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Le norme in materia di esecuzione forzata nei confronti della P.A. si applicano anche al giudizio di ottemperanza

17 Feb 2014
17 Febbraio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 11 febbraio 2014 n. 161, estende la portata dell’art. 14, c. 1, del D.L. 31.12.1996 n. 669 - che disciplina l’esecuzione forzata nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni - anche al giudizio di ottemperanza: “Ebbene, è anzitutto opportuno rimarcare che al giudizio di ottemperanza trova applicazione il disposto dell’art. 14, I comma, del d.l. 31 dicembre 1996, n. 669, convertito in l. 30/97, secondo cui le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici non economici dispongono di un termine di centoventi giorni per eseguire i provvedimenti giurisdizionali che li obbligano al pagamento di somme di danaro, termine decorrente dalla notificazione del titolo esecutivo (pur se non munito di formula esecutiva: cfr. amplius T.A.R. Lazio, I, 30 ottobre 2012, n. 10127): prima che tale termine scada il creditore non può procedere ad esecuzione forzata né alla notifica di atto di precetto.

La norma, di cui al ripetuto art. 14, si riferisce espressamente alla “esecuzione forzata” e non al giudizio di ottemperanza: ma, attesa la finalità della disposizione, che è quella di concedere alle Amministrazioni un adeguato intervallo, tra la richiesta di pagamento mediante la notificazione di un titolo, e l’avvio della relativa procedura coattiva, non sembra dubbio a questo Collegio che essa si applichi anche qualora l’esazione sia attuata mediante il giudizio di ottemperanza, essendo evidente l’analoga finalità di quest’ultimo (cfr., in termini, tra le ultime, C.d.S. IV, 6 agosto 2013, n. 4155; id., 13 giugno 2013, nn. 3281 e 3293; T.A.R. Lazio, I, 10127/12, cit.; T.A.R. Liguria, I, 20 luglio 2012, n. 1032; T.A.R. Lombardia, Milano, I, 14 giugno 2012, n. 1664; T.A.R. Campania, Napoli, IV, 16 dicembre 2011, n. 5920; T.A.R. Calabria, Catanzaro, II, 13 ottobre 2010, n. 2614)”.

 Nella stessa sentenza inoltre il T.A.R. si sofferma sui poteri del commissario ad acta: “Quanto al commissario ad acta, questi è nominato nella persona del dirigente l’Ufficio centrale del bilancio presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze, con facoltà di subdelega: e ciò in coerenza con il disposto dell’art. 1, comma 1225, della l. 27 dicembre 2006, n. 296, per cui “al fine di razionalizzare le procedure di spesa ed evitare maggiori oneri finanziari conseguenti alla violazione di obblighi internazionali, ai pagamenti degli indennizzi procede, comunque, il Ministero dell'economia e delle finanze. I pagamenti di somme di denaro conseguenti alle pronunce di condanna della Corte europea dei diritti dell'uomo emanate nei confronti dello Stato italiano sono effettuati dal Ministero dell'economia e delle finanze”.

Il commissario, trascorso il termine assegnato all’Amministrazione per adempiere, provvederà all'esecuzione dell'incarico mediante diretta adozione di quegli atti (variazioni di bilancio, stipulazione di mutui e prestiti, e quant'altro necessario per l'assolvimento del proprio mandato) anche in deroga alla norme comuni: e ciò in base al principio di effettività della tutela, cui si correla il potere del giudice di imporre, anche coattivamente in caso di necessità, il rispetto della statuizione contenuta nel giudicato e, quindi, in definitiva, il rispetto della legge stessa (così, ex multis, T.A.R. Lazio, I, 11 giugno 2012, n. 5265, nonché, T.A.R. Sicilia Catania, III, 28 ottobre 2009, n. 1778; conf. T.A.R. Campania – Salerno, II, 21 dicembre 2011, n. 2061; cfr. anche C.d.S., IV, 17 settembre 2002, n. 4680).

È ancora da sottolineare come trovi qui applicazione il II comma dell’art. 14 del ripetuto d.l. 669/96, per il quale “Nell'ambito delle amministrazioni dello Stato, nei casi previsti dal comma 1 [tra i quali rientra certamente quello de quo], il dirigente responsabile della spesa, in assenza di disponibilità finanziarie nel pertinente capitolo, dispone il pagamento mediante emissione di uno speciale ordine di pagamento rivolto all'istituto tesoriere, da regolare in conto sospeso” (per le modalità di emissione cfr. il D.M. 1 ottobre 2002 del Ministero dell'economia e delle finanze). All’esito del procedimento, o da parte dell’amministrazione in caso di adempimento, o da parte del Commissario in caso di persistente inerzia, dovrà essere inviata alla segreteria della sezione relazione sull’attività svolta”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 161 del 2014

Il comportamento dell’offerente escluso incide sulla quantificazione del risarcimento del danno

17 Feb 2014
17 Febbraio 2014

Il T.A.R. Veneto, nella medesima sentenza n. 184/2014 afferma che il comportamento negligente e/o non collaborativo tenuto dall’offerente escluso dalla gara pubblica incide sulla determinazione del danno ex art. 1227 c.c. il quale stabilisce che: “Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate.

Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza”.

 Alla luce di ciò il Collegio dichiara che: “E’ ormai insegnamento condiviso quello per cui il danno patito deve essere risarcito nei limiti indicati dall’art. 1227 c.c.

E’, in effetti, essenziale, nella puntuale definizione del nocumento patito dalla parte, verificare se il pregiudizio alla stessa causato, poteva essere ridotto o limitato, se non escluso, da una sua azione adeguata secondo l’ordinaria diligenza.

Il Consiglio di Stato ha recepito tale orientamento ed ha statuito, nell’Adunanza Planaria n. 3 del 2011 che :”…Va aggiunto che la latitudine del generale riferimento ai mezzi di tutela e al comportamento complessivo consente di soppesare l’ipotetica incidenza eziologica non solo della mancata impugnazione del provvedimento dannoso ma anche dell’omessa attivazione di altri rimedi potenzialmente idonei ad evitare il danno, quali la via dei ricorsi amministrativi e l’assunzione di atti di iniziativa finalizzati alla stimolazione dell’ autotutela amministrativa (cd. invito all’autotutela). Va, del pari, apprezzata l’omissione di ogni altro comportamento esigibile in quanto non eccedente la soglia del sacrificio significativo sopportabile anche dalla vittima di una condotta illecita alla stregua del canone di buona fede di cui all’art. 1175 e del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.”.

Consta dagli atti che la ricorrente non ha proposto, né avanzato alcuna misura cautelare che, nell’immediatezza avrebbe potuto sicuramente impedire la consumazione del pregiudizio lamentato e, quindi, proprio per le ragioni sopra esposte, riammettere in gara la ricorrente, così che la sua offerta poteva essere adeguatamente valutata.

Tale omissione, a parere del Collegio, costituisce un negligente comportamento da imputare alla ricorrente che, in tal modo, ha contribuito, se non favorito, il radicamento del danno lamentato e che, diversamente agendo, la parte avrebbe potuto evitare, così che la richiesta di risarcimento del danno deve essere respinta.

Un’ultima annotazione.

Il riferito insegnamento, trova applicazione anche alle vicende anteriori al 16 settembre 2010, data di entrata in vigore del codice del processo amministrativo, proprio perché, come testualmente statuito dalla decisione della Plenaria sopra riportata, anche in tali evenienze il principio è :” … estensibile a situazioni anteriori in quanto ricognitiva di principi evincibili dal sistema normativo antecedente all’entrata in vigore del codice”.

dott. Matteo Acquasaliente

Il termine previsto dall’art. 10 quater L. n. 109/1994 ha carattere ordinatorio o perentorio?

17 Feb 2014
17 Febbraio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 13 febbraio 2014 n. 184, chiarisce che il termine previsto dall’art. 10 quater della Legge Quadro sui Lavori Pubblici (L. n. 109/1994) (il quale prevedeva che: “I soggetti di cui all'articolo 2, comma 2, prima di procedere all'apertura delle buste delle offerte presentate, richiedono ad un numero di offerenti non inferiore al 10 per cento delle offerte presentate, arrotondato all'unità superiore, scelti con sorteggio pubblico, di comprovare, entro dieci giorni dalla data della richiesta medesima, il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, eventualmente richiesti nel bando di gara, presentando la documentazione indicata in detto bando o nella lettera di invito. Quando tale prova non sia fornita, ovvero non confermi le dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell'offerta, i soggetti aggiudicatori procedono all'esclusione del concorrente dalla gara, alla escussione della relativa cauzione provvisoria e alla segnalazione del fatto all'Autorità per i provvedimenti di cui all'articolo 4, comma 7, nonché per l'applicazione delle misure sanzionatorie di cui all'articolo 8, comma 7. La suddetta richiesta è, altresì, inoltrata, entro dieci giorni dalla conclusione delle operazioni di gara, anche all'aggiudicatario e al concorrente che segue in graduatoria, qualora gli stessi non siano compresi fra i concorrenti sorteggiati, e nel caso in cui essi non forniscano la prova o non confermino le loro dichiarazioni si applicano le suddette sanzioni e si procede alla determinazione della nuova soglia di anomalia dell'offerta ed alla conseguente eventuale nuova aggiudicazione” ed ora trasfuso nell’art. 48 D. Lgs. n. 163/2006) ha carattere ordinatorio per l’aggiudicatario provvisorio e perentorio per il concorrente sorteggiato.

A riguardo si legge che: “Al riguardo, osserva il Collegio, che il pacifico insegnamento giurisprudenziale del tempo ( Cons. St., sez. IV, 6 giugno 2001, n. 3066; Cons. St., sez. VI, 15 maggio 2001, n. 2774), in uno con il chiaro tenore letterale della norma, che prevedeva espressamente l’esclusione del concorrente per omessa produzione dei documenti richiesti entro il termine stabilito, conforterebbe la tesi ed il conseguente provvedimento assunto dalla stazione appaltante.

Anche l’AVCP con atto di regolamentazione n. 15 del 30 marzo 2000 ( G.U., supplemento n. 120 del 25 maggio 2000) ha segnalato la perentorietà del termine in questione.

In realtà l’angolo visuale che richiede un maggiore approfondimento, attiene, non già al momento temporale della produzione documentale richiesta, quanto, piuttosto, alla contraddittoria comunicazione fornita dalla stazione appaltante circa i motivi sottesi alla stessa.

Infatti, emerge dagli atti e non è motivo di contrasto, il fatto che l’originaria richiesta di produzione documentale è stata avanzata ai sensi dell’ultima parte dell’art. 10 quater Legge cit., ossia perché il ricorrente risultava, a detta della stazione appaltante, aggiudicatario provvisorio.

La differenza non è di poco conto perché la norma, in questo caso, non prevedeva, in caso di ritardo nel riscontro alla richiesta della stazione appaltante, alcuna sanzione espulsiva del concorrente, così che il termine previsto aveva esclusiva natura ordinatoria.

In tal senso si è pronunciata la stessa AVCP con la determinazione n. 15 citata.

Risulta, sempre dagli atti e dalla stessa istruttoria disposta dalla ACVP, che la ricorrente ha, comunque, successivamente trasmesso alla stazione appaltante il documento richiesto e comprovante i requisiti previsti dal bando.

Allora, l’ambiguo comportamento della p.a., che ha certamente provocato nella ricorrente un legittimo affidamento circa i termini della richiesta, proprio in ragione della provenienza della stessa, deve essere esattamente valutato nell’economia della presente vicenda.

Infatti, la posizione dell’aggiudicatario provvisorio è, come detto, sostanzialmente diversa da quella del concorrente sottoposto a verifica perché sorteggiato.

Nel primo caso è proprio l’interesse alla stipulazione del contratto che informa la conseguente tempistica di produzione documentale, sicchè il termine indicato ha natura sollecitatoria e la relazione tra le parti non soggiace ad una rigida formalità, avendo l’aggiudicatario la possibilità di interloquire dialetticamente con la stazione appaltante circa aspetti marginali e meramente formali della documentazione prodotta.

E’ evidente che, nel caso di specie, la stazione appaltante ha valutato i documenti prodotti dalla ricorrente, siccome aggiudicatario provvisorio, nei termini più rigorosi previsti per il concorrente sorteggiato.

Tale errore, invero doveva, quanto meno comportare una rimessione in termini del concorrente, affinchè egli potesse, per tempo, provvedere alle allegazioni richieste.

Consta dagli atti e non è revocabile in dubbio, che il provvedimento di esclusione - e la relativa motivazione - è intervenuto contestualmente al giorno previsto per l’apertura delle offerte, così che il ricorrente non aveva la materiale possibilità di integrare la precedente ed errata documentazione.

Invero, non possono imputarsi al ricorrente gli effetti dell’erroneo comportamento della stazione appaltante, anche perché tale anomalo contegno lascia adito a dubbi circa la par condicio e la terzietà della stessa stazione appaltante”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 184 del 2014

Il ricorso del Governo alla Corte Costituzionale sul piano casa del Veneto

14 Feb 2014
14 Febbraio 2014

Pubblichiamo il ricorso del Governo alla Corte Costituzionale sul piano casa del Veneto.

Sono stati impugnati i seguenti articoli:  7, comma 1; 10, comma 6; 11 commi e 2 della L.R. 32/2013.

Ricorso Presidenza CdM Piano casa Veneto

Insediamenti commerciali in ATO nei quali il PAT non lo prevede espressamente

14 Feb 2014
14 Febbraio 2014

La sentenza del Consiglio di Stato n. 616 del 2014 ritiene possibile che il P.I. consenta insediamenti commerciali in ATO nei quali il PAT non lo prevede espressamente, sulla base dei seguenti rilievi: "In merito al contrasto con il PAT, deve osservarsi come sia previsto per tutti gli ATO la distribuzione di una quota percentuale della volumetria realizzabile avente destinazione non residenziale, ma a servizio dello stesso, ossia per commercio, artigianato di servizio, destinazioni strettamente connesse all’abitare nelle percentuali indicate nella relazione. È quindi corretto affermare che, se è ben vero che solo per l’ATO 3 è stata espressamente prevista una volumetria destinata ad attività turistico-commerciale (alberghiera), ciò non esclude che anche nelle altre aree si possa ammettere la presenza di insediamenti a carattere commerciale".

avv. Dario Meneguzzo

Ogni variante al PAT o al P.I. richiede una nuova valutazione di compatibilità idraulica?

14 Feb 2014
14 Febbraio 2014

La sentenza del Consiglio di Stato n. 616 del 2014 risponde di no, per i seguenti motivi: "3.3. - È infondato anche il terzo motivo di appello, dove si denuncia la violazione della delibera della Giunta Rregionale n. 3637 del 13 dicembre 2002, dell’art. 49 del PAT, nonché l’eccesso di potere sotto il profilo dell’illogicità e difetto di istruttoria, in relazione alla violazione delle linee guida dettate dalla Regione in materia di rischio idraulico, le quali richiedono che ogni strumento urbanistico o sua variante valutino attentamente, previa acquisizione del parere dell’autorità preposta (Genio cCivile), la compatibilità idraulica delle modifiche apportate alle previsioni urbanistiche. Come notato in fatto dal giudice di prime cure, l’area de qua è stata già oggetto di numerose valutazioni di compatibilità idraulica in occasione delle precedenti varianti generali al PRG e del PAT, per cui, tenuto conto del modesto incremento edificatorio derivante dalle nuove previsioni, non sussisterebbero le condizioni per imporre una nuova  valutazione di compatibilità idraulica. Peraltro, coerentemente con le stesse direttive impartite dalla Regione con la DGR n. 2948 del 6 ottobre 2009, la detta valutazione, al fine di non appesantire l’iter procedurale, è stata correttamente sostituita con una dichiarazione asseverata del tecnico estensore dello strumento urbanistico, che attesti la sussistenza dei presupposti per non dare luogo ad una nuova valutazione di compatibilità idraulica".

avv. Dario Meneguzzo

Non spetta al giudice amministrativo la giurisdizione in materia di “certificato di idoneità e qualifica professionale” previsto dal D. Lgs. 24/02/1948 n. 114 per il coltivatore agricolo

14 Feb 2014
14 Febbraio 2014

Lo precisa la sentenza del TAR Veneto n. 117 del 2014.

Scrive il TAR: "1. Il ricorso va giudicato inammissibile per difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo nella controversia in esame, accogliendo l’eccezione sul punto proposta dalla Regione Veneto.

1.1 Come ha correttamente rilevato quest’ultima il ricorrente, nell’istanza presentata, ha richiesto il rilascio del “certificato di idoneità e qualifica professionale” previsto dal D. Lgs. 24/02/1948 n. 114, chiedendo quindi l’accertamento della qualità di coltivatore agricolo per il conseguimento di benefici fiscali, accertamento quest’ultimo che non può non essere correlato e conseguente all’esame di elementi oggettivi.

1.2 Risulta, infatti, dirimente constatare che l'attestazione o certificazione che una determinata persona è dedita alla coltivazione manuale della terra, di cui agli art. 1 del D.Lgs. 24-2-1948 n. 114 (sulle provvidenze a favore della piccola proprietà contadina), ha come contenuto il risultato di un mero accertamento tecnico, compiuto alla stregua di elementi, criteri e parametri normativamente predeterminati, senza alcun margine di discrezionalità.

1.3 Detta circostanza comporta la conseguenza che il provvedimento conclusivo del relativo procedimento integra la fattispecie di un atto di natura vincolata, destinato ad incidere, senza degradarle, su posizioni di  diritto soggettivo perfetto, attinenti alla qualità di coltivatore diretto (sul punto si veda T.A.R. Basilicata Potenza Sez. I, Sent., 06-11-2013, n. 677 e, tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, n. 231/87 e T.A.R. Basilicata, n. 158/1989 e n. 330/2003)".

avv. Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 117 del 2014

Se si sbaglia giudice per colpa delle indicazioni della P.A. questa paga (in parte) le spese processuali

14 Feb 2014
14 Febbraio 2014

E' quanto ha deciso in un caso il TAR Veneto nella sentenza n. 117 del 2014, che condanna la P.A. a a rimborsare al ricorrente il contributo unificato, visto che aveva sbagliato a scrivere nel provvedimento che la giurisdizione spettava al giudice amministrativo..

Scrive il TAR: "1.4 Va, altresì, evidenziato come non possa condividersi l’osservazione della ricorrente nella parte in cui rileva che la Giurisdizione di questo Tribunale era indicata nel contenuto del provvedimento impugnato, circostanza quest’ultima che non può, evidentemente, esimere dall’esame della Giurisprudenza in materia di criteri di riparto della Giurisdizione nel momento della proposizione del ricorso.

2. Ciò premesso è del tutto evidente come la dicitura sopra rilevata costituisce comunque un elemento di valutazione da parte di questo
Tribunale del comportamento tenuto dell’Amministrazione e, ciò, con riferimento alla determinazione delle spese di giudizio e, ciò, ritenendo come l’apposizione di detta dicitura possa aver concorso nella individuazione del Giudice da adire.

3. In conclusione, trattandosi di situazione avente consistenza di diritto soggettivo perfetto, e non vertendosi in materia rientrante nell'ambito della giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo, la controversia va quindi devoluta al Giudice Ordinario, quale Giudice cui è affidata, in via generale, la tutela dei diritto soggettivi. Va, pertanto, dichiarato il difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo, con conseguente onere dei ricorrenti di riproporre la domanda innanzi al giudice ordinario, nei termini e per gli effetti di cui all'art. 11, comma 2, c.p.a. Le peculiarità della controversia, unitamente alle ragioni sopra indicate, consente di disporre la compensazione tra le parti delle spese di giudizio, con l’eccezione del contributo unificato che dovrà essere rifuso nella misura versata".

avv. Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 117 del 2014

Il CDS stronca senza perifrasi la perequazione alla veneta con opere fuori ambito

13 Feb 2014
13 Febbraio 2014

Che la cosiddetta "perequazione" sia una sorta di escrescenza maligna dell'urbanistica a noi è sempre apparso evidente. Ma non tutti lo pensano o, se lo pensano, non lo dicono.   In verità ci risulta difficile non pensare che la perequazione sia diventata una imposta creata illegittimamente dai comuni in violazione dell'articolo 23 della Costituzione (perchè manca una legge statale che la giustifichi).  

Un mezzo passo avanti, però, lo fa il Consiglio di Stato con la sentenza n. 616 del 2014, che stronca duramente una perequazione accettata dal comune di Oderzo. Oggetto del ricorso di un dissenziente erano il P.I. e gli atti presupposti (tra i quali l'accordo di pianificazione ex art. 6 l.r. n. 11/2004),  che hanno modificato la destinazione di un’area da residenziale a commerciale direzionale, rendendo possibile  la realizzazione da parte della controinteressata di un fabbricato ad uso commerciale direzionale, con annessa sistemazione della viabilità contermine, in modo particolare mediante la realizzazione di una rotonda al fine di favorire gli accessi limitrofi. In via perequativa, a fronte della nuova destinazione urbanistica dell’area oggetto dell’accordo, il soggetto privato si impegnava nei confronti dell’amministrazione comunale alla realizzazione degli interventi di sistemazione e riqualificazione di Piazza della Vittoria.

Il Consiglio di Stato ha accolto il motivo di ricorso col quale l ’appellante lamentava la violazione dell’art. 46 delle norme tecniche del PAT, delle linee guida approvate con delibera n. 60 del giorno 8 marzo 2010, nonché eccesso di potere sotto il profilo dell’illogicità, dello sviamento e del difetto di istruttoria. In concreto, l’appellante si doleva della modalità con cui era stato applicato al caso in specie il principio perequativo, atteso che l’accordo intervenuto tra il Comune e la ditta interessata si è fondato sulla disponibilità della società a realizzare a proprie spese, in cambio della variazione della destinazione urbanistica dell’area di interesse, gli interventi di risistemazione di un’area pubblica, ossia piazza della Vittoria, per un importo di circa €. 400.000 Euro, dando vita così ad opere slegate funzionalmente con l’area dell’intervento.

Così il Consiglio di Stato spiega perchè la perequazione non può portare a realizzare opere fuori ambito: " Osserva la Sezione come il tema del rispetto degli standard urbanistici abbia nuovamente assunto di recente un rilievo centrale nell’ambito degli strumenti di governo del territorio. In questo senso, sono riscontrabili non solo interventi normativi (peraltro organizzati secondo prospettive dialetticamente opposte riguardo al tema della loro necessità e cogenza, poiché mirano, da un lato - come nel caso della legge 14 gennaio 2013, n. 10 “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani” - a marcarne la rilevanza ai fini della qualità di vita urbana e, dall’altro – come con l’introduzione dell’art. 2-bis “Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati” nel d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia” – a renderne al contrario più flessibile e meno stringente il contenuto), ma anche prese di posizione di questo Consiglio, che non si è sottratto al dovere di esprimere il proprio avviso su un tema così rilevante nella costruzione del tessuto urbanistico. In particolare, questo Giudice ha già delineato una propria linea interpretativa in merito al collegamento tra interventi edilizi e ricerca  degli standard urbanistici e ha così assunto decisioni che hanno, ad esempio, negato la sufficienza di un parcheggio collocato in area non fruibile, dove la fruibilità era collegata non a valutazioni normative, ma fattuali, poiché il “terreno pertinenziale destinato a parcheggio deve ragionevolmente intendersi come condizione necessaria per la migliore fruizione del parcheggio medesimo da parte di tutti coloro che intendono comodamente accedervi con i propri mezzi di locomozione per poi uscire con i relativi acquisti più o meno ingombranti e/o pesanti da collocare su tali mezzi” (Consiglio di Stato, sez. V, 25 giugno 2010 n. 4059); oppure decisioni che hanno evidenziato i pericoli legati alla smaterializzazione degli standard, sottolineando come “la monetizzazione degli standard urbanistici non può essere considerata alla stregua di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò perché, da un lato, così facendo si legittima la paradossale situazione di separare i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della  qualità di vita degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela giuridica agli interessi concretamente lesi degli abitanti dell’area” (Consiglio di Stato, sez. IV, ord. 4 febbraio 2013 n. 644). Ancora, si è affermato che “qualora si potessero individuare gli standard costruttivi in ragione del solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente posto in ombra il dato funzionale, ossia la destinazione concreta dell’area, come voluta dal legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa a disposizione di aree non utilizzabili in concreto (ossia, seguendo l’indicazione del T.A.R., utilizzando “le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti un posto macchina standard ma insufficienti per realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile accesso”), la norma di garanzia verrebbe frustrata, atteso che il citato art. 41 sexsies della legge urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo, ma un dato mirato ad uno scopo esplicito” (Consiglio di Stato, sez. IV, 28 maggio 13 n. 2916). Come si vede, il quadro complessivo emergente dalla giurisprudenza è quello di una marcata attenzione alla funzione stessa degli standard urbanistici, intesi come indicatori minimi della qualità edificatoria (e così riferiti ai limiti inderogabili di densità edilizia, di rapporti spaziali tra le costruzioni e di disponibilità di aree destinate alla fruizione collettiva) e come tali destinati a connettersi direttamente con le aspettative dei fruitori dell’area interessata. Il che comporta, come già notato dalle decisioni che precedono, come il criterio essenziale di valorizzazione e di decisione sulla congruità dello standard applicato sia quello della funzionalizzazione dello stesso al rispetto delle esigenze della popolazione stanziata sul territorio, che dovrà quindi essere posta in condizione di godere, concretamente e non virtualmente, del quantum di standard urbanistici garantiti dalla disciplina urbanistica. La Sezione non può peraltro esimersi dal notare come la cogenza di questa stretta correlazione spaziale tra intervento edilizio e localizzazione dello standard, correlazione che connota il tema della qualità edilizia, assuma una valenza ancora più marcata nei casi in cui operino strumenti urbanistici informati al principio della perequazione. Infatti, la soluzione perequativa, che tende ad attenuare gli impatti discriminatori della pianificazione a zone, sia in funzione di un meno oneroso acquisto in favore della mano pubblica dei suoli da destinare a finalità collettive, sia per conseguire un’effettiva equità distributiva della rendita fondiaria, si fonda su una serie di strumenti operativi che, letti senza un congruo ancoraggio con le necessità concrete cui si riferiscono, favoriscono astrazioni concettuali pericolose. L’utilizzo di formule retoricamente allettanti (aree di decollo, aree di atterraggio, pertinenze indirette, trasferimenti di diritti volumetrici et similia) non deve fare dimenticare che lo scopo della disciplina urbanistica non è la massimizzazione dell’aggressione del territorio, ma la fruizione, privata o collettiva, delle aree in modo pur sempre coerente con le aspettative di vita della popolazione che ivi risiede. In particolare, l’assenza di una disciplina nazionale sulla perequazione urbanistica (tanto più necessaria dopo che la Corte costituzionale ha affermato, con la sentenza del 26 marzo 2010 n, 121, che le “previsioni, relative al trasferimento ed alla cessione dei diritti edificatori, incidono sulla materia «ordinamento civile», di competenza esclusiva dello Stato”, con ciò rendendo dubbia la presenza di discipline regionali emanate prima della fissazione di un quadro organico statale - che non si limiti all’aspetto della mera documentazione della trascrizione dei diritti edificatori, di cui all’art. 5 comma 3 del D.L. 13 maggio 2011, n. 70) dimostra la viva necessità di una disamina concreta delle diverse previsioni adottate negli strumenti urbanistici, al fine di evitare che l’estrema flessibilità delle soluzioni operative adottate dalle singole Regioni si traduca in una lesione di ineliminabili esigenze di salvaguardia dei livelli qualitativi omogenei di convivenza civile (e la riconducibilità dell’attività amministrativa, intesa come “prestazione”, al parametro di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m) della Costituzione, proprio in rapporto a istituti di diritto dell’edilizia, è chiarissima nella giurisprudenza del giudice delle leggi, cfr. Corte Costituzionale, 27 giugno 2012 n. 164). Conclusivamente, la Sezione intende rimanere fedele al suo orientamento che vede lo standard urbanistico collocarsi spazialmente e funzionalmente in prossimità dell’area di intervento edilizio, al fine di legare strettamente e indissolubilmente commoda e incommoda della modificazione sul territorio. Sulla scorta delle coordinate appena indicate, appare del tutto palmare l’inidoneità della soluzione proposta dal Comune, che ha reperito gli standard collegati all’intervento edilizio proposto dalla parte privata appellata acconsentendo alla realizzazione di un’opera pubblica in area non contigua né funzionalmente collegata con quella di riferimento. Infatti, con l’accordo intervenuto tra il Comune e la CAMA s.r.l. si è stabilito che la società, in cambio della variazione della destinazione urbanistica dell’area di interesse, realizzasse a proprie spese gli interventi di risistemazione di un’area pubblica, ossia piazza della Vittoria, per un importo di circa €. 400.000 Euro. Si tratta di un’area collocata in zona non contigua né funzionalmente collegata con il sito dove avverrà la trasformazione urbanistica da residenziale a commerciale. Il primo giudice ha dato atto che le norme tecniche del PAT ammettono il ricorso alla procedura perequativa, disponendo in termini generali che per le aree interessate dalle linee di espansione residenziale la modalità perequativa consiste nella cessione del 50% dell’area che il PI attiverà, da destinare alla dotazione urbanistica o al trasferimento dei crediti edilizi. La stessa disposizione prevede inoltre che, in alternativa alla cessione delle aree e a seguito della valutazione operata da parte dell’amministrazione, potrà essere ammessa la realizzazione di opere di interesse pubblico, laddove l’amministrazione ne ravvisi l’opportunità. Tuttavia, interpretando il contenuto di tale disciplina, ha fondamentalmente scisso i due momenti, affermando che, “se è vero che in linea generale la medesima disposizione delle norme tecniche qui richiamata prevede che ai fini perequativi possano anche essere considerate aree distinte e non contigue, purchèé funzionalmente collegate, è anche vero che detta prescrizione si collega direttamente all’ipotesi ordinaria e cioè a quella per cui la modalità perequativa viene perseguita mediante la cessione di una percentuale delle aree che il PI attiverà. All’ipotesi diversa e derogatoria rispetto a tale previsione, ossia quella consistente nella realizzazione a spese del privato di opere di pubblico interesse, non pare applicabile anche l’invocato requisito della contiguità e funzionalità delle aree, per il semplice motivo che le valutazioni dell’amministrazione (valutazione che, richiamando il termine utilizzato nella stessa disposizione, è di opportunità) possono anche ravvisare l’interesse alla realizzazione di opere in altri ambiti del territorio comunale. In altre parole, una volta ammesso che ai fini della perequazione sia possibile anche compensare il vantaggio ricevuto con la realizzazione di un’opera pubblica, ciò non implica necessariamente che detta opera debba essere unicamente realizzata in aree funzionalmente collegate. In realtà come correttamente indicato nelle linee guida di cui alla delibera di Giunta n. 60/2010, è sufficiente che si tratti di opere rientranti nel programma triennale delle opere pubbliche e quindi che le stesse siano giustificate dalla programmazione comunale e dall’interesse pubblico sotteso alla loro realizzazione.” La Sezione contrasta decisamente tale assunto, proprio nella considerazione che la tipologia di esigenze pubbliche, che giustificano l’inserimento di un’opera nel programma triennale di cui all’art. 128 del codice appalti, non sono sovrapponibili a quelle che animano la disciplina degli standard urbanistici, visti i contesti topograficamente differenziati e gli interessi dimensionalmente distinti che li giustificano. In particolare, la vicenda qui in esame lo dimostra in maniera  lampante come gli interessi privati e pubblici sottesi ai due diversi provvedimenti siano addirittura opposti: infatti, se è vero che in una determinata area cittadina vi sarà un miglioramento della viabilità, è pur vero che in un’altra avrà luogo un parallelo peggioramento della qualità di vita, conseguente alla diversa dislocazione degli interventi edificatori. Il che contrasta con il criterio di radicamento territoriale degli standard sopra evidenziato e rende concreto quel pericolo di miopia concettuale sopra tratteggiato, dove il rispetto della costruzione teorica fa perdere di vista il risultato effettivamente conseguito e il suo impatto sul territorio. E deve essere rimarcato come il ricorso a concetti di più difficile concretizzazione, come appunto quello di interesse pubblico, non deve far dimenticare come questo non abbia una sua connotazione unica e globalizzante, ma sia oggettivamente complesso, frammentato e, nella sua connotazione più utilizzata, quella di interesse pubblico in concreto, sia il frutto di una ponderazione di tutti gli interessi, privati e pubblici, che si equilibrano nel procedimento. Il che rende ragione dell’insidiosità della sovrapposizione (e della ritenuta preminenza) dell’interesse concreto che ha giustificato la redazione di un atto amministrativo, come il piano triennale delle opere pubbliche, rispetto all’altro interesse concreto (ma individuato in generale in previsioni di rango legislativo e regolamentare) che impone il rispetto degli standard urbanistici. Pertanto, in riforma della pronuncia del primo giudice, deve darsi atto dell’effettivo contrasto degli atti gravati con l’art. 46 delle norme tecniche del PAT e delle linee guida approvate con delibera n. 60 del giorno 8 marzo 2010, con consequenziale declaratoria di illegittimità in parte qua".

avv. Dario Meneguzzo

sentenza CDS 616 del 2014

Se il comune approva un nuovo piano degli interventi il ricorso contro il precedente P.I. vale anche contro il nuovo?

13 Feb 2014
13 Febbraio 2014

Alla domanda risponde sostanzialmente di si il Consiglio di Stato nella sentenza n. 616 del 2014, limitatamente alle previsioni di identico contenuto.

Dal punto di vista tecnico, il CDS ritiene che in quei casi vi sia una mera conferma delle previsioni già vigenti e nemmeno con valore novativo (e per questo, dunque, basta il primo ricorso).

Si legge nella sentenza: "1. - In via preliminare, occorre prendere posizione sull’eccezione di improcedibilità dell’appello, proposta dalla controinteressata CAMA s.p.a., dovuta all’intervenuta approvazione da parte del Comune di Oderzo in data successiva alla pubblicazione della sentenza gravata, di un nuovo piano degli interventi, denominato n. 2, sulla cui base si fonda ora la facoltà edificatoria e che pertanto l’accoglimento del gravame non porterebbe alcun vantaggio concreto all’appellante in quanto l’intervento edilizio potrebbe essere attuato sulla base del nuovo strumento.

1.1. - L’eccezione non può essere accolta. Osserva la Sezione come, in via generale (da ultimo, Consiglio di Stato, V, 26 settembre 2013, n. 479; id., 15 marzo 2010, n. 1280; ma anche in continuità con quanto già notato in sede cautelare dall’ordinanza n. 4458/2012), la declaratoria di improcedibilità di un ricorso giurisdizionale per sopravvenuta carenza di interesse può derivare o da un mutamento della situazione di fatto o di diritto presente al momento della presentazione del ricorso, che faccia venire meno l'effetto del provvedimento impugnato, ovvero dall'adozione, da parte dell'Amministrazione, di un provvedimento che, idoneo a ridefinire l'assetto degli interessi in gioco, pur senza avere alcun effetto satisfattivo nei confronti del ricorrente, sia tale da rendere certa e definitiva l'inutilità della sentenza, in ciò distinguendosi dalla cessazione della materia del contendere, che si verifica allorquando l'Amministrazione, in pendenza del giudizio, annulli o comunque riformi in maniera satisfattoria per il ricorrente il provvedimento amministrativo contro cui è stato proposto il ricorso. La pronuncia d’improcedibilità postula quindi una positiva verifica sulla sovrapponibilità non degli atti, astrattamente intesi come successione cronologica di provvedimenti emessi in un determinato ambito, ma dall’incompatibilità degli effetti che da questi derivano, qualora producano discipline tra loro incidenti nel medesimo segmento d’azione amministrativa. Nel caso in esame, il rapporto tra le due successive fasi procedimentali in esame, ossia quella che ha dato origine alla sentenza gravata, sulla base delle delibere descritte nella parte in fatto, e quella successiva, culminata con l’approvazione del nuovo piano di interventi, data con delibera consiliare n. 29 del 6 giugno 2012, non implica una parallela successione della disciplina applicabile nell’area in esame. Infatti, tra i due strumenti vi è una sostanziale continuità, specialmente per quanto riguarda gli interventi qui in scrutinio. In particolare, la delibera n. 15 del 2012, relativa all’adozione del piano n. 2, si appropria delle precedenti deliberazioni in materia, evidenziando l’inesistenza di una cesura disciplinare. Si legge, infatti, nella parte introduttiva della stessa delibera che “il Piano degli Interventi n. 2 per quanto riguarda la pianificazione recepisce il Piano degli Interventi vigenti conseguentemente le previsioni urbanistiche rimangono sostanzialmente invariate” e che “per quanto riguarda la variante approvata dal Consiglio comunale con la deliberazione n. 7 del 23/02/2011 su proposta della ditta CAMA, si confermano i contenuti della predetta deliberazione, conformandoli al presente Piano degli Interventi”. Non può quindi dirsi che il nuovo piano degli interventi abbia mutato la disciplina valevole in area e, in particolare, abbia inciso sull’intervento in esame, atteso che non vi è un’innovazione nell’ordinamento, ma una mera conferma delle previsioni già vigenti e nemmeno con valore novativo, atteso che la ripresa degli effetti non determina neppure un momento di iato dei tempi di efficacia, attesa l’evidenziata continuità delle previsioni già vigenti. Deve quindi respingersi la proposta eccezione d’improcedibilità".

sentenza CDS 616 del 2014

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