesto ambientale deve essere valutata con riferimento al momento in cui deve essere esaminata la domanda di sanatoria (Cons. Stato Sez. V 22/12/94 n. 1574; Cons. Stato A.P. 22/7/99 n. 20; Cons. Stato Sez. VI 22/8/03 n. 4765; ecc.).  La giurisprudenza ha, peraltro, precisato che, nel caso di vincolo assoluto di inedificabilità, lo stesso non può considerarsi del tutto inesistente per il solo fatto che sia sopravvenuto all'edificazione (e ritenere quindi che l'abuso sia sanabile solo perché l'art. 33 comma 1 della L. n. 47 del 1985 si riferisce ai vincoli di inedificabilità assoluta imposti prima dell'esecuzione delle opere), in questi casi deve essere applicato lo stesso regime indicato nella previsione generale di cui all'art. 32 comma 1 della L. n. 47 del 1985, che subordina il rilascio della concessione in sanatoria per opere sottoposte a vincolo, al parere favorevole dell'autorità preposta alla sua tutela (cfr. Cons. Stato A.P. n. 20/99). In pratica, il vincolo da assoluto diviene relativo, ed è necessario il rilascio del parere di conformità (cfr. da ultimo T.A.R. Lazio Roma Sez. II bis, Sent., 25-02-2014, n. 2207). Occorre però rilevare che, secondo la giurisprudenza, nel compiere il giudizio di compatibilità, l'amministrazione non può non tener conto delle prescrizioni recate dal vincolo stesso, così come accade nel caso di vincolo relativo sopravvenuto (Cons. Stato Sez. V 7/10/03 n. 5918), con l'effetto, quindi, di poter ritenere non sanabile il manufatto quando contrasti con le prescrizioni recate dal provvedimento di vincolo. Ne consegue, quanto alla motivazione del provvedimento della Soprintendenza in ipotesi di vincolo successivo, che il parere negativo al rilascio della sanatoria non può ritenersi atto vincolato, da adottarsi in via automatica solo per effetto dell'esistenza del vincolo di inedificabilità, dovendo la Soprintendenza svolgere i necessari  accertamenti in concreto per valutare la compatibilità del manufatto con il provvedimento di vincolo. In altre parole, in caso di vincolo sopravvenuto, l'accertamento della Soprintendenza deve essere concreto ed approfondito e nella motivazione dell'atto devono essere puntualmente indicate le ragioni per le quali la conservazione dell'intervento (conseguente al rilascio della sanatoria) sia incompatibile con i valori tutelati. Nel caso di specie, alla luce dei principi che precedono, la motivazione addotta nel parere richiamato nel provvedimento di diniego di sanatoria è palesemente generica, atteso che si limita a dedurre il contrasto delle opere con la prescrizione d’inedificabilità assoluta indicata nel D.M. 29-5-1990, senza tuttavia indicare in modo puntuale i profili concreti sulla base dei quali è stata ritenuta l'incompatibilità del manufatto abusivo con il contesto vincolato".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 769 del 2014

Espropriazione e giurisdizione

02 Lug 2014
2 Luglio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 24 giugno 2014 n. 913, si occupa di numerose questioni relative alla tematica del risarcimento dei danni connessi ad una (illegittima) procedura espropriativa.

Innanzitutto chiarisce quanto c’è la competenza dell’organo amministravo: “Quanto alla giurisdizione, va osservato che mentre le controversie risarcitorie per il danno da occupazione appropriativa iniziate in periodo antecedente al 1° luglio 1998 rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario alla stregua del criterio di riparto diritti soggettivi/interessi legittimi (così come le stesse controversie iniziate nel periodo dal 1° luglio 1998 al 10 agosto 2000, data di entrata in vigore della legge n. 205/2000, per effetto della sentenza n. 281 del 2004 della Corte costituzionale che, ravvisando nell’art. 34 del DLgs n. 80 del 1998 anteriormente alla riscrittura effettuata con l’art. 7 della legge n. 205 un eccesso di delega, ha dichiarato l'incostituzionalità delle nuove ipotesi di giurisdizione esclusiva), sono invece attribuite alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie risarcitorie per il danno sopportato dalla parte privata in conseguenza dello spossessamento dell'area di sua proprietà iniziate dal 10 agosto 2000, data di entrata in vigore dell’art. 34 del DLgs n. 80/1998, come riformulato dall’art. 7 della legge n. 205/2000, ma non perchè la dichiarazione di pubblica utilità sia di per sè idonea ad affievolire il diritto di proprietà (l'occupazione e la trasformazione del suolo in assenza di decreto di espropriazione comporta lesione del diritto soggettivo), ma perchè ricomprese nella giurisdizione esclusiva in materia urbanistico-edilizia (l'esistenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità, mediante il riferimento, sia pure indiretto, al potere espropriativo, vale semplicemente a giustificare la legittimità costituzionale della creazione di una nuova ipotesi di giurisdizione esclusiva): la stessa giurisdizione, peraltro, è attribuita dall’art. 53 del DPR n. 327 del 2001, se la dichiarazione di pubblica utilità sia intervenuta dal 1° luglio 2003, data di entrata in vigore del TU sulle espropriazioni (cfr., da ultimo, SS.UU. 17.2.2014 n. 3660)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 913 del 2014

Espropriazione e iter ablatorio

02 Lug 2014
2 Luglio 2014

Nella sentenza n. 913/2014 i Giudici veneti si soffermano sull’iter della procedura espropriativa: “Ciò precisato, deve a questo punto verificarsi se sussistono i presupposti per il risarcimento del danno, se cioè le aree di proprietà dei ricorrenti siano effettivamente state illegittimamente occupate dal Comune ed altrettanto illegittimamente asservite alla realizzazione di dell’opera pubblica.

La risposta, alla luce della consecuzione temporale degli atti della procedura espropriativa, non può che essere affermativa.

3.1.- Premesso, invero, che la dichiarazione della pubblica utilità è l'atto autoritativo che fa emergere il potere pubblicistico in rapporto al bene privato e costituisce al tempo stesso origine funzionale della successiva attività giuridica e materiale di utilizzazione dello stesso per scopi pubblici previamente individuati, il decreto di esproprio deve essere emanato entro il termine di scadenza di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità (art. 13, u.c. della legge n. 2359 del 1865), termine che può essere prorogato in caso di forza maggiore o per altre ragioni indipendenti dalla volontà dei concessionari (art. 13 cit., II comma): nel caso di specie, entro cinque anni dalla data di esecutività della DGC 17.11.1988 n. 4244 (cfr. la delibera stessa) o, quanto meno – versandosi in materia di “realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria” (in tali categorie è certamente riconducibile la costruzione dei previsti tratti stradali) - dalla data di immissione nel possesso, atteso che nella specie trova applicazione la specifica disciplina recata dalla legge n. 865/1971 (cfr. gli artt. 9 e 20, vigenti all’epoca dei fatti) che, appunto, aggancia espressamente la conclusione del procedimento ablatorio al diverso termine di adozione dell’atto che verbalizza l’immissione in possesso dell’immobile oggetto di occupazione (cfr. CdS, IV, 4.2.2014 n. 495).

3.2.- Il termine previsto per la conclusione della procedura ablatoria, coincidente con la data di adozione del provvedimento che pronuncia l’esproprio, assume i connotati della perentorietà, di guisa che l’inutile decorso del termine “de quo” comporta la inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità e la illegittimità dell’intera procedura espropriativa per cattivo esercizio del potere ablatorio da parte della PA.

Orbene, nel caso di specie, ancorchè si computi il termine di cinque anni dall’immissione del Comune nel possesso dell’area di cui al Fg. 263, mapp. 51/p, avvenuta in data 13.6.1989 e si tenga conto che il predetto termine è stato prorogato (ex lege, giusta l’art. 22 della legge n. 158/1991) per il tempo di due anni, ebbene, anche così il decreto di esproprio risulta adottato (il 15.10.1996) oltre il termine complessivo di sette anni dal “dies a quo” (13.6.1989).

Con conseguente perdita di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità e conseguente patologia dell’intero procedimento”.

 Chiarito ciò i Giudici giungono ad affermare che, se questo iter procedimentale non viene rispettato, non vi può esservi nemmeno la c.d. occupazione acquisitiva dell’area perché: “3.3.- Allo stato, dunque, va osservato che i ricorrenti conservano tutt’ora la titolarità delle predette aree in quanto la perdurante occupazione delle stesse, pur asservite alla realizzata opera pubblica, continua ad essere “sine titulo” e si caratterizza come fatto illecito permanente (cfr. Cass. civ., I, 21.6.2010 n. 14940).

In assenza, infatti, di un formale atto traslativo di natura privatistica ovvero di un atto legittimo di natura ablatoria (la c.d. “acquisizione sanante” prevista dall’art. 42-bis del DPR n. 327/2001), l’Amministrazione non può acquistare a titolo originario la proprietà di un’area altrui, pur quando su di essa abbia realizzato in tutto o in parte un’opera pubblica: una tale acquisizione, invero, contrasterebbe palesemente con la Convenzione europea sui diritti dell’uomo che ha una diretta rilevanza nell’ordinamento interno, poiché per l’art. 117, I comma della Costituzione le leggi devono rispettare i "vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario". Principio, questo, ulteriormente rafforzato dalla nuova formulazione dell’art. 6 del Trattato dell’Unione Europea (modificato dal Trattato di Lisbona) che prevede che "l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali" (II comma) e che "i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali" (III comma).

Donde l’assoluta impossibilità di ricorso alla “occupazione acquisitiva” o ad istituti analoghi.

Nel caso, pertanto, in cui l’Amministrazione decidesse di restituire le aree, anziché di acquisirle (negozialmente o autoritativamente) pagandone il corrispettivo, non farebbe altro che far cessare l’illecito permanente causativo del danno, fermo restando l’obbligo del risarcimento per il periodo di occupazione abusiva sino al momento della restituzione.

In mancanza, dunque, di un apposito atto negoziale o autoritativo la condotta dell'ente pubblico occupante continua a mantenere i connotati di illiceità in quanto ingiustificatamente lesiva del diritto di proprietà che permane in capo ai privati proprietari i quali, entro il termine generale dell'usucapione ventennale, possono agire per la restituzione del bene o per la cessione bonaria”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 913 del 2014

Espropriazione e domanda risarcitoria

02 Lug 2014
2 Luglio 2014

Il T.A.R. Veneto, nella sentenza n. 913/2013 chiarisce che, in materia di esproprio, non è sempre necessario chiedere l’annullamento degli atti ablatori, essendo sufficiente e avanzare anche una richiesta risarcitoria: “Acclarata, dunque, la giurisdizione dell’intestato Tribunale, va ora sottolineato – ai fini dell’ammissibilità dell’istanza risarcitoria degli odierni ricorrenti, che non avevano previamente impugnato gli atti della procedura espropriativa - che anche prima dell'entrata in vigore dell'art. 30 del DLgs n. 104/2010 (che ha espressamente sancito l'autonomia, sul versante processuale, della domanda di risarcimento rispetto al rimedio impugnatorio) poteva essere chiesto innanzi al giudice amministrativo il risarcimento del danno senza la preventiva impugnazione del provvedimento ritenuto illegittimo e dannoso (cfr., ex pluribus, CdS, Ap, 23.3.2011 n. 3), purché entro il termine prescrizionale di cinque anni (cfr. CdS, IV, 6.12.2011 n. 6403): il principio della non necessità della pregiudiziale impugnativa del provvedimento amministrativo era stato già affermato, infatti, dalle Sezioni Unite della Cassazione con riferimento al sistema normativo conseguente alla legge n. 205 del 2000 (cfr. SS.UU. 16.12.2010 n. 25395)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 913 del 2014

Espropriazione e quantificazione del danno

02 Lug 2014
2 Luglio 2014

Infine, nella sentenza n. 913/2014 il Collegio si occupa della quantificazione del danno collegata alla mancata fruizione del bene oggetto di esproprio stabilendo che: “Venendo al merito della illegittima, perdurante occupazione del bene, appare evidente la sussistenza, nel caso in esame, di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità civile invocata dalla parte ricorrente nella sua richiesta di risarcimento dei danni, atteso il grave inadempimento dell'Amministrazione, responsabile della sottratta disponibilità dei beni e del mancato ristoro al proprietario, donde la ricorrenza di tutti gli estremi previsti dall'art. 2043 c.c. (comportamento omissivo, colpa dell'Ente procedente, danno ingiusto e nesso di causalità) in presenza dei quali è possibile affermare la responsabilità extracontrattuale per fatto illecito delle resistenti, consistente, per l'appunto, nella suindicata sottrazione abusiva della disponibilità dei beni.

La qualificazione della condotta della PA in termini di illecito civile impone, quindi, l’individuazione di rimedi a tutela del privato coerenti coi principi di cui alla disciplina generale prevista dagli artt. 2043 segg. c.c.

Ed allora l’Amministrazione dovrà risarcire il danno facendo cessare la situazione di permanente, illegittima occupazione (recte: sottrazione) anzitutto in forma specifica, provvedendo alla restituzione al legittimo proprietario dei terreni utilizzati per la realizzazione dell’opera pubblica opportunamente rimessi in pristino (e, naturalmente, corrispondendo l’indennizzo per il periodo di abusiva occupazione).

3.6.- La definizione della richiesta risarcitoria implica, pertanto, un passaggio intermedio consistente nell'assegnazione di un termine all'Amministrazione perché definisca la sorte della titolarità dei beni illecitamente appresi, cui potrà seguire, ma in posizione inevitabilmente subordinata, la condanna risarcitoria secondo il criterio generale ed esaustivo previsto dall’art. 2043 c.c.

Termine durante il quale l’Amministrazione, qualora ritenesse eccessivamente oneroso il risarcimento in forma specifica, potrebbe optare per l’acquisizione dei beni avvalendosi dell’art. 42-bis del DPR n. 327/2001 corrispondendo il previsto indennizzo per il pregiudizio patrimoniale (determinato in misura corrispondente al loro valore venale: cfr. il III comma) e non patrimoniale (liquidato forfetariamente nella misura del dieci per cento del valore venale: cfr. il I comma), fermo restando il risarcimento per il periodo di occupazione senza titolo (da calcolarsi, in difetto della prova di un maggior danno, nella misura del cinque per cento annuo sul medesimo valore venale: cfr. il III comma).

4.- Su tali premesse, pertanto, in ordine alla quantificazione del danno il Collegio ritiene opportuno fare ricorso al meccanismo di cui all'art. 34, IV comma del DLgs n. 104/2010, in base al quale l'Amministrazione - fatta salva l'ipotesi che essa decida di restituire le aree apprese - dovrĂ  attenersi nel prosieguo alla seguente regola d'azione:

a) entro il termine di novanta giorni (decorrente dalla comunicazione in via amministrativa della presente decisione o dalla notificazione, ove anteriore) l’Amministrazione da una parte ed il ricorrente dall’altra potranno addivenire ad un accordo con effetti traslativi in favore dell'Amministrazione della proprietà delle aree definitivamente occupate (e non restituite), mentre al ricorrente verrà corrisposta la somma specificamente individuata nell'accordo stesso, somma che dovrà essere determinata in base al valore venale dei terreni, nel rispetto del principio del ristoro integrale del danno subito e comprensiva, altresì, del danno per il periodo della loro mancata utilizzazione nella forma degli interessi corrispettivi sul capitale rivalutato: essa, ovviamente, andrà depurata di ogni corresponsione di somme medio tempore eseguita in favore della parte ricorrente, a titolo indennitario, in relazione alla vicenda ablatoria per cui è causa;

b) ove siffatto accordo non sia raggiunto nel termine indicato l’Amministrazione, entro i successivi novanta giorni, dovrà emettere formale provvedimento con cui disporrà la restituzione delle aree a suo tempo occupate, opportunamente ripristinate, impregiudicate le questioni consequenziali in ordine al ristoro relativo all’occupazione illegittima, che dovrà essere regolato secondo quanto disposto al punto sub 3.6: in alternativa, invero, potrà acquisire le aree in questione ai sensi dell’art. 42-bis del DPR n. 327/2001 corrispondendo gli indennizzi per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, nonchè il risarcimento per il periodo di occupazione senza titolo nelle misure ivi stabilite;

c) qualora le parti in causa non concludano alcun accordo e l’Amministrazione neppure adotti un atto formale di restituzione o di acquisizione delle aree in questione, decorsi i termini sopra indicati, parte ricorrente potrà chiedere all’intestato Tribunale l'esecuzione della presente sentenza per l'adozione delle misure consequenziali, con possibilità di nomina di un Commissario ad acta che provveda in luogo dell’Amministrazione inadempiente, riservata la trasmissione degli atti alla Corte dei Conti per le valutazioni di sua competenza”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 913 del 2014

Il Consiglio di Stato sulla prova della data in cui sono state realizzate le opere abusive

01 Lug 2014
1 Luglio 2014

Il Consiglio di Stato con la sentenza  del 15 luglio 2013 – Sezione V^ - n. 3844, in materia di prova sulla data in cui sono state realizzate le  opere abusive e sanatoria, ha  precisato il seguente orientamento.

La suddetta sezione del Consiglio di Stato ha rilevato che  la prova sulla realizzazione delle opere abusive entro una data prevista, grava sempre, come in precedenza evidenziato dal supremo consesso, sul richiedente la sanatoria, che può avvalersi, se non vi è contestazione, della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà.

La suddetta dichiarazione, prevista dall’art. 4 della L. n. 15/1968, ha attitudine certificativa e probatoria, fino a contraria risultanza, nei confronti della pubblica amministrazione in determinate attività e procedure amministrative, ma, in difetto di diversa , specifica, previsione di legge, nessun valore probatorio, neanche indiziario, può essere ad essa  attribuito nel procedimento caratterizzato, come nella fattispecie oggetto di esame del C.d.S., dal principio dell’onere della prova; atteso che la parte non può derivare elementi di prova a proprio favore, al fine del soddisfacimento del relativo onere, da proprie dichiarazioni (in particolare nel corso del giudizio ex art. 2697 c.c.).

La dichiarazione sostitutiva di notorietà dell’intervenuta ultimazione delle opere entro una certa data di scadenza è quindi di per sè potenzialmente idonea e sufficiente a dimostrare la data di ultimazione delle opere, ma non preclude all’Amministrazione, in sede di esame della stessa, la possibilità di raccogliere nel corso del procedimento elementi “ a contrario” e di pervenire a risultanze diverse.

A fronte di elementi di prova a disposizione dell’Amministrazione  che attestino il contrario, quali il rilievo aerofotogrammetrico, il responsabile dell’abuso è gravato dell’onere di provare, mediante  elementi certi ( quali fotografie aeree, fatture, sopralluoghi e così via) l’effettiva realizzazione dei  lavori entro il termine previsto dalla legge per poter usufruire del beneficio della sanatoria, non potendo limitarsi a contestare i dati in possesso dell’Amministrazione, senza fornire alcun elemento di prova a corredo della propria tesi, in quanto l’Amministrazione, in assenza di elementi di prova contrari, non può che respingere la domanda di sanatoria.

Poiché l’attendibilità del rilievo aerofotogrammetrico (specie se risalente) può essere condizionata da una molteplicità di fattori ( tecnologici, come la maggiore o minore risoluzione, ambientali, come  fenomeni di rifrazione, la presenza di vegetazione  che può schermare le costruzioni, etc.), deve ritenersi ammissibile la prova contraria, che deve essere però concreta e rilevante, senza che possa  ritenersi sufficiente per contrastare dette risultanze il mero disconoscimento delle stesse.

Nel caso all’esame del C.d.S. risultava dalla aerofotogrammetria del 19 agosto 1994 che non era ancora stato realizzato il manufatto di cui si trattava e da un sopralluogo dei Vigili Urbani del Comune interessato, effettuato nel successivo mese di novembre 1994, risultava che sull’area oggetto del contenzioso era stato  realizzato il fabbricato oggetto di condono completato al grezzo con in corso i lavori di installazione  dell’impianto elettrico ed idrico.

A fronte di tutte le risultanze idonee a smentire la dichiarazione sostitutiva ex art. 4 della L. n. 15/1968 presenta dalla appellante, questa, che a tanto era tenuta incombendo su di essa  l’onere della prova, non ha fornito prove contrarie idonee a dimostrare la impossibilità di giuridico apprezzamento, essendosi limitata a ipotizzare fattori che avrebbero potuto rendere non visibile il manufatto in questione nell’aerofotogrammetria di cui si trattava (come la vegetazione , ecc.) senza fornire alcuna valida e concreta prova contraria, limitandosi a sostenere che l’Amministrazione  non era stata in grado di dimostrare il proprio assunto.

Il C.d.S., come condivisibilmente ritenuto dal primo Giudice, ha rilevato che non era invero sufficiente a smentire le risultanze acquisite dal Comune  il documento a tal fine prodotto dalla appellante, perché consistente in una mera rappresentazione di curve altimetriche.

In conclusione , quindi, il C.d.S., in assenza di adduzioni da parte dell’appellante di prova, mediante elementi  certi, dell’epoca di realizzazione del manufatto in questione diversa da quella risultante all’Amministrazione, ha ritenuto che doveva essere ritenuta pienamente legittima la reiezione della domanda di sanatoria  impugnata con il ricorso introduttivo del giudizio in esame.

avv. Gianmartino Fontana

Sentenza C.d.S. n. 3844 del 2013

Il preavviso di rigetto ex art 10 bis L. 241/90 non si applica alla SCIA

01 Lug 2014
1 Luglio 2014

Lo conferma la sentenza del TAR Veneto n.  875 del 2014.

Si legge nella sentenza: "Premesso che con SCIA del 26.2.2014, presentata ai sensi dell’art. 87-bis del D.lgs. 259/2003, la società istante ha inteso comunicare all’amministrazione comunale la volontà di installare su un impianto già esistente (in via Piraghetto, Mestre) una stazione radiobase per conto del gestore WIND; che con il provvedimento impugnato, il Comune ha diffidato l’esecuzione dei lavori segnalati in quanto l’impianto non avrebbe  osservato le distanze dai confini e dai fabbricati, così come previste dall’art. 50 del Regolamento edilizio comunale; che, inoltre, come osservato nel medesimo atto, non risulta fornita la prova dell’avvenuta richiesta di parere all’ARPAV; ritenuto che, per quanto riguarda il primo motivo, con il quale è stata denunciata la violazione dell’art. 10-bis della legge 241/90, la censura sia destituita di fondamento attesa la particolare natura della SCIA; invero, come già ritenuto con riguardo alla DIA, con tale mezzo si persegue l’obiettivo di assicurare una semplificazione procedimentale che consente al privato di conseguire un titolo abilitativo a seguito del decorso di un termine (30 giorni, così come previsto anche dall’art. 87- bis) dalla presentazione della segnalazione; proprio in considerazione della peculiare natura dell’istituto, nell’ipotesi in cui l’amministrazione assuma l’atto di diffida ad eseguire l’intervento segnalato, a tale diffida-ordine non si applica l'istituto del c.d. preavviso di rigetto (non trattandosi di rigetto in senso proprio). L'istituto del preavviso di rigetto trova infatti applicazione solo nell'ipotesi di adozione di un provvedimento negativo sull'istanza (di provvedimento positivo) presentata dal privato e non nel caso di presentazione di denunzia di inizio di attività e successivo ordine o diffida a non iniziare i lavori. Pertanto, è inapplicabile alla Dia (di cui al D.P.R. n. 380 del 2001) e quindi , per le medesime ragioni, anche alla SCIA, l'art. 10 bis, l. n. 241 del 1990, atteso altresì che l'onere del preavviso di diniego è incompatibile con il termine ristretto entro il quale l'amministrazione deve provvedere, non essendo fra l'altro previste parentesi procedimentali produttive di sospensione del termine stesso".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 875 del 2014

Gli impianti di telecomunicazione sono opere di urbanizzazione primaria non soggetti al rispetto delle distanze edilizie

01 Lug 2014
1 Luglio 2014

Lo precisa la sentenza del TAR Veneto n. 875 del 2014, dove si legge che: "il Collegio non può non osservare come, per espressa previsione normativa, gli impianti di telecomunicazione siano stati assimilati alle opere di urbanizzazione primaria e come tali non risultino soggetti, come avviene per le costruzioni, al rispetto delle distanze dettate a fini edilizi dai Comuni. Non può, infatti, essere ignorato il costante orientamento interpretativo per cui l’espressa assimilazione normativa fra le stazioni radio base e le opere di urbanizzazione primaria (comma 3 dell’art. 86, d.lgs. 259, cit.)  rende l’installazione di tali manufatti compatibile con qualunque destinazione di zona; a tale riguardo è stato altresì precisato come l’attività volta all’installazione degli impianti in parola resta assoggettata alle sole prescrizioni di cui all’art. 87 del d.lgs. 259 del 2003 e non anche alle previsioni generali di cui all’art. 3 del d.P.R. 380 del 2001. In tal modo, come ricordato da C.d.S., VI, n. 5044/2008, “dal punto di vista urbanistico, i Comuni possono incidere sulla collocazione delle antenne radio base, a condizione che la regolamentazione introdotta non abbia l’effetto di impedire in modo indiscriminato la loro installazione nell’ambito del territorio comunale, ovvero non la assoggetti a limiti non adeguati al fine della salvaguardia dei concomitanti interessi oggetto di tutela; la disciplina comunale non può assimilare tout-court gli impianti in questione agli edifici sotto il profilo edilizio - urbanistico (ad es.: assoggettando i primi ai limiti di altezza o in tema di distanze propri dei secondi); la medesima disciplina non può introdurre limiti procedurali ulteriori rispetto a quelli previsti dall’art. 87 del Codice delle comunicazioni elettroniche.” Ne consegue, alla stregua di tale indirizzo, che la diffida impugnata, nella parte in cui pone a fondamento del proprio divieto il mancato rispetto delle distanze dagli edifici e dai confini, nonché la relativa previsione regolamentare sul punto specifico, risultano in contrasto con i profili interpretativi sopra ricordati".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 875 del 2014

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