Author Archive for: SanVittore

La tipologia dell’intervento di bonifica dipende dalla destinazione d’uso

05 Mar 2014
5 Marzo 2014

Nella medesima sentenza n. 255/2014 il T.A.R. Veneto afferma che la tipologia di bonifica di un sito inquinato non dipende dalla destinazione d’uso di fatto dell’immobile su cui si dovrà intervenire, ma dalla destinazione urbanistica dell’area: “Con una seconda censura la parte ricorrente afferma che dovrebbe essere valorizzata la destinazione d’uso di fatto dell’immobile, e cita in proposito della giurisprudenza (cfr. Tar Umbria, 8 aprile 2004, n. 168) che ha affermato che la tipologia di bonifica da effettuare va individuata non con riferimento alla destinazione urbanistica, ma con riferimento alle caratteristiche dell’utilizzazione che delle aree verrà fatta in concreto.

Tali doglianze si rivelano infondate, in quanto la nozione di “destinazione d’uso” alla quale si richiama anche l’art. 17 del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, è quella tipicamente impressa, quale effetto conformativo, dalle previsioni dello strumento urbanistico (cfr. l’art. 7 della legge 17 agosto 1942, n. 1150), e la normativa è chiara nell’imporre il rispetto dei limiti previsti dalla destinazione d’uso prevista dagli strumenti urbanistici vigenti, come si evince indirettamente dalla circostanza che viene prevista la necessità di variare gli strumenti urbanistici qualora la destinazione da questi prevista imponga il rispetto di limiti di accettabilità che non possono essere raggiunti neppure con l’applicazione delle migliori tecnologie (infatti l’art. 17, comma 6, del Dlgs. 5 febbraio 2006, n. 22, prevede che qualora la destinazione d'uso prevista dagli strumenti urbanistici in vigore imponga il rispetto di limiti di accettabilità di contaminazione che non possono essere raggiunti neppure con l'applicazione delle migliori tecnologie disponibili a costi sopportabili, l'autorizzazione di cui al comma 4 può prescrivere l'adozione di misure di sicurezza volte ad impedire danni derivanti dall'inquinamento residuo, da attuarsi in via prioritaria con l'impiego di tecniche e di ingegneria ambientale, nonché limitazioni temporanee o permanenti all'utilizzo dell'area bonificata rispetto alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti, ovvero particolari modalità per l'utilizzo dell'area medesima. Tali prescrizioni comportano, ove occorra, variazione degli strumenti urbanistici e dei piani territoriali”).

Va soggiunto che la giurisprudenza citata dalla ricorrente (cfr. Tar Umbria, 8 aprile 2004, n. 168) è del tutto inconferente, perché riguarda la diversa e specifica questione dell’individuazione dei limiti di accettabilità dei terreni ad uso agricolo che, in assenza di una definizione normativa, è affidata all’interprete, e che la giurisprudenza ha inteso risolvere facendo riferimento alle caratteristiche dell’utilizzazione che delle aree verrà fatta in concreto, concludendo per l’applicabilità alle aree agricole dei limiti più cautelativi riferiti alle destinazioni a verde urbano, pubblico o privato”. 

dott. Matteo Acquasaliente 

L’effetto conformativo deriva già dal Piano Regolatore e non dal piano attuativo

05 Mar 2014
5 Marzo 2014

Ancora, nella stessa sentenza n. 255/2014, il T.A.R. Veneto chiarisce la portata delle norme contenute nel P.R.G. rispetto a quelle del Piano Attuativo chiarendo che: “3.2 La ricorrente prosegue sostenendo che non può farsi riferimento ai limiti di accettabilità previsti per le aree ad uso verde pubblico, privato e residenziale previsto dalla colonna A della tabella 1 dell’allegato 1 del DM 25 ottobre 1999, n. 471, perché tale destinazione pur essendo prevista dal piano regolatore vigente, non è ancora attuale essendo subordinata alla formazione di un piano urbanistico attuativo di iniziativa privata.

Anche tale doglianza deve essere respinta, perché la normativa del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, sopra citata fa riferimento alla destinazione d’uso prevista dal piano regolatore, al quale va direttamente ascritto l’effetto conformativo nell’uso dei suoli, mentre il piano attuativo ha solamente lo scopo di determinare nel dettaglio e in concreto l'organizzazione urbanistica, infrastrutturale ed architettonica degli insediamenti quale è prevista dal piano regolatore, senza poter modificare quest’ultimo.

Le previsioni del piano regolatore hanno pertanto valore prescrittivo immediatamente efficace, anche se per la realizzazione degli interventi è prevista la necessità della previa formazione di un piano attuativo, che ha il solo effetto di subordinare alla sua approvazione l’ottenimento dei titoli abilitativi necessari”.

dott. Matteo Acquasaliente

Anche le acque contaminate devono essere considerate rifiuti

05 Mar 2014
5 Marzo 2014

Infine, nella medesima sentenza n. 255/2014, il Collegio afferma che le acque contaminate presenti nella falda devono essere considerate alla stregua di rifiuti liquidi e, quindi, devono essere soggette alla relativa disciplina. Di conseguenza non possono essere assoggettate alla disciplina prevista per gli scarichi industriali: “7. Con le censure sopra rubricate come quindicesimo e venticinquesimo motivo la ricorrente lamenta il difetto di istruttoria e la carenza di motivazione relativamente alla prescrizione di gestire come rifiuti liquidi le acque contaminate di falda, anziché consentire il loro scarico in acque superficiali assoggettandole alla disciplina degli scarichi industriali, come prevede espressamente l’art. 243 del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152.

La doglianza deve essere respinta

La norma da ultimo citata nel testo vigente al momento dell’adozione degli atti impugnati, prevedeva che “le acque di falda emunte dalle falde sotterranee, nell’ambito degli interventi di bonifica di un sito, possono essere scaricate, direttamente o dopo essere state utilizzate in cicli produttivi in esercizio nel sito stesso, nel rispetto dei limiti di emissione di acque reflue industriali in acque superficiali di cui al presente decreto”.

Il Collegio non ignora che, basandosi su tale disposizione, sono state emesse alcune pronunce, sul cui richiamo sono imperniate le difese della parte ricorrente, secondo le quali la ratio legis è nel senso di porre una disciplina speciale per la gestione delle acque di falda emunte nelle operazioni di messa in sicurezza e di bonifica, riconducibile alla normativa sugli scarichi idrici e non a quella sui rifiuti, con la conseguente non applicabilità, per tali acque, della disciplina sui rifiuti (cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. V, 21 marzo 2012, n. 1398; Tar Sicilia, Catania, 29 gennaio 2008, n. 207; Tar Calabria, Catanzaro, Sez. I, 23 luglio 2008, n. 1068; Tar Friuli Venezia Giulia, 26 maggio 2008, n. 301).

Tuttavia appare più persuasivo e meritevole di condivisione il diverso e più recente orientamento giurisprudenziale (cfr. Tar Sicilia, Catania, sez. I, 11 settembre 2012, n. 2117; Tar Toscana, Sez. II, 6 ottobre 2011, n. 1452; id. 19 maggio 2010, n. 1523; Tar Sardegna Sez. II, 21 aprile 2009, n. 549; TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 20 marzo 2009, n. 540) che ha chiarito che le acque emunte di regola devono essere ricondotte all’interno della categoria dei rifiuti liquidi, non potendosi in linea di principio ritenere che la norma di cui all’art 243 citato consenta una equiparazione tout court tra le acque di falda emunte nell’ambito di interventi di bonifica di siti inquinati e le acque reflue industriali.

Infatti il predetto art. 243, limitandosi a consentire la possibilità di autorizzare lo scarico nelle acque di superficie delle acque emunte dalle falde sotterranee, nell'ambito degli interventi di bonifica o messa in sicurezza di un sito, a condizione che siano rispettati gli stessi limiti di emissione delle acque reflue industriali, non è idoneo ad incidere sulla specialità e tassatività della disciplina, di diretta derivazione comunitaria, sui rifiuti, che esclude espressamente l'assimilabilità delle acque emunte in falda a quelle reflue industriali, alla luce dei codici CER contenuti nella decisione della Commissione Europea 3 maggio 2000, n. 532 - 00/532/CE ( codici CER 19.03.07 e 19.03.08, che individuano le acque di falda emunte nell'ambito di attività di disinquinamento quali rifiuti liquidi ).

In proposito va sottolineato che in tal senso si è espressa anche la recente sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 6 dicembre 2013, n. 5857, la quale ha affermato che “è quindi da disattendere l'assunto della società appellante tendente ad escludere a priori, ai sensi dell'art. 243 d.lgs. 152/06, la riconduzione delle acque emunte in attività di disinquinamento della falda dal regime dei proprio dei rifiuti liquidi: al contrario, l’individuazione del regime normativo concretamente applicabile non può non tenere conto della particolare natura dell'oggetto dell'attività posta in essere, siccome individuati dal legislatore quali rifiuti liquidi, come emerge dalla classificazione attraverso i codici CER allegati al decreto.

L’allegato D alla parte quarta del medesima d.lgs, nell’elencare i rifiuti conformemente all'articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE e all'articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE relativa ai rifiuti pericolosi di cui alla decisione della Commissione 2000/532/CE del 3 maggio 2000 e alla direttiva del Ministero dell'ambiente 9 aprile 2002, ha infatti espressamente previsto, sub 19.13.07 e 19.13.08, i <<rifiuti liquidi acquosi e concentrati acquosi prodotti dalle operazioni di risanamento delle acque di falda>>.

Anche per tale ragione, quindi, risulta smentita l’aprioristica omologazione, dedotta dalla società appellante, dei reflui derivanti da operazioni di bonifica alle acque reflue industriali, come definite chiaramente dall’art. 74, comma 1 lett. h) del d.lgs. citato (con ciò dovendosi discostare dalle conclusioni alle quali era pervenuto questo Consiglio di Stato nella sentenza di questa stessa sezione 8 settembre 2009, n. 5256)”. 

Per annullare un provvedimento di sanatoria illegittimo occorre dimostrare un interesse pubblico all’annullamento

04 Mar 2014
4 Marzo 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 261 del 2014.

Scrive il TAR: "Risulta invece fondato e meritevole di accoglimento il secondo motivo di ricorso per la riscontrata violazione dell'art. 21 novies della I. 241/1990 e la totale mancanza di menzione dell’esistenza di uno specifico interesse pubblico all'annullamento del titolo edilizio in sanatoria, che deve sussistere e non può essere ritenuto implicito e di per sé evidente nel mero ripristino della legalità violata. In particolare, va detto che, proprio dall’asserzione della difesa comunale, che afferma che tale interesse risulterebbe evidente dall'esame della complessa vicenda e dal complesso di atti e accertamenti che hanno riscontrato ulteriori abusi edilizi fin dal 2009, si rileva che, invece, tale interesse non è stato esplicitato e nemmeno considerato, dal momento che tutti gli ulteriori abusi dovevano e debbono portare all’adozione delle specifiche misure dettate dalle norme per l’eliminazione ed il ripristino degli stessi, indipendentemente e a prescindere dall’ eliminazione del foro porta e quindi dall’annullamento o meno del già rilasciato condono. Per le considerazioni che precedono il ricorso è fondato e deve essere accolto".

sentenza TAR Veneto n. 261 del 2014

Chi inquina (e chi è proprietario) paga

04 Mar 2014
4 Marzo 2014

Nella  sentenza n. 255/2014 il T.A.R. Veneto chiarisce che, se una società responsabile dell’inquinamento di un’area di sua proprietà viene incorporata per fusione in un’altra società, è quest’ultima – essendo proprietaria del terreno – che deve adempiere all’obbligo di bonifica e ciò a prescindere che la fusione sia avvenuta prima o dopo la modifica dell’art. 2504 bis c. 1, c.c. che attualmente prevede che: “la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione”.

A riguardo si legge che: “Infatti quanto al primo rilievo, va osservato che anche nel regime precedente alla modifica dell'art. 2504 bis c.c. ad opera del Dlgs. 17 gennaio 2003 n. 6, la fusione di una società determinava una situazione giuridica corrispondente alla successione universale con la contestuale sostituzione nella titolarità di tutti i rapporti giuridici attivi e passivi (ex pluribus cfr. Cass. Sez. lav., 22 marzo 2010, n. 6845; Cass. Sez. Un., 28 dicembre 2007, n. 27183; Cass. Sez. 3, 13 marzo 2009, n. 6167; Cass. 6 maggio 2005, n. 9432; Cass. 25 novembre 2004, n. 22236; Cass. 3 agosto 2005, n. 16194; Cass. 24 giugno 2005, n. 13695), come si evince dalla precedente formulazione dell'art. 2504 bis c.c., comma 1, la quale statuiva che "la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società estinte" (è proprio il riferimento testuale alle "società estinte" che ha indotto giurisprudenza e dottrina a ritenere che si tratti di successione a titolo universale).

Quanto al secondo rilievo, va osservato, aderendo alle conclusioni cui è giunta altra e più persuasiva giurisprudenza (cfr. con riguardo ad una fattispecie di fusione Tar Toscana, Sez. II, 1 aprile 2011, n. 573), che l’inquinamento è una situazione permanente, in quanto perdura fino a quando non ne siano rimosse le cause ed i parametri ambientali siano riportati entro limiti accettabili, con la conseguenza che le disposizioni di cui al Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, vanno applicate a qualunque sito risulti inquinato a prescindere dal momento nel quale possa essere avvenuto il fatto o i fatti generatori della contaminazione.

Infatti, secondo la ricostruzione effettuata dalla giurisprudenza amministrativa, anche le norme di carattere penale che sanzionano il mancato adempimento degli obblighi di bonifica, collegano la pena non al momento in cui viene cagionato l’inquinamento o il relativo pericolo, ma alla mancata realizzazione della bonifica, che è l’attività necessaria a far cessare gli effetti di una condotta omissiva a carattere permanente (cfr. ex pluribus Consiglio di Stato, Sez. VI, 9 ottobre 2007, n. 5283; Tar Lombardia, Brescia, Sez. I, 21 gennaio 2013, n. 50), e la sanzione colpisce non l’inquinamento prodotto in epoca precedente, ma la mancata eliminazione degli effetti che permangono nonostante il decorso del tempo (alle medesime conclusioni giunge quell’orientamento della giurisprudenza penale secondo il quale l’art. 51 bis del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, si configura quale reato omissivo di pericolo presunto, che si consuma ove il soggetto non proceda ad adempiere l’obbligo di bonifica secondo le cadenze procedimentali normativamente definite: cfr. Cass. pen., Sez. III, 28 aprile 2000, n. 1783; va dato atto che un diverso orientamento è stato espresso da Cass. civ. 21 ottobre 2011, n. 21887).

Poste tali premesse, deve pertanto concludersi che la Società ricorrente, essendo succeduta a titolo universale alla Società Cledca Spa a seguito della sua incorporazione per fusione, è subentrata in tutti gli obblighi a questa spettanti e quindi anche negli obblighi di facere che sono connessi alla posizione di garanzia dalla stessa assunta a causa della sua pregressa condotta commissiva, con la conseguenza che è pertanto riscontrabile in capo ad essa un obbligo di bonifica e ripristino ambientale di contenuto corrispondente a quello che sarebbe spettato alla Società incorporata se non si fosse estinta.

Infatti, seguendo la teoria dell'illecito permanente sulla quale concorda la giurisprudenza, rispetto agli inquinamenti che, come nel caso di specie, si siano verificati ed esauriti prima dell’entrata in vigore del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, non ha senso differenziare la posizione dell'autore materiale dell'inquinamento, sulla cui responsabilità concorda la giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 9 ottobre 2007, n. 5283), da quella del suo successore universale.

Altrimenti opinando, dato che rispetto alla normativa sopravvenuta successivamente all’evento generatore dell’inquinamento l’autore materiale dello stesso ed il suo successore versano entrambi nell’identica condizione (in ambedue i casi l’inquinamento è stato realizzato ed è cessato in data antecedente al Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22), in nome della preoccupazione di non rendere di fatto retroattive le disposizioni di cui al Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, si giungerebbe all’assurda conclusione di dover lasciare senza rimedio tutte le contaminazioni storiche che necessitano maggiormente di interventi di bonifica a causa del carattere diffuso ed esteso delle aree inquinate e della pericolosità degli inquinanti presenti, quando invece, secondo una corretta ricostruzione, non si pone il problema di riconoscere o meno alle norme sopravvenute una portata retroattiva, ma di applicarle ratione temporis alle situazioni che necessitino di interventi volti ad evitare pregiudizi ambientali derivanti da una condotta omissiva a carattere permanente che solo la bonifica può rimuovere.

Pertanto, così come l’ordine di bonifica può essere legittimamente rivolto all’autore dell’inquinamento per condotte che sono state poste in essere e sono cessate prima dell’entrata in vigore del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, allo stesso modo il medesimo ordine può essere rivolto al suo successore universale che sia subentrato a tutti gli obblighi a questo spettanti, e quindi anche agli obblighi di facere connessi alla posizione di garanzia assunta dall’autore dell’inquinamento a causa della sua pregressa condotta commissiva”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 255 del 2014

 

Ancora sulla mancanza di lesività degli atti endoprocedimentali nella conferenza di servizi

04 Mar 2014
4 Marzo 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 25 febbraio 2014 n. 255, torna ad affermare che - di regola - i verbali della conferenza di servizi no sono autonomamente impugnabili in quanto: “1. Preliminarmente deve essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso originario con il quale sono impugnati i verbali delle conferenze di servizi decisorie del 7 febbraio 2006 e del 5 aprile 2006, perché nel caso di specie questi non contengono ordini immediatamente efficaci in assenza del provvedimento finale di approvazione della conferenza di servizi e di attribuzione di esecutività alle prescrizioni impartite, che non è stato impugnato.
Vale pertanto il principio per il quale in casi come questi, diversamente dalle ipotesi nelle quali è possibile ipotizzare la facoltà di un’immediata impugnabilità laddove siano contenuti ordini e prescrizioni immediatamente efficaci perché così autoqualificatisi nella stessa conferenza di servizi e il cui adempimento decorre dalla comunicazione del relativo verbale (come nel caso esaminato da Consiglio di Stato, Sez. II, 29 dicembre 2011, 4974), il verbale della conferenza di servizi ha una valenza di atto endoprocedimentale ed è pertanto privo di efficacia esterna in assenza dell’adozione del provvedimento finale che è l’atto con valenza esoprocediementale (cfr. in merito alla procedura di bonifica Consiglio di Stato, Sez. VI, 18 giugno 2008, n. 3016; in generale, con riguardo all’istituto della conferenza di servizi, id. 6 maggio 2013, n. 2417)”.

 dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 255 del 2014

In sede di rilascio del certificato di abitabilità a seguito del condono e nel mutamento di destinazione d’uso quali regolamenti in materia di igiene non sono derogabili?

03 Mar 2014
3 Marzo 2014

Lo precisa la sentenza del TAR Veneto n. 201 del 2014.

Scrive il TAR: "3.1 Con riferimento alla fattispecie in esame va preliminarmente evidenziato come costituisca circostanza confermata da entrambe le parti in giudizio che i locali di cui si tratta non risultano in possesso dei requisiti igienico sanitari, per consentire un’abitazione degli stessi, in quanto questi ultimi hanno un altezza pari a 2,20 metri e, quindi, inferiore ai 2,70, minimo previsto sia dalle disposizioni contenute nel DM del 05/07/1975. Detta circostanza era stata, peraltro, espressamente accertata dal parere dell’ULSS di Padova del 04/04/2011.

3.2 Malgrado ciò, il provvedimento impugnato nel concedere il permesso di costruire precisa come, alla fattispecie in esame, sia
applicabile l’art. 119 del Regolamento edilizio del Comune di Padova e, ciò, laddove quest’ultimo consente la deroga alle caratteristiche e ai parametri di abitabilità.

3.3 Detta norma prevede, con un contenuto che non può non apparire criptico e che, in quanto tale si presta a differenti interpretazioni, che “nel caso di edifici esistenti alla data di entrata in vigore del presente R.E. potrà essere concesso, con provvedimento motivato del Dirigente, di mantenere o migliorare le caratteristiche ed i parametri esistenti anche se difformi dalle caratteristiche e dai parametri di abitabilità previsti nel presente RE in relazione alla destinazione del progetto”.

4. Va sin d’ora premesso come detta disposizione sia da considerare illegittima laddove è diretta a consentire il rilascio di un permesso di costruire in deroga ai requisiti igienico sanitari riconducibili alla legislazione nazionale.

4.1 Sul punto va ricordato che, secondo quanto stabilito dall’orientamento giurisprudenziale prevalente (Consiglio di Stato n.
3034/2013) “ai sensi dell'art. 35 comma 20, l. 28 febbraio 1985, n. 47 il rilascio del certificato di abitabilità di un fabbricato conseguente al condono edilizio può legittimamente avvenire in deroga solo a norme regolamentari e non anche quando siano carenti le condizioni di salubrità richieste da fonti normative di livello primario, in quanto la disciplina del condono edilizio, per il suo carattere eccezionale e derogatorio, non è suscettibile di interpretazioni estensive e, soprattutto, tali da incidere sul fondamentale principio della tutela della salute con evidenti riflessi sul piano della legittimità costituzionale”.

4.2 Come correttamente ricorda parte ricorrente analogo principio è stato affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 256/1996 nella parte in cui si è evidenziato che il Comune, nel rilascio del certificato di agibilità deve verificare, non solo che siano rispettate le disposizioni di cui al Testo Unico delle leggi sanitarie, ma ancora deve accertare la sussistenza dei presupposti previsti dalle altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali, risultando possibile derogare alle sole norme regolamentari.

4.3 E', altresì, noto che le disposizioni di cui al D.M. del 5 Luglio 1975 integrano una normativa di rango primario in virtù del rinvio disposto dall'art. 218 del r.d. 27 luglio 1934 n. 1265.  Ne consegue che detta normativa nazionale, diversamente dalle
disposizioni integrative e supplementari contenute nei regolamenti comunali di igiene (espressione di esigenze locali e comunque non
attuative di norme di legge gerarchicamente sovraordinate), deve considerarsi inderogabile, sia in sede di rilascio del certificato di
abitabilità a seguito del condono (T.A.R. Liguria sez. I del 23/03/2012 n. 422) sia, ancora, per quanto concerne l’emanazione di analoghi atti diretti a realizzare un mutamento di destinazione d’uso.

4.4 L’art. 119 sopra citato è, altresì, illegittimo laddove introduce una disposizione dal contenuto evidentemente generalizzato, consentendo interventi (è del tutto irrilevante che si tratti di nuovi permessi di costruire o di costruzioni già realizzate) in deroga ai requisiti igienico sanitari sopra citati anche per quanto riguarda le costruzioni private e, in ciò, determinando un insanabile contrasto tra il contenuto della disposizione in esame e le previsioni contenute nell’art. 14 del Dpr 380/2001 che, a loro volta, permettono l’emanazione di un permesso di costruire in deroga solo ed esclusivamente per quanto riguarda “gli edifici ed impianti pubblici o di interessi pubblici”.

4.5 Detta ultima disposizione consente, peraltro, la deroga sopra citata, solo ed esclusivamente, in presenza di un’idonea motivazione e previa adozione di una delibera in tal senso emanata dal Consiglio Comunale, circostanze queste ultime inesistenti nel caso di specie che, al contrario, hanno legittimato l’emanazione di un permesso di costruire in deroga, sulla base di un atto la cui adozione è stata posta in essere dal Dirigente del Comune di Padova.

4.6 Si consideri, ancora, che la fattispecie di cui all’art. 119 del regolamento edilizio in questione, non solo non trova riscontro nella
disciplina regionale, ma determina una lesione delle competenze dello Stato, nella parte in cui, ai sensi dell’art. 117 della Costituzione,
attribuisce a quest’ultimo, e non al Comune, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni. L’esercizio di una potestà concorrente in materia urbanistica, come è noto, consente alle Amministrazioni comunali di prevedere limiti più elevati di quelli minimi previsti dal decreto ministeriale sopracitato, entro i quali avrebbe potuto poi esplicarsi quel potere derogatorio espresso nell’ambito dei principi sopra manifestati.

4.7 E’, allora, possibile dichiarare l’illegittimità dell’art. 119 sopra citato nella parte in cui consente, mediante l’emanazione di successivi titoli autorizzatori o edilizi, di disporre una deroga ai requisiti minimi in materia igienico sanitaria, così come previsti dalla normativa nazionale sopra richiamata.

4.8 Detta norma dovrà considerarsi illegittima anche nell’ipotesi in cui venga interpretata per consentire l’emanazione di permessi di costruire in deroga e in violazione dei principi sanciti dall’art. 14 del Dpr 380/2001, disposizione quest’ultima che deve ritenersi pienamente applicabile al caso di specie.

5. L’illegittimità della disposizione sopra citata ha l’effetto di inficiare la legittimità anche del successivo permesso di costruire, emanato sull’unico presupposto della vigenza di detta disciplina".

avv. Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto n. 201 del 2014

Un esempio in cui secondo il TAR Veneto un condomino ha interesse a impugnare il titolo edilizio di un altro condomino

03 Mar 2014
3 Marzo 2014

Il TAR Veneto ritiene che per impugnare il titolo edilizio del vicino occorra, oltre alla vicinitas, anche un a effettiva lesione. Quale tipo di lesione? In precedenti sentenze si parlava di una lesione di tipo giuridico, mentre nella sentenza n.  201 del 2014 il TAR ritiene sufficiente una lesione di tipo economico. La soluzione appare ragionevole, anche perchè non sempre quando c'è una lesione economica si può ravvisare anche una violazione giuridica in senso stretto.

La sentenza riguarda una controversia tra condomini. 

Scrive il TAR: "2. Deve ritenersi, infatti, infondata l’eccezione di innamissibilità per mancanza di interesse a ricorrere proposta sempre dall’Amministrazione comunale.

2.1 Sul punto va preliminarmente evidenziato che gli attuali ricorrenti sono dei condomini facenti tutti parte del Condominio “Xxxx”.

2.2 Circostanza analogamente incontestata concerne il fatto che le proprietà esclusive degli stessi condomini sono confinanti con quella (facente parte del medesimo condominio) degli attuali controinteressati.

2.3 Nel ricorso ora sottoposto al presente Collegio gli attuali ricorrenti hanno rilevato che l’intervento di cui si discute, in quanto diretto a realizzare quattro mini appartamenti mutando la destinazione d’uso originariamente prevista come commerciale, avrà l’effetto di comportare un degrado abilitativo all’intero condominio, nonché alle parti comuni dello stesso.

2.4 Detto potenziale pregiudizio economico deve ritenersi effettivamente esistente nel caso di specie, in quanto strettamente correlato al mutamento di destinazione d’uso da commerciale in residenziale sopra citato. 

2.5 E’ del tutto evidente, infatti, che la realizzazione di mini appartamenti su locali con un altezza pari a 2,20 metri, non può essere
considerata un elemento a sé stante, come asserisce l’Amministrazione comunale, ma è suscettibile di incidere, quanto meno potenzialmente, sul valore economico dell’intero immobile con un potenziale pregiudizio anche per quanto attiene l’utilizzo delle parti comuni. Si consideri, infatti, come parte ricorrente, nel quarto motivo del ricorso, ha evidenziato come l’intervento di cui si tratta ha l’effetto di pregiudicare le parti comuni dell’edificio.

2.6 Ne consegue che nel caso in esame sussiste sia il requisito della vicinitas (in ragione dell’incidenza degli alloggi su uno stesso condominio) sia, ancora, i presupposti perché si verifichi un’effettiva lesione, circostanze queste ultime che consentono di ritenere infondata l’eccezione di inammissibilità per mancanza di interesse a ricorrere".

avv. Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto n. 201 del 2014

Un esempio di difetto di motivazione di un diniego di condono edilizio

03 Mar 2014
3 Marzo 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR  Veneto n. 206 del 2014.

Scrive il TAR: "4.1. In particolare merita accoglimento la censura relativa al difetto di motivazione del provvedimento di diniego di condono edilizio. In proposito, deve osservarsi, innanzitutto, che la funzione della motivazione del provvedimento amministrativo, come chiarito dalla consolidata giurisprudenza, è diretta a consentire al destinatario di ricostruire l'iter logico-giuridico in base al quale l'amministrazione è pervenuta all'adozione di tale atto nonché le ragioni ad esso sottese; e ciò allo scopo di verificare la correttezza del potere in concreto esercitato, nel rispetto di un obbligo da valutarsi, invero, caso per caso in relazione alla tipologia dell'atto considerato (Cons. Stato, sez. V, 4 aprile 2006, n. 1750; sez. IV, 22 febbraio 2001 n. 938, sez. V, 25 settembre 2000 n. 5069). Ciò che deve ritenersi necessario perché l'atto non risulti inficiato da censure nella sua parte motiva è che in esso siano sempre sternate le ragioni che giustificano la determinazione assunta, non potendo la motivazione espressa in essa esaurirsi in semplici, generiche locuzioni di stile. Ebbene, nella vicenda sottoposta all’esame del Collegio, il Comune di Venezia (Ufficio edilizia privata) ha comunicato alla ricorrente che, in esito alla sua domanda di sanatoria edilizia, presentata ai sensi della legge n. 47/1985, la stessa veniva respinta a seguito del parere della Commissione Edilizia Integrata, contraria al mantenimento in opera delle strutture abusive in questione in quanto “per qualità dei materiali e tipologia incompatibili con l’ambito residenziale oggetto di tutela”. Tale motivazione non appare, all’evidenza, idonea a sorreggere in modo puntuale il diniego della domanda di sanatoria. Infatti, in relazione a provvedimenti negativi in materia di nulla osta paesaggistico l'Amministrazione è certamente tenuta a motivare in modo esaustivo circa la concreta incompatibilità del progetto sottoposto all'esame con i valori paesaggistici tutelati, indicando le specifiche ragioni per le quali le opere edilizie considerate non si ritengono adeguate alle caratteristiche ambientali protette. Nel caso in esame le ragioni del diniego appaiono, invece, contenute nell’espressione “per qualità dei materiali e tipologia delle strutture incompatibili con l’ambito residenziale oggetto di tutela”, che per il solo riferimento generico alla tipologia delle strutture, e alla scelta dei materiali utilizzati nella edificazione, non appare di certo sufficiente a sorreggere il diniego di concessione in sanatoria laddove esso deve esplicare le ragioni di fatto poste alla base dell'atto di diniego, anche per rendere edotto il titolare dell'interesse legittimo di carattere pretensivo sulle circostanze rilevanti nel caso di specie. In definitiva, nel caso in esame il diniego espresso in ordine alla domanda di sanatoria contiene una valutazione apodittica che non appare soddisfare - come evidenziato dal ricorrente - i requisiti minimali della motivazione, non essendo di certo sufficiente la mera affermazione secondo cui i manufatti in questione mal si inserirebbero “nell’ambito residenziale” per i materiali utilizzati e la tipologia costruttiva, atteso che nulla viene specificato nel concreto per dimostrare il contrasto con l'interesse ambientale tutelato. Peraltro, nel caso in esame, una motivazione maggiormente articolata e specifica era richiesta anche dalla eterogeneità dei manufatti, differenti per tipologia, materiali costruttivi, localizzazione sull’edificio ed impatto visivo. Né, dal materiale fotografico prodotto agli atti è consentito al Collegio di intendere ed eventualmente approvare le ragioni del diniego stesso, e ciò, nonostante la sinteticità della motivazione, ove esse risultassero dal contesto evidenti, posto che le tettoie ed il magazzino al piano primo ancora da demolire risultano scarsamente o per nulla rappresentati, cosicchè nemmeno per tale via è dato al Collegio di comprendere quali siano le specifiche caratteristiche dei manufatti incompatibili con il contesto di riferimento. Infine, una motivazione maggiormente pregnante del diniego di sanatoria s’ imponeva nel caso in esame, essendo il vincolo paesaggistico sopraggiunto rispetto alla realizzazione delle opere in discussione (cfr. da ultimo, Cons. St., VI sez., 17 gennaio 2014 n. 231). E ciò tanto più nel caso di specie in cui il vincolo riguarda un quartiere residenziale cittadino e non risulta radicalmente e aprioristicamente incompatibile con la tipologia degli interventi accessori realizzati sull’edificio (ci si riferisce a quelli ancora da demolire), non del tutto inusuali, specie le tettoie, pur in un pregevole contesto residenziale".

avv. Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto n. 206 del 2014

L’indicazione dei costi per la sicurezza vale anche per gli appalti di servizi esclusi dall’applicazione del Codice Appalti

03 Mar 2014
3 Marzo 2014

Il Consiglio di Stato, sez. III, nella sentenza del 21 gennaio 2014 n. 280, afferma che l’obbligo di indicare gli oneri c.d. da rischio specifico riguarda anche gli appalti di servizi esclusi dall’applicazione del Codice Appalti. In questo caso, se l’ente non ha imposto già in sede di gara la loro indicazione e la ditta partecipante non li ha forniti, l’operatore economico non deve essere automaticamente escluso, in quanto la stazione appaltante deve chiedere al medesimo di specificarli.

A tal fine si legge che: “Il Collegio ritiene, infatti, che nelle gare aventi ad oggetto servizi esclusi dall'applicazione del Codice dei contratti pubblici (all. II B – servizi sanitari e sociali) la mancanza nel bando di una previsione specifica non esenta i concorrenti dal dovere di indicare gli oneri della sicurezza aziendali e dall'osservare le norme in materia di sicurezza sul lavoro, ma comporta soltanto che, ove la stazione appaltante non si sia autovincolata nella legge di gara ad osservare la disciplina di dettaglio dettata dagli artt. 86 commi 3-bis e 3-ter e 87 comma 4, del succitato Codice dei contratti pubblici, il concorrente, che non abbia indicato i suddetti oneri della sicurezza nella propria offerta, deve essere chiamato a specificarli successivamente, nell'ambito della fase di verifica della congruità dell'offerta, all'evidente scopo di consentire alla stazione appaltante di adempiere al suo onere (che sussiste anche al di fuori del procedimento di verifica delle offerte anomale) di verificare il rispetto di norme inderogabili a tutela dei fondamentali interessi dei lavoratori in relazione all'entità ed alle caratteristiche del servizio”. 

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 280 del 2014

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