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Autorizzazione commerciale e subingresso

11 Lug 2014
11 Luglio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 01 luglio 2014 n. 948 si occupa delle autorizzazioni commerciali su aree pubbliche affermando che il subingresso deve essere presentato entro il termine decadenziale di sessanta giorni previsto dall’art. 6 della L. R. Veneto n. 10/2001: “Con il ricorso in epigrafe viene impugnato il provvedimento con cui il comune ha pronunciato la decadenza del diritto di subentro e reintestazione dell'attività commerciale di un'autorizzazione per il commercio su aree pubbliche su posteggio numero 159 e 160, nonché gli articoli 7 e 8 del regolamento per il commercio su aree pubbliche del comune, nella parte in cui prevede che il subingresso e la reintestazione delle autorizzazioni al commercio siano sottoposte al regime autorizzatorio e al termine decadenziale di 60 giorni per la presentazione delle relative domande .

La ricorrente, titolare del posteggio ha presentato domanda di reintestazione delle autorizzazioni ; tuttavia il comune, ritenendo applicabile il regime autorizzatorio vigente nella regione Veneto, prima delle modifiche introdotte in materia di semplificazione amministrativa, ha comunicato a entrambi i soggetti richiedenti la decadenza rispettivamente dal diritto di subentro e dalla reintestazione in conseguenza della presentazione avvenuta oltre la data di 60 giorni prevista dall'articolo sei della legge regionale Veneto numero 10 del 2001 e dagli articoli 7. e 8 del regolamento comunale del commercio su aree pubbliche.

Sostiene la ricorrente che le disposizioni in parola confliggerebbero con la previsione contenuta nell'articolo 19 della legge 241 del 1990 come modificato per effetto del decreto-legge numero 78/ 2010 convertito in legge 122/2010 che ha introdotto il nuovo istituto della segnalazione certificata di inizio attività, sì che ,anche sulla scorta di quanto avviene in altre regioni, il subingresso non potrebbe essere subordinato a una domanda da presentarsi entro un certo termine ma sarebbe perfezionato esclusivamente con la segnalazione certificata di inizio attività.( la regione Lombardia per esempio ha disciplinato la materia in questione prevedendo il termine di quattro mesi per segnalare il subingresso secondo quanto disposto dall'articolo 25 della legge regionale numero sei del 2010.

Si è costituito il comune contro deducendo puntualmente.

Non avendo la regione Veneto disposto normativamente, la previsione di legge contestata con il ricorso in epigrafe pare legittima e trova riscontro anche nei regolamenti di altri comuni (confronta il regolamento del comune di Padova, che risulta approvato con delibera numero 73 2013, e che significativamente richiama il decreto legislativo numero 59/2010 vale a dire proprio il provvedimento che ha introdotto la segnalazione certificata di inizio attività, vale a dire la previsione che legittimerebbe secondo la ricorrente l'esercizio commerciale della medesima, non esistendo alcun limite temporale per la presentazione della SCIA. Prevede la norma del regolamento comunale di Padova, per esempio che “Il subentrante per atto tra vivi in possesso dei requisiti soggettivi di cui all’art. 71 del decreto legislativo 59/2010, può iniziare l’attività solamente dopo aver presentato la domanda di subingresso. La domanda deve essere presentata entro sessanta giorni dalla data di acquisto del titolo, pena la decadenza dal diritto di subingresso. La decadenza opera di diritto e il relativo avvio di procedimento è comunicato all’interessato e, in caso di gestione d’azienda, anche al titolare che ha affidato l’azienda,…..(cfr anche il comune di Treviso, per il quale è richiesta una domanda telematica e non la SCIA).

In fatto è incontestata la tardività, e pur essendo comprensibile quanto affermato dalla ricorrente, vale a dire la plausibilità della intempestività della domanda alla luce della condizione di extracomunitaria e di prevalente operatività commerciale in una regione come la Lombardia il cui termine è sostanzialmente doppio rispetto al Veneto, legittimandosi dunque per così dire una sorta di riconoscimento dell’errore scusabile, pur tuttavia il provvedimento risulta legittimo, con conseguente reiezione del ricorso”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 948 del 2014

Il piano casa deroga anche alla previsione urbanistica a verde privato

10 Lug 2014
10 Luglio 2014

Un soggetto aveva  presentato al Comune una istanza ai sensi della legge regionale n. 13/2011 (secondo Piano casa), al fine di ottenere il permesso di costruire, in ampliamento della propria casa di abitazione, un ulteriore appartamento da destinare a sua volta ad abitazione, ampliamento che sarebbe stato realizzato sull’area contermine, avente destinazione urbanistica F5 – Verde privato. Il Comune, dopo aver richiesto una serie di integrazioni documentali (debitamente eseguite dall’interessata), ha opposto il diniego, rilevando l’inaccoglibilità della richiesta in quanto la prima casa di  abitazione ricade in ZTO C1S/19 e l’ampliamento della stessa sarebbe avvenuto in un ambito, classificato come ZTO F5 (verde privato), nel quale è vietato ogni intervento, così concretando (sempre secondo il Comune) l’ipotesi di cui al l’art. 9, comma q), lettera c) della legge regionale n. 14/2009 e smi.  Secondo il Comune, la previsione urbanistica relativa all’area sulla quale sarebbe stato previsto l’ampliamento della prima casa di abitazione, darebbe luogo ad una particolare disciplina di protezione che, impedendo ogni intervento costruttivo – sia ex novo che in ampliamento – non renderebbe possibile nella specie l’applicazione della normativa regionale sul Piano Casa.

Il TAR Veneto, con la sentenza n. 877 ha, però, accolto il ricorso, smentendo la tesi del Comune.

Scrive il TAR: "Invero, non possono in alcun modo essere condivise le argomentazioni difensive svolte dall’amministrazione comunale, che pretende di far assurgere a vincolo di sostanziale protezione, così come richiamato dall’art,. 9, comma q), lettera c) della legge regionale, la sola previsione urbanistica dettata per l’area de qua delle vigenti n.t.a (art. 24). Infatti, detta previsione ha il solo valore di indicare per l’area de qua una determinata previsione urbanistica, assegnandole la relativa classificazione, ma detta previsione assume portata generale, come tale derogabile ai sensi e per gli effetti della normativa regionale sul Piano Casa, la quale, come noto, favorisce gli interventi di ampliamento della prima abitazione, anche in deroga alle previsioni contenute negli strumenti urbanistici comunali.  L’invocato regime di protezione non può quindi essere individuato nel caso di specie, tenuto conto altresì del costante insegnamento che individua tale eventualità con riferimento a singoli edifici, soggetti a specifici gradi di protezione in ragione del loro particolare pregio ovvero, sulla base di espressa e motivata previsione, con riferimento ad ambiti dotati di particolare pregio (ad esempio, sotto il profilo storico o paesaggistico). Poiché dette particolari condizioni non sussistono nel caso di specie, così come peraltro confermato dalla stessa amministrazione comunale, la quale con la delibera consiliare n. 50 del 29.11.2011 (mai revocata sul punto), ha espressamente ritenuto di escludere dagli interventi eseguibili in applicazione della normativa sul Piano Casa le zone F, eccezion fatta per le zone F5, risulta evidente l’illegittimità del diniego opposto. Né può valere l’assunto difensivo di parte resistente che – invocando il punto 1 della lettera A) dell’allegato alla delibera C.C. n. 50/2011 – intende escludere l’applicazione delle disposizioni ivi dettate alle prime case di abitazione, tenuto conto del fatto che comunque troverebbe applicazione, così come ivi parimenti disposto, la disciplina di cui alla L.r. 14/2009 e quindi dei medesimi principi sopra richiamati. Da ultimo, va altresì osservato come il richiamo alla diversa ipotesi di cui alla lettera d) del medesimo art.9, non solo non risulta conferente (non trattandosi di un vincolo di inedificabilità ai sensi dell’art. 33 della legge 47/85), ma soprattutto trattasi di un profilo che non è stato indicato a fondamento del diniego opposto e che, pertanto, costituisce un’inammissibile integrazione della motivazione". 

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 877 del 2014

La responsabilità del proprietario incolpevole circa lo smaltimento dei rifiuti abbandonati

10 Lug 2014
10 Luglio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 01 luglio 2014 n. 963 si occupa delle responsabilità connesse allo smaltimento dei rifiuti abbandonati.

Dopo aver affermato che, per imporre l’obbligo di rimozione anche al c.d. proprietario incolpevole (non autore dell’illecito) bisogna accertare almeno una sua forma di colpa e/o negligenza, giunge ad affermare che il proprietario, anche se locatore di un immobile, in ragione dei poteri e dei diritti che egli può esercitare sulla cosa locata, è ex se responsabile anche se non è l’autore materiale dell’illecito (e lo è magari il conduttore). Sul punto si legge che: “Passando all'esame delle critiche sostanziali rivolte ai provvedimenti impugnati, va ricordato che la legge stabilisce che, ferma restando l'applicazione delle sanzioni per l'abbandono, il deposito incontrollato o l'immissione, anche il proprietario del terreno può comunque essere obbligato, in solido con l'autore dell'illecito, a procedere al ripristino dello stato dei luoghi; ma occorre pur sempre che sia dimostrata almeno una sua colpa. Infatti, l’art. 14 della legge n.22/97 , vale a dire l’originaria formulazione della norma, ha escluso in radice la configurabilità di qualsiasi ipotesi di responsabilità propter rem…; perché l’ordinanza sia legittima occorre l’indicazione e l’accertamento di un comportamento doloso o colposo del destinatario dell’ordinanza nonché di un nesso causale fra tale comportamento e l’alterazione ambientale da rimuovere.

In altri termini, se da un lato l'obbligo di rimozione dei rifiuti e di rimessione in pristino incombe in primo luogo sull'autore dell'illecito, appare evidente che può essere chiamato ad adempiere anche il terzo proprietario del terreno se è ravvisabile almeno una sua colpa. In caso contrario, il sindaco ha comunque sempre il dovere di disporre la rimozione dei rifiuti e la rimessione in pristino, salva, ovviamente, la possibilità di rivalsa qualora, in futuro, si identificasse l'autore dell'illecito.

A proposito della colpa, peraltro, la giurisprudenza amministrativa ha precisato che “la condizione di colpa che, ai sensi dell'art. 14, d.lg. n. 22 del 1997, rende corresponsabile il proprietario di un fondo con gli autori materiali dell’abbandono non autorizzato di rifiuti - e consente al Comune di ingiungergli di provvedere al loro smaltimento, sotto pena di esecuzione in danno - consiste per lo più nella negligenza, dimostrata da una prolungata inerzia, incombendo allo stesso l'obbligo di adoperarsi, attraverso misure efficaci e non meramente simboliche, affinché siffatti episodi non vengano posti in essere e, comunque, abbiano a cessare (T.A.R. Friuli V.G. 29 settembre 2000, n. 692)”, ed ha anche evidenziato, che, oltre a questo aspetto temporale, era rilevante, per esempio, il fatto che “ il sito è ben circoscritto e quindi facilmente controllabile,anche perché è posto vicino al centro abitato”; aggiungendo che “spetta alla PA indicare i dati di fatto tali da dimostrare il comportamento doloso o colposo del proprietario .

Di certo, comunque, ”il dovere di diligenza che spetta al titolare di un fondo non può estendersi al punto di pretendere un’ininterrotta vigilanza diurna e notturna allo scopo di evitare che terzi si introducano nel fondo per abbandonare rifiuti. La richiesta di un impegno di tale entità travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media (o del buon padre di famiglia) che è alla base della nozione di colpa, quando questa è indicata in modo generico, come nella specie, senza ulteriori specificazioni..”

In altri termini, “la titolarità di un diritto di godimento o di quello dominicale non può comportare un generico dovere di “vigilanza attiva” in ordine al corretto uso da parte di ignoti di fondi aperti, al fine di evitare addebiti per illeciti altrui (cfr. T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, sez. II, n. 193/2004); né tanto meno, a tali fini, si potrebbe surrettiziamente imporre al proprietario di dotare di recinzione i fondi situati in luoghi poco frequentati, sia perché la chiusura del fondo costituisce, ai sensi dell’art. 841 cod. civ., una facoltà e non uno specifico obbligo per il proprietario e sia perché, in ogni caso, l’omessa recinzione non può essere considerata alla stregua di una condotta omissiva (con)causa di un eventuale danno ambientale commesso da terzi, dal momento che la chiusura del fondo mediante recinzione costituisce unicamente un mero deterrente contro eventuali scarichi abusivi operati da altri, ma ad essa non può certo riconoscersi una assoluta efficacia protettiva del sito, di talché non può ritenersi che l’eventuale mancanza di recinzione possa apportare un concreto contributo sotto il profilo causale al prodursi del danno da inquinamento (cfr. T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 3582/2005) .

Anzi, la Cassazione ha anche precisato che, comunque, “non è punibile e non può essere obbligato alla rimozione chi, avendo la disponibilità di un' area sulla quale altri abbiano abbandonato rifiuti, si limiti a non attivarsi perché questi vengano rimossi”.

Di converso, “è configurabile una responsabilità a titolo di colpa e conseguente obbligo di smaltimento di rifiuti e ripristino dei luoghi, a carico del proprietario di una area utilizzata dall'affittuario quale discarica abusiva di pneumatici, qualora sia a conoscenza di tale utilizzo e, con la propria negligenza, abbia contribuito ad aggravare la situazione.

Ciò premesso, dispone il richiamato l’art. 192 (divieto di abbandono) del D.Lgs. 3.4.2006, n. 152, concernente norme in materia ambientale, che chiunque violi “i divieti di cui ai commi 1 (abbandono e deposito incontrollato) e 2 (immissione di rifiuti) è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi, in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa.

Osserva in proposito il Collegio che, in base alla giurisprudenza amministrativa ormai consolidatasi sul punto, il proprietario dell’area è tenuto a provvedere allo smaltimento a condizione che ne sia dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori dell'illecito abbandono di rifiuti (per esempio per aver posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o colposo), e che è stato conseguentemente escluso che le norme riportate configurassero un’ipotesi di responsabilità oggettiva (cfr. C.d.S., sez. V, 25.1.2005, n. 136).

Nel caso in esame la responsabilità quantomeno a titolo di cooperazione colposa e tolleranza e agevolatrice viene riconosciuta da parte del provvedimento comunale in quanto la qualità di proprietario locatore conserva la disponibilità giuridica alla custodia del bene locato, tant'è vero che non è possibile compiere nel medesimo innovazioni interventi modifiche permanenti e stabili senza il consenso dello stesso, il quale quindi tramite questa via ne assume la responsabilità verso i terzi, consenso come ampiamente previsto nel contratto di locazione relativo alla clausola del potere del proprietario di ispezionare in qualunque momento i locali affittati.

Inoltre, seppure la ditta non fosse ricompresa fra le industrie insalubri, tuttavia l'attività galvanica esercitata risulta essere notoriamente a elevato impatto ambientale, per cui obblighi di vigilanza e controllo eccedenti quelli ordinari erano comunque predicabili, “secondo criteri di diligenza adeguati al grado di pericolosità insita nell'attività”, si afferma nel provvedimento, con valutazione che il Collegio ritiene immune da censura.

L’ordinanza afferma poi che il ricorrente sarebbe stato a conoscenza dello stato in cui versava il proprio immobile essendo inverosimile e poco credibile che il medesimo ne ignorasse lo stato, sia perché si tratterebbe di rifiuti in quantità notevole visibili e non occultati dal conduttore facilmente percepibili essendo di diversa tipologia e soprattutto perché all'esito dell'attività produttiva conosciuta e consentita dal proprietario in virtù appunto del rapporto locativo, sia perché appare inverosimile che per un decennio si sia disinteressato dello stato del proprio immobile e comunque tale disinteresse configurerebbe una grave condotta colpevole negligente, anche perché la vigilanza sarebbe stata di facile praticabilità essendo il medesimo residente a poca distanza da tale immobile”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 963 del 2014

Quando c’è la giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche?

10 Lug 2014
10 Luglio 2014

Il Consiglio di Stato, sez. V, nella sentenza del 07 luglio 2014 n. 3436 chiarisce in quali casi vi è la giurisdizione del Tribunale Superiore delle acque pubbliche: “Oggetto del giudizio è la questione se sussista o meno la giurisdizione amministrativa in merito alla impugnazione della deliberazione della Giunta Regionale della Basilicata n. 1650 del 30 novembre 2012, avente ad oggetto l'autorizzazione unica per la costruzione e l'esercizio dell’impianto per la produzione di energia elettrica da fonte idraulica di cui trattasi, delle opere connesse e delle infrastrutture indispensabili in agro del Comune di Maratea, nonché dell'atto di avvio del procedimento per l'apposizione del vincolo preordinato all'esproprio e della dichiarazione di pubblica utilità delle opere e degli atti del procedimento.

Va premesso che l'art. 133, comma 1, lett. b) ed f), del c.p.a., in tema di rapporti di concessione di beni pubblici ed in materia urbanistico-edilizia e di uso del territorio (incluso il fenomeno espropriativo), ha salvaguardato la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, regolata dalla previgente normativa, di cui all’art. 143, comma 1, lett. a), del r.d. n. 1775/1933.

Tale giurisdizione va estesa anche ai provvedimenti che, pur se promananti da autorità diverse da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche e concorrano, in concreto, a disciplinare la realizzazione, la localizzazione, la gestione e l'esercizio delle opere idrauliche (cfr. Cassazione civile, sez. un., 8 aprile 2009, n. 8509), ivi compresi pure i provvedimenti espropriativi o di occupazione d'urgenza delle aree occorrenti per la realizzazione dell'opera idraulica, oltre agli atti comunque influenti sulla sua localizzazione sul suo spostamento.

Tale principio rileva indipendentemente dalla ragione che abbia determinato l’adozione di detti provvedimenti, quindi anche se non connessi al regime delle acque e quindi anche se resi necessari dalla tutela dell'ambiente o di un bene artistico o da valutazioni tecniche in funzione della salvaguardia dell'incolumità pubblica o ancora da mere ragioni di opportunità amministrativa (cfr. Cassazione civile, Sez. Un., 12 maggio 2009, n. 10846; Cass., Sez. Un., 7 novembre 1997 n. 10934; Cass., Sez. Un., 27 aprile 2005 n. 8686; Cass. Sez. Un., 26 luglio 2002 n. 11099).

Pertanto può affermarsi che, mentre esulano dalla giurisdizione del Tribunale delle Acque (e rientrano in quella del giudice amministrativo) i provvedimenti incidenti sulla materia e sul regime delle acque pubbliche in via meramente strumentale ed indiretta, vi rientrino i provvedimenti di approvazione del progetto definitivo per la realizzazione di una centrale idroelettrica, previa V.I.A., gli atti concernenti la costituzione di una servitù coattiva, mediante procedura espropriativa, per il passaggio della condotta necessaria per la realizzazione dell'opera, nonché il relativo permesso di costruzione, atti tutti incidenti in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque pubbliche.

In particolare è stata ritenuta la sussistenza della giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche in caso di impugnativa di provvedimenti influenti sulla localizzazione dell'opera idraulica o sul suo spostamento, nonché sulla definizione delle sue caratteristiche e sulla sua realizzazione, nonché sui provvedimenti di occupazione ed espropriazione di opere necessarie per realizzare la condotta idraulica relativa alla costruzione di una centrale idroelettrica contestata dal titolare del fondo ove era previsto il transito interrato di una nuova condotta di adduzione finalizzata alla canalizzazione delle acque per il successivo sfruttamento idroelettrico (cfr. Cassazione civile, sez. un., 12 maggio 2009, n. 10846).

Sussiste pertanto la giurisdizione di legittimità di detto Tribunale, a norma dell'art. 143, comma 1, lett. a), del r.d. n. 1775 del 1933, oltre che con riguardo alle questioni investenti gli interessi pubblici connessi al regime delle acque strettamente inteso (demanialità delle acque, contenuto o limiti di una concessione di utenza, nonché questioni di carattere eminentemente tecnico relative alla distribuzione ed all'uso delle acque pubbliche ed ai diritti di derivazione o utilizzazione dell'utenza nei confronti della P.A.), ogni volta che siano impugnati provvedimenti amministrativi caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e alla realizzazione delle opere stesse, o a stabilire o modificare la localizzazione di esse o ad influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti (cfr. Cass. Civ., SS.UU., ord. 19 aprile 2013, n. 9534, 20 giugno 2012, n. 10148, 13 maggio 2008, n. 11848 e 21 giugno 2005, n. 13293),

Anche la giurisprudenza amministrativa ha affermato la sussistenza della giurisdizione di legittimità del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche sui ricorsi avverso i provvedimenti in materia di acque pubbliche, "allorquando i provvedimenti impugnati incidono direttamente ed immediatamente sulla materia delle acque, concorrendo in concreto a disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari ovvero a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e/o alla realizzazione delle opere stesse o a stabilirne e/o a modificare la localizzazione di esse o influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimento...Non rientrano, per contro, in tale speciale competenza giurisdizionale le controversie che hanno per oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque" (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 1 ottobre 2010, n. 7276; nello stesso senso: Sez. IV, 6 luglio 2009, n. 4306; Sez. V, 7 maggio 2008, n. 2091; Sez. V, 18 settembre 2006, n. 5442)”.

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 3436 del 2014

C’è l’obbligo di indicare le prestazioni del subappaltatore

10 Lug 2014
10 Luglio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 01 luglio 2014 n. 967 stabilisce quali informazioni la ditta, che si avvale di un subappaltatore, deve indicare: “che l’art. 118, II comma del DLgs n. 163/2006 sottopone l’affidamento in subappalto alla condizione, fra le altre, che i concorrenti all’atto dell’offerta abbiano indicato i lavori o le parti di opere ovvero i servizi e le forniture o parti di servizi e forniture che intendono subappaltare: onde, peraltro, evitare che l’aggiudicazione avvenga in favore di un soggetto pacificamente sprovvisto dei necessari requisiti di qualificazione (con il conseguente rischio per l’amministrazione procedente che l’appaltatore così designato non onori l’impegno assunto, rendendo necessaria la ripetizione della gara) va interpretata nel senso che la dichiarazione in questione deve contenere anche l’indicazione del subappaltatore, unitamente alla dimostrazione del possesso, in capo a costui, dei requisiti di qualificazione, ogniqualvolta il ricorso al subappalto si renda necessario in ragione del mancato autonomo possesso, da parte del concorrente, dei necessari requisiti di qualificazione (cfr. CdS, IV, 26.5.2014 n. 2675; V, 21.11.2012 n. 5900; VI, 2.5.2012 n. 2508)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 967 del 2014

Quando il Comune può derogare al vincolo cimiteriale?

09 Lug 2014
9 Luglio 2014

Il Consiglio di Stato, sez. VI, nella sentenza del 04 luglio 2014 n. 3410, torna ad occuparsi di vincolo cimiteriale chiarendo in quali casi l’Amministrazione comunale possa derogare al vincolo imposto ex lege. Di conseguenza, ove manchi questa deroga, l’ente non potrà concedere alcuna sanatoria al privato che abbia edificato all’interno della fascia di rispetto cimiteriale.

A tal fine si legge che: “A tale riguardo l’appellante prospetta sotto diversi profili la violazione della normativa di riferimento (art. 338 del r.d. 27 luglio 1934, n. 1265 –Testo Unico delle leggi sanitarie – come modificato dall’art. 4 delle legge 30 marzo 2001, n. 130 e poi sostituito dall’art. 28, comma 1, lettera a, della legge 1 agosto 2002, n. 166), con prioritario riguardo alla prevista possibilità di riduzione dell’area inedificabile, che restringerebbe a soli 50 metri il vincolo inderogabile e consentirebbe fino al limite di 200 metri limitati interventi edilizi, fra cui locali tecnici e serre.

Detta argomentazione difensiva non può essere condivisa.

In base al citato art. 338, comma 4, r.d. n. 1265/1934, infatti, “Il Consiglio Comunale può approvare, previo parere favorevole delle competete azienda sanitaria locale, la costruzione di nuovi cimiteri o l’ampliamento di quelli già esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal centro abitato, purchè non oltre il limite di 50 metri, quando ricorrano, anche alternativamente, le seguenti condizioni:

a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che, per particolari condizioni locali, non sia possibile provvedere altrimenti;

b) l’impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base della classificazione prevista ai sensi della legislazione vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti, ovvero da ponti o da impianti ferroviari”.

La norma sopra riportata ha carattere derogatorio, in via eccezionale, rispetto alla regola – enunciata al primo comma del medesimo articolo – secondo cui “I cimiteri debbono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. E’ vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici…”.

Per pacifica giurisprudenza, il vincolo cimiteriale determina quindi una tipica situazione di inedificabilità ex lege, suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque per considerazioni di interesse pubblico. Quanto sopra, in presenza delle condizioni specificate nel ricordato comma 4 dell’art. 338, non anche per agevolare singoli proprietari, che abbiano effettuato abusivamente, o intendano effettuare, interventi edilizi su un’area, resa a tal fine indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonchè per la peculiare sacralità dei luoghi destinati alla sepoltura, senza esclusione di ulteriori esigenze di mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale (cfr. Cass. civ. sez. I, 23.6.2004, n. 11669; Cons. St., sez. II, 7.3.1990, parere n. 1109; Cons. St., sez. IV, 11.10.2006, n. 6064; Cons. St., sez. V, 2.4.1991, n. 379, 29.3.2006, n. 1593, 3.5.2007, n. 1934 e 14.9.2010, n. 6671).

L’unico procedimento, attivabile dai singoli proprietari all’interno della fascia di rispetto, pertanto, è quello finalizzato agli interventi di cui all’art. 338, comma 7, dello stesso r.d. n. 1265/1934 (recupero o cambio di destinazione d’uso di edificazioni preesistenti), restando attivabile solo d’ufficio – per i motivi anzidetti – la procedura di riduzione della fascia inedificabile in questione.

Fermo restando, quindi, che solo il Consiglio Comunale – non su istanza di singoli cittadini, ma per ragioni di interesse pubblico – può intervenire per ridurre l’ampiezza di detta fascia, per le decisioni da assumere su eventuali istanze di autorizzazione edilizia, anche in sanatoria, vale il riparto generale di competenze, che assegna ai dirigenti gli ordinari atti di gestione (come peraltro ribadito, in materia di sanatoria, dal terzo comma del citato art. 36 d.P.R. n. 380/2001)”.

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 3410 del 2014

I revisori comunali sono rieleggibili per più di due volte?

09 Lug 2014
9 Luglio 2014

Il T.A.R. Lazio, Roma, sez. II bis, nella sentenza del 04 luglio 2014 n. 7133 chiarisce che il revisore dei conti di un ente locale può essere eletto anche più di due volte.

In realtà la sentenza si riferisce all’art. 235, c. 1, I periodo, del T.U. enti locali, ante la recente riforma, secondo cui: “L'organo di revisione contabile dura in carica tre anni a decorrere dalla data di esecutività della delibera o dalla data di immediata eseguibilità nell'ipotesi di cui all'art. 134, comma 3, e sono rieleggibili per una sola vola”.

In seguito alle modifiche apportate dall'articolo 19, comma 1-bis, lettera a), del D.L. 24 aprile 2014, n. 66, convertito con modificazioni dalla Legge 23 giugno 2014, n. 89, l’articolo de quo recita: “L'organo di revisione contabile dura in carica tre anni a decorrere dalla data di esecutività della delibera o dalla data di immediata eseguibilità nell'ipotesi di cui all'art. 134, comma 3, e i suoi componenti non possono svolgere l'incarico per più di due volte nello stesso ente locale. Ove nei collegi si proceda a sostituzione di un singolo componente la durata dell'incarico del nuovo revisore è limitata al tempo residuo sino alla scadenza del termine triennale, calcolata a decorrere dalla nomina dell'intero collegio. Si applicano le norme relative alla proroga degli organi amministrativi di cui agli articoli 2, 3, comma 1, 4, comma 1, 5, comma 1, e 6 del decreto-legge 16 maggio 1994, n. 293, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 1994, n. 444”.

La sentenza che si commenta, dunque, deve essere letta rapportandola alla normativa previgente.

Sul punto si legge che: “Nel merito, la Sezione non condivide la lettura data dal Comune all’art. 235, comma 1°, del testo unico degli enti locali (D.Lgs. 18.8.2000 n. 267), orientato per l’impossibilità di procedere alla rielezione, anche dopo un considerevole periodo di tempo, del componente del collegio dei revisori destinatario di due precedenti elezioni. Ad avviso del Collegio la corretta interpretazione della citata norma del TUEL, la quale dispone che i revisori siano rieleggibili una sola volta, porta ad escludere una terza rielezione solo qualora questa sia consecutiva, in quanto il divieto scatta solo a seguito di due elezioni consecutive, posto che la rielezione è tale solo se segue una precedente elezione senza soluzione di continuità, traducendosi altrimenti la disposizione in un irrazionale ed ingiustificato divieto di elezione a vita per chi, come nella specie, ha ricoperto l’incarico in un ente per due trienni nell’arco della propria attività professionale (in tal senso: T.A.R. Puglia, Lecce, 16.12.2009 n. 3143; Cons.St., V, ord. 26.10.2009 n. 5324)

Questa soluzione in discorso appare maggiormente aderente alla formulazione della previsione dell’art. 235, 1° comma, del D.Lg.. n. 267/2000, che, utilizzando la formulazione “sono rieleggibili per una sola volta”, opera un chiaro riferimento ad elezioni che devono susseguirsi senza soluzione di continuità e non ad elezioni che si svolgano a distanza di un considerevole periodo di tempo, e si attaglia alla necessità di prescegliere, tra più interpretazioni possibili, quella che sacrifica nella minore misura possibile la sfera lavorativa dei soggetti interessati allo svolgimento dell’incarico. Del resto, l’opposta soluzione interpretativa finisce sostanzialmente con l’imporre una forma di ineleggibilità a carattere perpetuo e del tutto irrazionale, partendo da una esigenza, quella di escludere possibili collegamenti “fissi” tra amministrazioni comunali e componenti del collegio dei revisori dei conti, che è comunque adeguatamente neutralizzata dal sistema del voto limitato previsto per l’elezione dei componenti del collegio dei revisori dei conti.

In ogni caso, nella vicenda che ci occupa, il rischio di possibili comportamenti collusivi tra controllore e controllato è del tutto escluso dal lungo periodo di tempo intercorso rispetto alle due precedenti elezioni, avvenute nel 1991 e nel 1994. Prospettare una qualche forma di ineleggibilità a così lungo periodo di tempo dai precedenti incarichi e nell’assoluta assenza di possibili rischi di condizionamenti politici è quindi, oltre che inutile, eccessivamente ed ingiustamente lesivo del diritto dell’interessato all’assunzione della funzione pubblica di controllo”.

Dunque, se in passato i revisori comunali dei conti erano rieleggibili anche per più di due volte, quid iuris ora alla luce della nuova normativa? Valgono le stesse considerazione di cui supra?

Per quanto concerne le tempistiche per proporre il ricorso averso le delibere comunali, invece, il Collegio ricorda che i termini non sempre decorrono dalla pubblicazione delle stesse sull’albo pretorio perché: “Il Collegio ritiene che i predetti termini non possano decorrere se non dalla effettiva conoscenza dell’atto. L’eccezione di tardività del ricorso sollevata dalle controparti si fonda sull’orientamento giurisprudenziale, espresso, ex multis, nella seguente massima: “L’affissione all’albo pretorio delle delibere comunali, effettuata nei modi e nei termini previsti dalla legge (art. 47, comma 1, l. n. 142 del 1990), costituisce una forma di pubblicità, legale, di per sé esaustiva ai fini della presunzione assoluta di piena conoscenza erga omnes, allorquando i provvedimenti stessi non siano direttamente riferibili a soggetti determinati” (Cons.St., V, 2.12.2002 n. 6601).

Presupposto dell’eccezione è che la deliberazione oggetto di gravame non richieda la notifica individuale se non ai soggetti da essa nominati per aver ricevuto l’incarico, con tale provvedimento conferito, di componenti del nuovo collegio dei revisori dei conti comunali. Al contrario, ritiene il Collegio che tra i destinatari diretti della delibera commissariale deve essere ricompreso il ricorrente. ancorché escluso dall’incarico e non menzionato dal provvedimento di nomina, ma tuttavia coinvolto nel presupposto procedimento, avendo egli partecipato con esito positivo alla sub procedura di estrazione a sorte prevista dal regolamento di cui al decreto 15.2.2012 n. 23 del Ministro dell’interno per i soggetti aventi i requisiti per la nomina a revisore dei conti.

Invero ciò che qualifica la posizione soggettiva del privato interessato ai fini della sussistenza dell’obbligo di notifica è sia la circostanza che il privato medesimo abbia assunto la veste di parte nel procedimento amministrativo presupposto, sia che la sua posizione giuridica venga direttamente attinta dal contenuto decisionale della determinazione conclusiva (T.A.R. Campania, Napoli, II, 29.6.2007 n. 6392).

E’ d’altronde noto che la giurisprudenza degli ultimi decenni abbia interpretato le disposizioni in tema di decadenza dall’azione nel processo amministrativo nel senso di ampliare le ipotesi in cui è necessaria la notifica individuale dell’atto pregiudizievole, giungendo a ritenere sussistente l’obbligo in questione non solo in favore dei soggetti nominativamente indicati dall’atto impugnato, bensì anche in favore di soggetti comunque facilmente individuabili a cagione del suo contenuto (si veda al riguardo Cons.St., V, 6.12.1994 n. 1460, secondo cui “deve essere notificato o comunicato l'atto anche a chi, pur non menzionato, sia in qualche modo da ritenere destinatario del medesimo; pertanto, nei confronti di tali soggetti la pubblicazione dell'atto nelle forme di rito non fa decorrere il termine decadenziale per l'impugnazione, occorrendo a tal fine la notifica o comunicazione individuale ovvero la prova dell'effettiva conoscenza”).

Tale circostanza imponeva pertanto, ad avviso del Tribunale, la comunicazione o notifica individuale ai soggetti che hanno preso parte al procedimento, quantomeno a chi, come il ricorrente, è stato coinvolto dall’amministrazione stessa nella procedura di estrazione a sorte e nella richiesta di una dichiarazione di consenso alla eventuale nomina e di informazioni curricolari”.

dott. Matteo Acquasaliente 

TAR Roma n. 7133 del 2014

Spetta alla Regione la competenza in materia di concessioni marittime per fini diversi dal turismo e dall’approvvigionamento energetico

09 Lug 2014
9 Luglio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 01 luglio 2014 n. 978 dichiara la competenza della Regione Veneto in materia di concessioni marittime per fini diversi da quello turistico-ricreativo e da quello di approvvigionamento energetico: “deve osservarsi che non sussistono dubbi in ordine alla competenza della Regione all’esame delle domande di rilascio della concessione di un’area demaniale marittima per scopi diversi da quelli turistico ricreativi: l’art. 105, II comma, lett. l) del DLgs n. 112/1998, infatti, ha conferito alle Regioni le funzioni relative “al rilascio di concessioni di beni del demanio della navigazione interna, del demanio marittimo e di zone del mare territoriale per finalità diverse da quelle di approvvigionamento di fonti di energia”; con l’art. 100, II comma, lett. e) della LR n. 11/2001 la Regione Veneto, a sua volta, ha stabilito che la Giunta svolge le funzioni relative al “rilascio di concessioni di beni del demanio della navigazione interna, del demanio marittimo e di zone del mare territoriale, per finalità diverse da quelle di approvvigionamento di fonti di energia e da quelle di cui all'articolo 30, comma 5, lettera a)”: articolo quest’ultimo che, appunto, stabilisce (recte: stabiliva, in quanto abrogato e sostituito dall’art. 46 della LR n. 33/2002) che “sono trasferite ai comuni le funzioni amministrative…sul demanio marittimo a finalità turistico-ricreativa”. È innegabile, dunque, la competenza della Regione (ai sensi dell’art. 105, II comma, lett. “l” del DLgs n. 112/1998, dell’art. 100, II comma, lett. “e” della LR n. 11/2001 e della DGR n. 1352/2013) al rilascio delle concessioni di beni demaniali marittimi richieste per finalità diverse dall’approvvigionamento di fonti di energia (che è stata mantenuta dallo Stato) e dallo svolgimento di attività turistico-ricreative (trasferita ai Comuni)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 978 del 2014

La forza del diritto è violenza ‘conforme alla legge’ (da un carteggio fra Albert Einstein e Sigmund Freud)

08 Lug 2014
8 Luglio 2014

Qualche mio lettore, pur vivendo in  Italia, è riuscito a conservare almeno un briciolo di passione civile?

Se si, ecco un articolo interessante per riflettere sul Potere della persona che agisce in nome dello Stato, ringraziando l'avvocato Giuseppe Piva per la segnalazione.

Si tratta di un articolo di Beniamino Irti, pubblicato su Historia et ius rivista di storia giuridica dell’età medievale e moderna www.historiaetius.eu - 4/2013 - paper 1, relativa a un carteggio tra due colossi del pensiero umano, Sigmund Freud e Albert Einstein. 

Evidenziamo, in particolare, questo passaggio alle pagine 3 e 4: "Il passaggio dalla violenza al diritto è segnato da ciò, che i più deboli, stringendosi insieme, si oppongono alla violenza del singolo. Chiarisce Freud: « L’union fait la force ... Vediamo così che il diritto è la potenza di una comunità. È ancora sempre violenza, pronta a volgersi contro chiunque le si opponga, opera con gli stessi mezzi, persegue gli stessi scopi; la differenza risiede in realtà solo nel fatto che non è più la violenza di un singolo a trionfare, ma quella della comunità ». La transizione, dalla violenza del singolo alla violenza della comunità, richiede che l’unione dei più deboli non sia effimera, ma stabile e durevole, e dunque sorretta da “legami emotivi”, da rapporti psicologici, sui quali si fonda la sua saldezza. « La comunità – scrive Freud – deve essere mantenuta permanentemente, organizzarsi, prescrivere gli statuti che prevengano le temute ribellioni, istituire organi che veglino sull’osservanza delle prescrizioni – delle leggi – e che provvedano all’esecuzione degli atti di violenza conformi alle leggi ». Sono proposizioni di eccezionale rilievo. Nel passaggio al diritto, la violenza non si estingue e spegne, ma si trasferisce dal singolo alla comunità, dai meno ai più. Essa si concentra, si organizza, si fa struttura di potere, emana leggi, istituisce ufficî giudiziarî. L’analisi freudiana tocca un alto grado di chiarezza, di ‘purità’ metodologica: l’atmosfera culturale tedesca favorisce questo strenuo esercizio. Già nel 1921 Walter Benjamin, in quello che Jacques Derrida chiamerà un « breve e inquietante testo »7, Critica della violenza (Zur Kritik der Gewalt), aveva distinto due specie di violenza: la violenza fondatrice, che instaura e pone il diritto, e la violenza conservatrice, che lo conferma e ne assicura continuità e applicabilità. La violenza, di cui discorre Freud, adempie la duplice funzione: piega la violenza irregolare del singolo, e istituisce il diritto; poi, si consolida e conserva nella complessa struttura di organi ed ufficî".

Dedicato a chiunque abbia sperimentato sulla propria carne la violenza, in particolare quella 'conforme alla legge'.

Dario Meneguzzo - uno di noi

http://www.historiaetius.eu/uploads/5/9/4/8/5948821/1_irti_4.pdf

La violenza conforme alla legge

Quali disposizioni del D.M. 1444/1968 si applicano alle zone B?

08 Lug 2014
8 Luglio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. II, nella sentenza del 26 giugno 2014 n. 918 (segnalata da Luca, che sentitamente ringraziamo), conferma che l’art. 9 c. 2 e 3 del D. M. n. 1444/1968 non si applica alle zone B.

Ricordiamo innanzitutto il contenuto di questa disposizione: “Le distanze minime tra fabbricati - tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti) - debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di:

- ml. 5,00 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7.
- ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml. 7 e ml. 15;
- ml. 10,000 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15.

Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all'altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all'altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi, nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”.

 Il Collegio afferma che: “In presenza dell’inidoneità della documentazione integrativa prodotta deve ritenersi non determinante l’erronea applicazione dell’art. 9 ultimo comma del DM 1444/1968, posta in essere dal Comune e anch’essa a fondamento del provvedimento di diniego ora impugnato. Come ha già avuto modo di precisare questo Tribunale (T.A.R. Veneto Sez. II, Sent., 20-03-2014, n. 364) “i comma 2 e 3 dell'art. 9 si riferiscono esclusivamente alle zone urbanistiche contrassegnate come zone "C)", fattispecie pertanto estranea ai manufatti, come quello in esame, che rientra nell'ambito delle zone classificate come "B)"”.

 

Nella stessa sentenza, inoltre, i Giudici si soffermano sulla notifica del ricorso ad almeno un controinteressato chiarendo che: “1.1 Sul punto va considerato come costituisca orientamento consolidato (per tutti Cons. Stato Sez. V, 27-03-2013, n. 1755) che ai fini di individuare l’esistenza di un onere di notifica, previsto dall'art. 41, co. 2 del Codice del processo Amministrativo, è necessaria la sussistenza di un profilo sostanziale costituito dall'essere il terzo portatore di un interesse qualificato analogo e contrario a quello che legittima la posizione del ricorrente.

In altri termini, la posizione di controinteressato spetta a coloro che abbiano un interesse qualificato alla conservazione dell'assetto giuridico recato dall'atto impugnato o dalla vicenda controversa, e non già a chi è portatore di un interesse comune alla rimozione dell'atto ovvero all'ottenimento di una pronuncia giurisdizionale che possa giovare anche alla propria posizione (Parziale riforma della sentenza del T.a.r. Puglia - Bari, sez. I, n. 919/2011).

1.2 Applicando detti principi al caso di specie non si vede come possa sussistere un interesse qualificato dei proprietari del condominio del palazzo da innalzare e, ciò, considerando come con il presente ricorso si è impugnato un provvedimento di diniego di permesso di costruire e non certo un provvedimento edilizio abilitativo, diretto ad autorizzare le opere pur richieste nell’originaria istanza.

1.3 L’eventuale annullamento dell’atto impugnato ha l’effetto di determinare l’espunzione di quest’ultimo dall’ordinamento giuridico, con conseguente obbligo dell’Amministrazione di ripronunciarsi, senza determinare l’automatica emanazione di un provvedimento autorizzatorio, quest’ultimo suscettibile di ledere, quanto meno in astratto, la posizione giuridica dei proprietari limitrofi e confinanti”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 918 del 2014

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