Author Archive for: SanVittore

L’area di cava comprende non solo il “buco” ma anche le zone circostanti funzionali all’attività

28 Gen 2013
28 Gennaio 2013

La sentenza del TAR Veneto n. 18 del 2013, già allegata al post che precede, ha ritenuto illegittima una autorizzazione ad ampliare una attività dei cava.

Il Comune ricorrente aveva sostenuto la violazione dell’art. 13 della L.R. n. 44/1982, in quanto il calcolo effettuato per accertare il rispetto del limite di escavazione dettato dalla normativa regionale non risultava corretto, essendo basato su un erroneo presupposto. Invero, il computo operato dalla Regione individuava quale superficie del territorio comunale destinata all’attività di cava la sola area interessata direttamente dall’escavazione, dimenticando che l’attività di cava coinvolge non solo lo spazio strettamente destinato allo scavo, ma anche l’area circostante, utilizzata per l’accumulo dei materiali, agli spazi di manovra dei mezzi, nonché dalle operazioni di carico e scarico dei materiali, essendo tutte attività funzionalmente riconducibili all’attività di cava.

Scrive il TAR: "Un primo e sicuramente assorbente profilo di illegittimità del provvedimento impugnato riguarda il criterio in base al quale è stata definita l’estensione dell’area di cava, che secondo il Comune non andrebbe limitata alla sola superficie di scavo (il “buco” ricavato dalle escavazioni, come più semplicisticamente definito), ma dovrebbe estendersi anche alle altre zone strettamente e funzionalmente collegate con l’area in concreto escavata.
Parte ricorrente invoca a sostegno della propria tesi interpretativa la sentenza n. 5186/2008, con la quale il Consiglio di Stato, Sesta Sezione, nel pronunciarsi in ordine al giudizio instaurato dallo stesso Comune nei confronti delle medesime parti oggi intimate avverso la delibera regionale che aveva autorizzato l’apertura e la coltivazione della Cava Betlemme, ha affermato che per area di cava deve intendersi non solo l’area di escavazione, ma l’intera area destinata ad attività di cava, comprensiva, oltre allo scavo, anche di quella di accumulo dei materiali, di manovra e di carico e scarico, in quanto comunque funzionale all’attività di cava.
A tale tesi, la difesa controinteressata oppone una successiva pronuncia della Quinta Sezione del Consiglio di Stato, n. 1785/2011, ancora una volta coinvolgente le parti qui costituite, nella quale è stato affermato che, al fine di stabilire quale sia la superficie della cava, agli effetti del calcolo del 3%, bisogna fare riferimento a quella parte in cui vengono effettuate le operazioni che consistono nella estrazione e sistemazione del materiale estratto, non potendosi computare l’ambito circonvicino, ove può essere presente, anche occasionalmente, il passaggio dei mezzi che accedono all’area di cava.
Tale diversa interpretazione, condivisa dalla Regione, consentirebbe quindi di ridurre l’ambito da considerare al fine del rispetto del limite di sfruttamento del territorio comunale, il quale nella fattispecie risulterebbe osservato.
Osserva il Collegio che, in realtà, da una lettura delle due pronunce non è rilevabile un vero e proprio diverso orientamento, ma piuttosto la sostanziale espressione del medesimo principio.
Va dato atto che la prima sentenza è stata espressa in occasione della valutazione della legittimità delle delibera che aveva autorizzato l’apertura della cava Betlemme con riguardo alla VIA : tuttavia, non può essere ignorato il fatto che la definizione ivi contenuta di “area interessata dalla cava”, sebbene poi utilizzata al fine di specificare la funzione della VIA ai fini della valutazione dell’impatto ambientale derivante dall’apertura della nuova cava, non contrasti con quello successivamente espresso nella seconda sentenza.
Invero, se la più ampia definizione è stata resa dal primo giudice al fine di assicurare che il giudizio di VIA considerasse complessivamente l’impatto sul territorio derivante non solo dall’escavazione, ma anche dalle attività funzionali a quella di cava, esaminando attentamente la seconda pronuncia, non si può concludere nel senso che debba essere considerata solo l’area di escavazione.
Anche il secondo giudice ha infatti rilevato come l’estensione della cava, ai fini del rispetto del limite del 3%, se non deve estendersi alle zone in cui non vi è un diretto coinvolgimento in rapporto all’attività estrattiva, cionondimeno, deve essere comunque considerato l’ambito interessato dalle attività di estrazione e sistemazione del materiale estratto.
In questo modo è inevitabile concludere nel senso che il computo dell’area di cava deve tenere conto dell’area effettivamente scavata, ma anche delle zone contermini parimenti utilizzate ai fini dello svolgimento dell’attività di scavo, ad essa funzionali, quali sono in primo luogo quelle dedicate alla sistemazione e movimentazione del materiale estratto.
Non può, invero, logicamente negarsi che anche tale, più estesa superficie, oltre al mero “buco” di scavo, debba essere presa in considerazione, essendo area comunque funzionale in modo diretto ed inequivocabile con l’attività di cava e quindi assibilabile all’area di cava.
Se può anche rivelarsi opinabile comprendere le strade percorse dai mezzi impiegati per il trasporto del materiale, non può tuttavia escludersi che altre aree destinate alle lavorazioni o agli accumuli di materiale debbano essere computate.
Il che comporta, in accoglimento del primo motivo di ricorso, che il computo da effettuare al fine di accertare il rispetto del limite percentuale di sfruttamento del territorio del Comune di Sommacampagna debba essere rivisto, tenendo conto delle indicazioni sopra evidenziate, onde assicurare il rispetto del territorio comunale ed evitare un’eccessiva compromissione dello stesso per effetto dell’ampliamento dell’attività di cava ivi esistenti".

L’intervento ad adiuvandum deve essere proposto e notificato (anche al ricorrente) solo dopo il deposito in Segreteria del ricorso principale

28 Gen 2013
28 Gennaio 2013

Il TAR Veneto, con la sentenza n. 18 del 2013, dichiara inammissibile un intervento ad adiuvandum di Legambiente in un caso nel quale un Comune aveva impugnato una autorizzazione regionale per ampliare una cava.

Il ricorso è stato dichiarato inammissibile per due motivi: perchè è stato notificato prima che il ricorrente principale depositasasse il suo ricorso presso la Segreteria del TAR e perchè non è stato notificato anche al ricorrente principale.

Scrive il TAR: "laddove si volesse intendere, come appare desumibile dal tenore dell’atto, che la posizione fatta valere dall’associazione sia quella di interveniente ad adiuvandum, anche in questa seconda ipotesi l’intervento risulta inammissibile o irricevibile in quanto notificato in epoca pressoché contestuale all’avvenuta notifica del ricorso principale da parte del Comune di Sommacampagna.
Va invero ricordato che, in base ai principi generali, la semplice notifica del ricorso non è in grado di instaurare il rapporto processuale, che non può dirsi formato fino a quando il ricorrente non abbia portato la lite a conoscenza del giudice, e cioè col deposito del ricorso presso la segreteria del Tribunale; pertanto, prima di tale momento, l'atto d'intervento ad adiuvandum è inammissibile, essendo la sua proposizione subordinata alla previa notificazione a tutte le parti del rapporto processuale, ai sensi dell'art. 38 R.D. 17 agosto 1907 n. 642, e ciò non può avvenire quando non si è determinato il presupposto per l'instaurazione del giudizio ed ancora non vi è neppure un rapporto processuale.
Poiché quindi, in base alle disposizioni del codice del processo amministrativo, la costituzione del rapporto processuale può ritenersi avvenuta all’atto della costituzione in giudizio del ricorrente, mediante il deposito presso la Segreteria del Tribunale amministrativo regionale del ricorso con la prova delle effettuate notifiche (a differenza che nel processo civile, ove il giudizio inizia con la citazione) e considerato che, in base all’art. 50 c.p.a., l’intervento va proposto con atto diretto al giudice adito, il che presuppone già costituito il rapporto processuale da parte del ricorrente principale, ne consegue che nel caso di specie, ove l’intervento risulta notificato in epoca pressoché contestuale alla notifica del ricorso principale, non ancora depositato a cura del ricorrente Comune di Sommacampagna, la posizione processuale dell’associazione Legambiente quale interveniente ad adiuvandum deve considerarsi inammissibile.
In ogni caso, anche voler ritenere superabile la suddetta eccezione in quanto sanabile, nonostante la “precocità”, attesa la successiva instaurazione del rapporto processuale da parte del ricorrente principale per effetto del deposito del ricorso, l’intervento risulta inammissibile anche per mancata notifica al ricorrente principale: l'atto di intervento ad adiuvandum deve infatti essere notificato a pena di inammissibilità, anche ai ricorrenti, in quanto il collegamento processuale fra interventore e ricorrente deve essere formalmente stabilito nei modi previsti dalla legge".

sentenza tar Veneto 18 del 2013

Il Comune può subordinare il rilascio del certificato di agibilità alla presentazione di atto di vincolo di destinazione d’uso a prima casa

25 Gen 2013
25 Gennaio 2013

Il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 324 del 21 gennaio 2013, ha stabilito che la prescrizione secondo cui, il certificato di agibilità di un immobile sarebbe stato rilasciato per ogni singola unità abitativa dopo che l’Amministrazione comunale ne avesse conosciuto l’acquirente e quest’ultimo avesse sottoscritto l’atto di vincolo di prima casa non è da ritenersi un atto illegittimo per eccesso di potere o per violazione di legge.

In questa articolata sentenza, il Consiglio di Stato ricorda come la convenzione di lottizzazione sia da in inquadrare negli accordi sostitutivi di cui all’art. 11 della l. n. 241/1990 (Cass. civ. Sez. Unite , 1 luglio 2009, n. 15388; Cons. Stato Sez. IV Sent., 29 febbraio 2008, n. 781; Sez. IV, 2 agosto 2011, n. 4576). “Tali accordi, inserendosi nell'alveo dell'esercizio di un potere, ne mutuano le caratteristiche e la natura, salva l'applicazione dei principi civilistici in materia di obbligazioni e contratti per aspetti non incompatibili con la generale disciplina pubblicistica. La lottizzazione costituisce quindi esercizio consensuale di un potere pianificatorio che sfocia in un progetto ed in una serie di disposizioni urbanistiche generanti obbligazioni od oneri, rese pubbliche attraverso la trascrizione, che si impongono anche agli aventi causa dal lottizzante in forza della loro provenienza e funzione sostitutiva”.

A chi sostiene la nullità della clausola contenuta nello schema di atto d’obbligo che accede alla convenzione di lottizzazione e subordina il rilascio del certificato di agibilità dell’immobile alla presentazione dell’atto di vincolo di prima casa, il Consiglio risponde che “la clausola convenzionale ha solo l’effetto di modulare consensualmente i successivi segmenti procedimentali, postergando la valutazione dell’abitabilità all’individuazione del fruitore dell’immobile, in modo da monitorare l’effettiva realizzazione del fine sociale per il quale la costruzione degli immobili è stata assentita, e non già di inserire nella valutazione ai fini dell’abitabilità elementi eterogenei rispetto a quelli previsti dal legislatore. Né può trarsi dalla clausola un divieto di vendita o di commercializzazione delle unità immobiliari, atteso che esse sono state edificate proprio al fine di essere adibite a prima casa, ossia di realizzare una funzione sociale particolarmente meritevole che proprio la clausola tende ad assicurare attraverso la previsione di una preliminare fase di monitoraggio, che certamente non preclude la stipula di contratti preliminari di vendita né di quelli definitivi”.

dott.sa Giada Scuccato

sentenza CDS 324 del 2013

Schema di decreto legislativo recante il riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni

25 Gen 2013
25 Gennaio 2013

Lo schema è stato approvato in prima lettura dal Consiglio dei Ministri n. 66 del 22 gennaio 2013.

Lo schema può essere interessante, allo stato, per l'aggiornamento delle previsioni evolutive dei programmi gestionali informatici in ordine alla prevista pubblicazione on line di tutti gli elaborati ed anche delle proposte prima dell'approvazione.

Trasparenza_schema_Dlgs

estratto schema Dlgs

I terzi possono contestare DIA e SCIA “esclusivamente” nel modo previsto dall’art. 19, comma 6 ter, della l. 241/90

24 Gen 2013
24 Gennaio 2013

La sentenza del TAR Veneto n. 12 del 2013 contiene un interessante esame dei rimedi spettanti aim terzi che intendono contestare una DIA o una SCIA.

Scrive il TAR: "Ritiene il Collegio che nella specie debba trovare applicazione ratione temporis, in considerazione dell’epoca in cui i ricorrenti hanno presentato il ricorso (escludendosi così la riferibilità temporale al momento in cui la d.i.a. si è perfezionata), quale norma di contenuto processuale, la nuova disciplina di cui all’art. 19, comma 6 ter della l. 241/90.
Orbene, per effetto della disciplina così introdotta è stata definitivamente chiarita la natura della dichiarazione di inizio attività e con essa la disciplina del rimedio assegnato al terzo per la tutela della propria posizione nei confronti degli interventi eseguiti in conseguenza della d.i.a.: è stato quindi previsto che "la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'Amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31 commi 1, 2 e 3 D.L.vo 2 luglio 2010 n. 104".
L'utilizzo dell'avverbio "esclusivamente" ha escluso ogni dubbio circa la tipologia di azione esperibile.
Non è quindi accoglibile la ricostruzione di parte ricorrente, così come prospettata quale petitum principale, nel momento in cui si impugna il silenzio negativo (come se si fosse in presenza di un provvedimento tacito) e, nel contempo, propone un'azione di condanna (c.d. di adempimento) dell'Amministrazione all'esercizio del potere inibitorio.
La modifica legislativa sopra ricordata si è quindi discostata, almeno in parte, dall'impostazione dell'Ad. plen. n. 15 del 2011 e, ciò, nella parte in cui l'eventuale silenzio della stessa Amministrazione non può più configurare un'ipotesi di provvedimento tacito di diniego dell'adozione del provvedimento restrittivo.
Ne consegue che il soggetto, terzo ed eventualmente leso, non può impugnare un provvedimento che in realtà non è mai venuto materialmente in esistenza, essendo, com'è tutt'ora, obbligato a presentare un'apposita istanza finalizzata a sollecitare l'Amministrazione affinché questa stessa svolga un'ulteriore fase procedimentale e istruttoria.
Il controinteressato potrà quindi validamente attivare il proponimento di un'istanza di provvedere e di un successivo, ed eventuale, ricorso avverso l'inerzia amministrativa e, ciò, ai sensi di quanto previsto dall'art. 31 Cod. proc. amm.
L’art. 19, comma 6-ter, consente pertanto al terzo che si reputa leso dalla presentazione della DIA/SCIA una sola modalità di tutela (a tale proposito la parola <<esclusivamente>> è stata introdotta in sede di conversione del decreto
legge), vale a dire la sollecitazione all’esercizio delle verifiche spettanti all’Amministrazione e, in caso di inerzia di quest’ultima, la proposizione dell’azione prevista dall’art. 31 del D.Lgs. 104/2010, cioé l’azione contro il silenzio della Pubblica Amministrazione.
Ne consegue che, affinchè possa configurarsi il silenzio dell’amministrazione, suscettibile di dare avvio all’azione disciplinata dall’art. 31 c. p.a., il terzo deve aver “sollecitato” l’amministrazione ad esercitare i poteri di verifica ed eventualmente interdittivi.
Tale sollecitazione deve a sua volta risultare idonea a porre in capo alla P.A. l’obbligo di esercitare i propri poteri di verifica e correlativamente a configurare, in caso di inerzia della P.A. stessa, un silenzio inadempimento, giuridicamente rilevante, censurabile davanti al giudice amministrativo con l’azione di cui all’art. 31 del D.Lgs. 104/2010.
A questo punto, prima di valutare l’idoneità della comunicazione presentata dai ricorrenti al fine di sollecitare il Comune ad intervenire in ordine ai lavori intrapresi dalla controinteressata, il Collegio deve esaminare l’eccezione di illegittimità costituzionale formulata dalla difesa istante con riguardo alla disciplina contenuta nell’art. 19, comma ter, eccezione che tuttavia non ritiene fondata, non rilevandosi i profili di contrasto con i principi contenuti nella Carta costituzionale ed in particolare con quelli di garanzia della difesa processuale delle parti.
Invero, va al riguardo osservato come da un lato, la nuova disciplina abbia inteso assicurare ai soggetti che effettuano la dichiarazione di inizio attività, nell’ottica della semplificazione amministrativa, una garanzia di affidamento, per cui, una volta decorsi i termini di legge dal momento della presentazione della d.i.a., la posizione del dichiarante si consolida, dando luogo alla legittimità dell’intervento denunciato in assenza dell’esercizio da parte dell’amministrazione del tempestivo
esercizio dei poteri interdittivi (salvo in ogni caso, entro le ipotesi previste normativamente, l’esercizio dei poteri di autotutela).
Nella composizione degli opposti interessi e con particolare riguardo alla posizione del terzo controinteressato, che si assume leso dall’esecuzione dell’intervento effettuato a seguito della d.i.a., non è ravvisabile una compromissione dei diritti di difesa, in quanto comunque è consentito al terzo l’avvio del procedimento per sollecitare l’intervento verificatorio da parte dell’amministrazione ed eventualmente repressivo, benché mediante il solo strumento del silenzio.
Non appare quindi pregiudicata in modo sostanziale e in termini di contrasto con i principi costituzionali la posizione del terzo, da cui l’infondatezza dell’eccezione pregiudiziale sollevata dalla difesa istante.
Passando quindi ad esaminare l’eccezione di inammissibilità del ricorso, formulata dalla difesa resistente, in considerazione dell’inidoneità delle comunicazioni effettuate dai ricorrenti a sollecitare l’esercizio dei poteri di verificazione della natura degli interventi in corso di esecuzione per effetto della d.i.a. presentata dalla controinteressata ed eventualmente dei poteri repressivi degli abusi accertati, ritiene il Collegio che l’eccezione sia infondata e quindi il ricorso sia da considerarsi ammissibile.
Invero, dal tenore delle due comunicazioni, effettuate rispettivamente in data 18 e 22 novembre 2011, se è possibile ritenere che in occasione della prima, gli interessati abbiano in principal modo interso richiedere all’amministrazione l’espletamento di un sopralluogo, al fine di verificare la conformità delle opere alla dichiarazione n. 299/11 (con riguardo al rispetto della distanza delle scala dai confini e la larghezza della scala stessa), appare invece inequivocabile la volontà di sollecitare l’esercizio dei poteri di verifica ed eventuale interdizione dei lavori in corso di esecuzione come emergente dalla comunicazione risalente al 22 novembre, ove è stata fatta espressa richiesta di interruzione dei lavori, rilevando l’incidenza delle opere su parti condominali e che gli interventi erano stati avviati senza il necessario consenso dei condòmini.
Il tenore di tale comunicazione appare quindi esplicito e quindi idoneo a costituire la sollecitazione di cui all’art. 19 comma 6-ter citato".

sentenza tar Veneto 12 del 2013

Corte Costituzionale: le Regioni non possono derogare in via generale alle distanze previste dal D.M. 1444 del 1968

24 Gen 2013
24 Gennaio 2013

Lo ribadisce la sentenza della Corte Costituzionale n. 6 del 23 gennaio 2013.

Scrive la Corte: "....Come ricorda correttamente l’ordinanza di rimessione, questa Corte ha già affermato che la regolazione delle distanze tra i fabbricati deve essere inquadrata nella materia «ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenze n. 114 del 2012, n. 173 del 2011, n. 232 del 2005). Infatti, tale disciplina attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi e ha la sua collocazione innanzitutto nel codice civile. La regolazione delle distanze è poi precisata in ulteriori interventi normativi, tra cui rileva, in particolare, il citato d.m. n. 1444 del 1968. Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale ha altresì chiarito che, poiché «i fabbricati insistono su di un territorio che può avere rispetto ad altri – per ragioni naturali e storiche – specifiche caratteristiche, la disciplina che li riguarda – ed in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso – esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici» (sentenza n. 232 del 2005), la cui cura è stata affidata alle Regioni, in base alla competenza concorrente in materia di «governo del territorio», ex art. 117, terzo comma, Cost.

Per queste ragioni, in linea di principio la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo – il governo del territorio – che ne detta anche le modalità di esercizio. Pertanto, la legislazione regionale che interviene in tale ambito è legittima solo in quanto persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico, rimettendo l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 232 del 2005).

Le norme regionali che, disciplinando le distanze tra edifici, esulino da tali finalità, ricadono illegittimamente nella materia «ordinamento civile», riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.

Il punto di equilibrio tra la competenza legislativa statale in materia di «ordinamento civile» e quella regionale in materia di «governo del territorio», come identificato dalla Corte costituzionale, trova una sintesi normativa nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che la Corte costituzionale ha più volte ritenuto dotato di «efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato» (sentenza n. 114 del 2012; ordinanza n. 173 del 2011; sentenza n. 232 del 2005). Quest’ultima disposizione consente che siano fissate distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche». Le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono, dunque, consentite nei limiti ora indicati, se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio.

La norma regionale censurata infrange i principi sopra ricordati, in quanto consente espressamente ai Comuni di derogare alle distanze minime fissate nel d.m. n. 1444 del 1968, senza rispettare le condizioni stabilite dall’art. 9, ultimo comma, del medesimo decreto ministeriale, che, come si è detto, esige che le deroghe siano inserite in appositi strumenti urbanistici, a garanzia dell’interesse pubblico relativo al governo del territorio. La disposizione regionale impugnata, al contrario, autorizza i Comuni ad «individuare gli edifici» dispensati dal rispetto delle distanze minime. La deroga non risulta, dunque, ancorata all’esigenza di realizzare la conformazione omogenea dell’assetto urbanistico di una determinata zona, ma può riguardare singole costruzioni, anche individualmente considerate...".

Sentenza Corte Costituzionale 6 del 2013

 

Seminario di Confindustria Vicenza sul MEPA

23 Gen 2013
23 Gennaio 2013

Il decreto legge 7 maggio 2012, n. 52, “disposizioni urgenti per la razionalizzazione della spesa pubblica”, ha esteso a tutte le amministrazioni pubbliche l'obbligo di utilizzare il Mercato Elettronico, istituito ai sensi dell’articolo 328 del D.P.R. n. 207 del 2010 (www.acquistinretepa.it), ovvero altri mercati elettronici, per effettuare acquisti di beni o forniture di servizi di valore inferiore alla soglia di rilievo comunitario.

L'impatto della norma sulle procedure poste in essere dalle amministrazioni pubbliche è rilevante: cambiano le modalità di effettuare indagini di mercato, indagini dei prezzi, richieste di offerta, valutazioni e aggiudicazioni. Da ultimo, cambiano anche i possibili fornitori rispetto a quelli normalmente individuati mediante l’albo curato da ciascuna amministrazione.

Confindustria Vicenza organizza un seminario sul tema martedì 12 febbraio 2013 (ore 9-13).

L’incontro si propone, in modo concreto e operativo, di fare il punto sullo stato dell’arte, mostrando le modalità di utilizzo del Mercato Elettronico della Pubblica Amministrazione messo a disposizione da CONSIP Spa.

L’incontro sarà tenuto dall’ing. Francesco Porzio, già dirigente CONSIP nella Direzione Acquisti in Rete della Pubblica Amministrazione, esperto di appalti e riduzione della spesa pubblica.

Pubblichiamo al locandina e il modulo di adesione.

Seminario MEPA_pa

Aggiornamento del Piano Regionale di Tutela e Risanamento dell’Atmosfera

23 Gen 2013
23 Gennaio 2013

Sul BUR n. 9 del 22 gennaio 2012 è stata pubblicata la deliberazione della Giunta Regionale n. 2872 del 28.12.2012, recante "Aggiornamento del Piano Regionale di Tutela e Risanamento dell'Atmosfera. Adozione del Documento di Piano, del Rapporto ambientale, del Rapporto ambientale - sintesi non tecnica. D.Lgs. n. 152/2006 s.m.i, D.Lgs 155/2010"

DELIBERAZIONE DELLA GIUNTA REGIONALE N. 2872 del 28/12/2012

Quali attività commerciali si possono fare all’interno delle stazioni di servizio (a proposito di legislatore insipiente)

23 Gen 2013
23 Gennaio 2013

 Il D.L. 24 gennaio 2012 n. 1, contenente “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”, convertito con modificazioni dalla L. 24 marzo 2012 n. 27, all’art. 1 prevede che: “Fermo restando quanto previsto dall'articolo 3 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, in attuazione del principio di libertà di iniziativa economica sancito dall'articolo 41 della Costituzione e del principio di concorrenza sancita dal Trattato dell'Unione europea, sono abrogate, dalla data di entrata in vigore dei decreti di cui al comma 3 del presente articolo e secondo le previsioni del presente articolo:

    a) le norme che prevedono limiti numerici, autorizzazioni, licenze, nulla osta o preventivi atti di assenso dell'amministrazione comunque denominati per l'avvio di un’attività economica non giustificati da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l'ordinamento comunitario nel rispetto del principio di proporzionalità;

    b) le norme che pongono divieti e restrizioni alle attività economiche non adeguati o non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite, nonché' le disposizioni di pianificazione e programmazione territoriale o temporale autoritativa con prevalente finalità economica o prevalente contenuto economico, che pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli, ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate e che in particolare impediscono, condizionano o ritardano l'avvio di nuove attività economiche o l'ingresso di nuovi operatori economici ponendo un trattamento differenziato rispetto agli operatori già presenti sul mercato, operanti in contesti e condizioni analoghi, ovvero impediscono, limitano o condizionano l'offerta di prodotti e servizi al consumatore, nel tempo nello spazio o nelle modalità, ovvero alterano le condizioni di piena concorrenza fra gli operatori economici oppure limitano o condizionano le tutele dei consumatori nei loro confronti.

  2. Le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all'accesso ed all'esercizio delle attività economiche sono in ogni caso interpretate ed applicate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato alle perseguite finalità di interesse pubblico generale, alla stregua dei principi costituzionali per i quali l'iniziativa economica privata è libera secondo condizioni di piena concorrenza e pari opportunità tra tutti i soggetti, presenti e futuri, ed ammette solo i limiti, i programmi e i controlli necessari ad evitare possibili danni alla salute, all'ambiente, al paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e possibili contrasti con l’utilità sociale, con l'ordine pubblico, con il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed internazionali della Repubblica”.

 

Nonostante l’asserita abrogazione delle normative che prevedono dei limiti numerici/quantitativi alle attività economico-commerciali, all’art. 17, c. 4, del medesimo Decreto Legge si prevede che: “All'articolo 28 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, sono apportate le seguenti modificazioni:

    a) il comma 8 è sostituito dal seguente:

      "8. Al fine di incrementare la concorrenzialità, l'efficienza del mercato e la qualità dei servizi nel settore degli impianti di distribuzione dei carburanti, è sempre consentito in tali impianti:

      a) l'esercizio dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande di cui all'articolo 5, comma 1, lettera b), della legge 25 agosto 1991, n. 287, fermo restando il rispetto delle prescrizioni di cui all'articolo 64, commi 5 e 6, e il possesso dei requisiti di onorabilità e professionali di cui all'articolo 71 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59;

      b) l'esercizio dell’attività di un punto di vendita non esclusivo di quotidiani e periodici senza limiti di ampiezza  della superficie dell'impianto e l'esercizio della rivendita di tabacchi, nel rispetto delle norme e delle prescrizioni tecniche che disciplinano lo svolgimento delle attività di cui alla presente lettera, presso gli impianti di distribuzione carburanti con una superficie minima di 500 mq;

      c) la vendita di ogni bene e servizio, nel  rispetto della vigente normativa relativa al bene e al servizio posto in vendita, a condizione che l'ente proprietario o gestore della strada verifichi il rispetto delle condizioni di sicurezza stradale”.

Dunque, in base ad una interpretazione strettamente letterale, all’interno delle stazioni di servizio sono ammesse solamente le attività commerciali previste dall’art. 5, c. 1, lett. b), l. 25.08.1991 n. 287, ossia gli “esercizi per la somministrazione di bevande, comprese quelle alcooliche di qualsiasi gradazione, nonché' di latte, di dolciumi, compresi i generi di pasticceria e gelateria, e di prodotti di gastronomia (bar, caffè, gelaterie, pasticcerie ed esercizi similari)”, con le limitazioni previste dagli artt. 64 e 71 del D. Lgs. 59/2010 in tema di sorvegliabilità, di rispetto della normativa urbanistico-edilizia, igienico-sanitaria e di sicurezza nei luoghi di lavoro e dei requisiti professionali e di onorabilità

Al contrario, per altre attività similari o comunque strettamente connesse a quelle testé citate - tra cui quelle previste dall’art. 5, c. 1, lett. a), l 25.08.1991, n. 287 aventi ad oggetto gli “esercizi di ristorazione, per la somministrazione di pasti e di bevande, comprese quelle aventi un contenuto alcoolico superiore al 21 per cento del volume, e di latte (ristoranti, trattorie, tavole calde, pizzerie, birrerie ed esercizi similari)”- la possibilità di realizzarle all’interno delle aree di servizio è subordinata al rispetto dei limiti quantitativi e dimensionali previsti dalla l.r. Veneto 21 settembre 2007, n. 29 concernete la “Disciplina dell’esercizio dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande”.

Quanto esposto è confermato dalla Deliberazione della Giunta Regionale n. 1010 del 05 giugno 2012, pubblicata nel BUR n. 49 del 26.06.2012.

Alla luce della normativa adottata nasce spontaneo un quesito: l’intenzione del legislatore non era di favorire la libertà di iniziativa economica sancita dalla Costituzione e dalle normative comunitarie abolendo ogni tipologia di restrizione alla libera concorrenza?

dott. Matteo Acquasaliente

DGRV n. 1010 del 2011

L’A.P. sul soggetto competente alla verifica dell’anomalia dell’offerta in una gara con l’offerta economicamente più vantaggiosa

23 Gen 2013
23 Gennaio 2013

Le procedure di affidamento degli appalti pubblici di lavori servizi e forniture, si articolano in una serie di fasi finalizzate all’aggiudicazione a favore del soggetto miglior offerente, selezionato sulla base di criteri legislativamente stabiliti negli articoli 81 e 84 del D.Lgs n. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici) che sono il criterio del prezzo più basso e quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa indicati nella delibera a contrarre e nel bando o lettera di invito.

Nella dinamica procedimentale volta all’aggiudicazione può accadere che l’offerta presentata dal partecipante alla gara appaia anormalmente bassa rispetto all’entità delle prestazioni richieste nel bando e cioè apparentemente troppo gravosa per l’offerente e molto conveniente per la P.A..

Ciò potrebbe suscitare il sospetto della scarsa serietà dell’offerta o di una non corretta esecuzione della prestazione contrattuale, laddove, l’offerta anomala, non consente di assicurare il conseguimento di un profitto anche se, occorre dirlo, non sempre un’offerta che consente un maggiore risparmio per la P.A. corrisponde ad una non esatta esecuzione della commessa pubblica.

Per superare le diffidenze che la presentazione di offerte a primo impatto anomale impone, il Codice dei contratti pubblici prevede la verifica di congruità dell’offerta volta a verificare la sostenibilità, l’attendibilità e reale convenienza.

L’obbiettivo di fondo è contemperare  due opposte esigenze: da un lato la convenienza della P.A. ad affidare l’appalto al prezzo più basso e dall’altro evitare l’esecuzione della prestazione al di sotto di un limite dettato dalle leggi del mercato a discapito di una corretta prestazione contrattuale con effetti distorsivi, tra l’altro anche sulla concorrenza.

Ma nell’ambito di una gara di appalto da aggiudicare, poniamo, col criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, dopo la presentazione delle offerte e l’apertura delle buste chi procede ad individuare la cosiddetta soglia di anomalia?

A tal proposito gli operatori del diritto, prima dell’intervento chiarificatore dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, davano due risposte differenti.

Un primo filone individuava in capo alla commissione aggiudicatrice, costituita ex art. 84 del D.Lgs n. 163/2006, la competenza esclusiva ad effettuare ogni attività (tecnico – discrezionale) di carattere valutativo.

Un secondo filone riteneva che il responsabile unico del procedimento (R.U.P.) potesse verificare l’anomalia personalmente ovvero delegare a ciò la commissione aggiudicatrice.

Questa seconda risposta è stata condivisa dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 36/2012 che ha statuito come nelle gare d’appalto, da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, sia legittima la verifica di anomalia dell’offerta eseguita, anziché dalla commissione aggiudicatrice, direttamente dal responsabile unico del procedimento avvalendosi degli uffici e organismi tecnici della stazione appaltante.

Infatti, anche nel regime anteriore all’entrata in vigore dell’art. 121 del d.P.R. n. 207/2010 è attribuita al responsabile del procedimento la facoltà di scegliere, a seconda delle specifiche esigenze di approfondimento richieste dalla verifica, se procede personalmente ovvero affidare le relative valutazioni alla commissione aggiudicatrice.

Con tale decisione la Plenaria ha respinto l’appello di una associazione temporanea di imprese altoatesina e confermato la sentenza di primo grado n. 193/2010 del Tribunale regionale di giustizia amministrativa, sezione autonoma di Bolzano, che aveva abbracciato il secondo filone interpretativo maggiormente aperto a valorizzare il ruolo del R.U.P. nella funzione di verifica e supervisione sull’operato della commissione.

Rocco Giacobbe Vaccari – Avvocato del Foro di Padova

adunanza plenaria 36 del 2012

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