Espropriazione e giurisdizione

02 Lug 2014
2 Luglio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 24 giugno 2014 n. 913, si occupa di numerose questioni relative alla tematica del risarcimento dei danni connessi ad una (illegittima) procedura espropriativa.

Innanzitutto chiarisce quanto c’è la competenza dell’organo amministravo: “Quanto alla giurisdizione, va osservato che mentre le controversie risarcitorie per il danno da occupazione appropriativa iniziate in periodo antecedente al 1° luglio 1998 rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario alla stregua del criterio di riparto diritti soggettivi/interessi legittimi (così come le stesse controversie iniziate nel periodo dal 1° luglio 1998 al 10 agosto 2000, data di entrata in vigore della legge n. 205/2000, per effetto della sentenza n. 281 del 2004 della Corte costituzionale che, ravvisando nell’art. 34 del DLgs n. 80 del 1998 anteriormente alla riscrittura effettuata con l’art. 7 della legge n. 205 un eccesso di delega, ha dichiarato l'incostituzionalità delle nuove ipotesi di giurisdizione esclusiva), sono invece attribuite alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie risarcitorie per il danno sopportato dalla parte privata in conseguenza dello spossessamento dell'area di sua proprietà iniziate dal 10 agosto 2000, data di entrata in vigore dell’art. 34 del DLgs n. 80/1998, come riformulato dall’art. 7 della legge n. 205/2000, ma non perchè la dichiarazione di pubblica utilità sia di per sè idonea ad affievolire il diritto di proprietà (l'occupazione e la trasformazione del suolo in assenza di decreto di espropriazione comporta lesione del diritto soggettivo), ma perchè ricomprese nella giurisdizione esclusiva in materia urbanistico-edilizia (l'esistenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità, mediante il riferimento, sia pure indiretto, al potere espropriativo, vale semplicemente a giustificare la legittimità costituzionale della creazione di una nuova ipotesi di giurisdizione esclusiva): la stessa giurisdizione, peraltro, è attribuita dall’art. 53 del DPR n. 327 del 2001, se la dichiarazione di pubblica utilità sia intervenuta dal 1° luglio 2003, data di entrata in vigore del TU sulle espropriazioni (cfr., da ultimo, SS.UU. 17.2.2014 n. 3660)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 913 del 2014

Espropriazione e iter ablatorio

02 Lug 2014
2 Luglio 2014

Nella sentenza n. 913/2014 i Giudici veneti si soffermano sull’iter della procedura espropriativa: “Ciò precisato, deve a questo punto verificarsi se sussistono i presupposti per il risarcimento del danno, se cioè le aree di proprietà dei ricorrenti siano effettivamente state illegittimamente occupate dal Comune ed altrettanto illegittimamente asservite alla realizzazione di dell’opera pubblica.

La risposta, alla luce della consecuzione temporale degli atti della procedura espropriativa, non può che essere affermativa.

3.1.- Premesso, invero, che la dichiarazione della pubblica utilità è l'atto autoritativo che fa emergere il potere pubblicistico in rapporto al bene privato e costituisce al tempo stesso origine funzionale della successiva attività giuridica e materiale di utilizzazione dello stesso per scopi pubblici previamente individuati, il decreto di esproprio deve essere emanato entro il termine di scadenza di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità (art. 13, u.c. della legge n. 2359 del 1865), termine che può essere prorogato in caso di forza maggiore o per altre ragioni indipendenti dalla volontà dei concessionari (art. 13 cit., II comma): nel caso di specie, entro cinque anni dalla data di esecutività della DGC 17.11.1988 n. 4244 (cfr. la delibera stessa) o, quanto meno – versandosi in materia di “realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria” (in tali categorie è certamente riconducibile la costruzione dei previsti tratti stradali) - dalla data di immissione nel possesso, atteso che nella specie trova applicazione la specifica disciplina recata dalla legge n. 865/1971 (cfr. gli artt. 9 e 20, vigenti all’epoca dei fatti) che, appunto, aggancia espressamente la conclusione del procedimento ablatorio al diverso termine di adozione dell’atto che verbalizza l’immissione in possesso dell’immobile oggetto di occupazione (cfr. CdS, IV, 4.2.2014 n. 495).

3.2.- Il termine previsto per la conclusione della procedura ablatoria, coincidente con la data di adozione del provvedimento che pronuncia l’esproprio, assume i connotati della perentorietà, di guisa che l’inutile decorso del termine “de quo” comporta la inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità e la illegittimità dell’intera procedura espropriativa per cattivo esercizio del potere ablatorio da parte della PA.

Orbene, nel caso di specie, ancorchè si computi il termine di cinque anni dall’immissione del Comune nel possesso dell’area di cui al Fg. 263, mapp. 51/p, avvenuta in data 13.6.1989 e si tenga conto che il predetto termine è stato prorogato (ex lege, giusta l’art. 22 della legge n. 158/1991) per il tempo di due anni, ebbene, anche così il decreto di esproprio risulta adottato (il 15.10.1996) oltre il termine complessivo di sette anni dal “dies a quo” (13.6.1989).

Con conseguente perdita di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità e conseguente patologia dell’intero procedimento”.

 Chiarito ciò i Giudici giungono ad affermare che, se questo iter procedimentale non viene rispettato, non vi può esservi nemmeno la c.d. occupazione acquisitiva dell’area perché: “3.3.- Allo stato, dunque, va osservato che i ricorrenti conservano tutt’ora la titolarità delle predette aree in quanto la perdurante occupazione delle stesse, pur asservite alla realizzata opera pubblica, continua ad essere “sine titulo” e si caratterizza come fatto illecito permanente (cfr. Cass. civ., I, 21.6.2010 n. 14940).

In assenza, infatti, di un formale atto traslativo di natura privatistica ovvero di un atto legittimo di natura ablatoria (la c.d. “acquisizione sanante” prevista dall’art. 42-bis del DPR n. 327/2001), l’Amministrazione non può acquistare a titolo originario la proprietà di un’area altrui, pur quando su di essa abbia realizzato in tutto o in parte un’opera pubblica: una tale acquisizione, invero, contrasterebbe palesemente con la Convenzione europea sui diritti dell’uomo che ha una diretta rilevanza nell’ordinamento interno, poiché per l’art. 117, I comma della Costituzione le leggi devono rispettare i "vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario". Principio, questo, ulteriormente rafforzato dalla nuova formulazione dell’art. 6 del Trattato dell’Unione Europea (modificato dal Trattato di Lisbona) che prevede che "l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali" (II comma) e che "i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali" (III comma).

Donde l’assoluta impossibilità di ricorso alla “occupazione acquisitiva” o ad istituti analoghi.

Nel caso, pertanto, in cui l’Amministrazione decidesse di restituire le aree, anziché di acquisirle (negozialmente o autoritativamente) pagandone il corrispettivo, non farebbe altro che far cessare l’illecito permanente causativo del danno, fermo restando l’obbligo del risarcimento per il periodo di occupazione abusiva sino al momento della restituzione.

In mancanza, dunque, di un apposito atto negoziale o autoritativo la condotta dell'ente pubblico occupante continua a mantenere i connotati di illiceità in quanto ingiustificatamente lesiva del diritto di proprietà che permane in capo ai privati proprietari i quali, entro il termine generale dell'usucapione ventennale, possono agire per la restituzione del bene o per la cessione bonaria”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 913 del 2014

Espropriazione e domanda risarcitoria

02 Lug 2014
2 Luglio 2014

Il T.A.R. Veneto, nella sentenza n. 913/2013 chiarisce che, in materia di esproprio, non è sempre necessario chiedere l’annullamento degli atti ablatori, essendo sufficiente e avanzare anche una richiesta risarcitoria: “Acclarata, dunque, la giurisdizione dell’intestato Tribunale, va ora sottolineato – ai fini dell’ammissibilità dell’istanza risarcitoria degli odierni ricorrenti, che non avevano previamente impugnato gli atti della procedura espropriativa - che anche prima dell'entrata in vigore dell'art. 30 del DLgs n. 104/2010 (che ha espressamente sancito l'autonomia, sul versante processuale, della domanda di risarcimento rispetto al rimedio impugnatorio) poteva essere chiesto innanzi al giudice amministrativo il risarcimento del danno senza la preventiva impugnazione del provvedimento ritenuto illegittimo e dannoso (cfr., ex pluribus, CdS, Ap, 23.3.2011 n. 3), purché entro il termine prescrizionale di cinque anni (cfr. CdS, IV, 6.12.2011 n. 6403): il principio della non necessità della pregiudiziale impugnativa del provvedimento amministrativo era stato già affermato, infatti, dalle Sezioni Unite della Cassazione con riferimento al sistema normativo conseguente alla legge n. 205 del 2000 (cfr. SS.UU. 16.12.2010 n. 25395)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 913 del 2014

Espropriazione e quantificazione del danno

02 Lug 2014
2 Luglio 2014

Infine, nella sentenza n. 913/2014 il Collegio si occupa della quantificazione del danno collegata alla mancata fruizione del bene oggetto di esproprio stabilendo che: “Venendo al merito della illegittima, perdurante occupazione del bene, appare evidente la sussistenza, nel caso in esame, di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità civile invocata dalla parte ricorrente nella sua richiesta di risarcimento dei danni, atteso il grave inadempimento dell'Amministrazione, responsabile della sottratta disponibilità dei beni e del mancato ristoro al proprietario, donde la ricorrenza di tutti gli estremi previsti dall'art. 2043 c.c. (comportamento omissivo, colpa dell'Ente procedente, danno ingiusto e nesso di causalità) in presenza dei quali è possibile affermare la responsabilità extracontrattuale per fatto illecito delle resistenti, consistente, per l'appunto, nella suindicata sottrazione abusiva della disponibilità dei beni.

La qualificazione della condotta della PA in termini di illecito civile impone, quindi, l’individuazione di rimedi a tutela del privato coerenti coi principi di cui alla disciplina generale prevista dagli artt. 2043 segg. c.c.

Ed allora l’Amministrazione dovrà risarcire il danno facendo cessare la situazione di permanente, illegittima occupazione (recte: sottrazione) anzitutto in forma specifica, provvedendo alla restituzione al legittimo proprietario dei terreni utilizzati per la realizzazione dell’opera pubblica opportunamente rimessi in pristino (e, naturalmente, corrispondendo l’indennizzo per il periodo di abusiva occupazione).

3.6.- La definizione della richiesta risarcitoria implica, pertanto, un passaggio intermedio consistente nell'assegnazione di un termine all'Amministrazione perché definisca la sorte della titolarità dei beni illecitamente appresi, cui potrà seguire, ma in posizione inevitabilmente subordinata, la condanna risarcitoria secondo il criterio generale ed esaustivo previsto dall’art. 2043 c.c.

Termine durante il quale l’Amministrazione, qualora ritenesse eccessivamente oneroso il risarcimento in forma specifica, potrebbe optare per l’acquisizione dei beni avvalendosi dell’art. 42-bis del DPR n. 327/2001 corrispondendo il previsto indennizzo per il pregiudizio patrimoniale (determinato in misura corrispondente al loro valore venale: cfr. il III comma) e non patrimoniale (liquidato forfetariamente nella misura del dieci per cento del valore venale: cfr. il I comma), fermo restando il risarcimento per il periodo di occupazione senza titolo (da calcolarsi, in difetto della prova di un maggior danno, nella misura del cinque per cento annuo sul medesimo valore venale: cfr. il III comma).

4.- Su tali premesse, pertanto, in ordine alla quantificazione del danno il Collegio ritiene opportuno fare ricorso al meccanismo di cui all'art. 34, IV comma del DLgs n. 104/2010, in base al quale l'Amministrazione - fatta salva l'ipotesi che essa decida di restituire le aree apprese - dovrĂ  attenersi nel prosieguo alla seguente regola d'azione:

a) entro il termine di novanta giorni (decorrente dalla comunicazione in via amministrativa della presente decisione o dalla notificazione, ove anteriore) l’Amministrazione da una parte ed il ricorrente dall’altra potranno addivenire ad un accordo con effetti traslativi in favore dell'Amministrazione della proprietà delle aree definitivamente occupate (e non restituite), mentre al ricorrente verrà corrisposta la somma specificamente individuata nell'accordo stesso, somma che dovrà essere determinata in base al valore venale dei terreni, nel rispetto del principio del ristoro integrale del danno subito e comprensiva, altresì, del danno per il periodo della loro mancata utilizzazione nella forma degli interessi corrispettivi sul capitale rivalutato: essa, ovviamente, andrà depurata di ogni corresponsione di somme medio tempore eseguita in favore della parte ricorrente, a titolo indennitario, in relazione alla vicenda ablatoria per cui è causa;

b) ove siffatto accordo non sia raggiunto nel termine indicato l’Amministrazione, entro i successivi novanta giorni, dovrà emettere formale provvedimento con cui disporrà la restituzione delle aree a suo tempo occupate, opportunamente ripristinate, impregiudicate le questioni consequenziali in ordine al ristoro relativo all’occupazione illegittima, che dovrà essere regolato secondo quanto disposto al punto sub 3.6: in alternativa, invero, potrà acquisire le aree in questione ai sensi dell’art. 42-bis del DPR n. 327/2001 corrispondendo gli indennizzi per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, nonchè il risarcimento per il periodo di occupazione senza titolo nelle misure ivi stabilite;

c) qualora le parti in causa non concludano alcun accordo e l’Amministrazione neppure adotti un atto formale di restituzione o di acquisizione delle aree in questione, decorsi i termini sopra indicati, parte ricorrente potrà chiedere all’intestato Tribunale l'esecuzione della presente sentenza per l'adozione delle misure consequenziali, con possibilità di nomina di un Commissario ad acta che provveda in luogo dell’Amministrazione inadempiente, riservata la trasmissione degli atti alla Corte dei Conti per le valutazioni di sua competenza”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 913 del 2014

Il Consiglio di Stato sulla prova della data in cui sono state realizzate le opere abusive

01 Lug 2014
1 Luglio 2014

Il Consiglio di Stato con la sentenza  del 15 luglio 2013 – Sezione V^ - n. 3844, in materia di prova sulla data in cui sono state realizzate le  opere abusive e sanatoria, ha  precisato il seguente orientamento.

La suddetta sezione del Consiglio di Stato ha rilevato che  la prova sulla realizzazione delle opere abusive entro una data prevista, grava sempre, come in precedenza evidenziato dal supremo consesso, sul richiedente la sanatoria, che può avvalersi, se non vi è contestazione, della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà.

La suddetta dichiarazione, prevista dall’art. 4 della L. n. 15/1968, ha attitudine certificativa e probatoria, fino a contraria risultanza, nei confronti della pubblica amministrazione in determinate attività e procedure amministrative, ma, in difetto di diversa , specifica, previsione di legge, nessun valore probatorio, neanche indiziario, può essere ad essa  attribuito nel procedimento caratterizzato, come nella fattispecie oggetto di esame del C.d.S., dal principio dell’onere della prova; atteso che la parte non può derivare elementi di prova a proprio favore, al fine del soddisfacimento del relativo onere, da proprie dichiarazioni (in particolare nel corso del giudizio ex art. 2697 c.c.).

La dichiarazione sostitutiva di notorietà dell’intervenuta ultimazione delle opere entro una certa data di scadenza è quindi di per sè potenzialmente idonea e sufficiente a dimostrare la data di ultimazione delle opere, ma non preclude all’Amministrazione, in sede di esame della stessa, la possibilità di raccogliere nel corso del procedimento elementi “ a contrario” e di pervenire a risultanze diverse.

A fronte di elementi di prova a disposizione dell’Amministrazione  che attestino il contrario, quali il rilievo aerofotogrammetrico, il responsabile dell’abuso è gravato dell’onere di provare, mediante  elementi certi ( quali fotografie aeree, fatture, sopralluoghi e così via) l’effettiva realizzazione dei  lavori entro il termine previsto dalla legge per poter usufruire del beneficio della sanatoria, non potendo limitarsi a contestare i dati in possesso dell’Amministrazione, senza fornire alcun elemento di prova a corredo della propria tesi, in quanto l’Amministrazione, in assenza di elementi di prova contrari, non può che respingere la domanda di sanatoria.

Poiché l’attendibilità del rilievo aerofotogrammetrico (specie se risalente) può essere condizionata da una molteplicità di fattori ( tecnologici, come la maggiore o minore risoluzione, ambientali, come  fenomeni di rifrazione, la presenza di vegetazione  che può schermare le costruzioni, etc.), deve ritenersi ammissibile la prova contraria, che deve essere però concreta e rilevante, senza che possa  ritenersi sufficiente per contrastare dette risultanze il mero disconoscimento delle stesse.

Nel caso all’esame del C.d.S. risultava dalla aerofotogrammetria del 19 agosto 1994 che non era ancora stato realizzato il manufatto di cui si trattava e da un sopralluogo dei Vigili Urbani del Comune interessato, effettuato nel successivo mese di novembre 1994, risultava che sull’area oggetto del contenzioso era stato  realizzato il fabbricato oggetto di condono completato al grezzo con in corso i lavori di installazione  dell’impianto elettrico ed idrico.

A fronte di tutte le risultanze idonee a smentire la dichiarazione sostitutiva ex art. 4 della L. n. 15/1968 presenta dalla appellante, questa, che a tanto era tenuta incombendo su di essa  l’onere della prova, non ha fornito prove contrarie idonee a dimostrare la impossibilità di giuridico apprezzamento, essendosi limitata a ipotizzare fattori che avrebbero potuto rendere non visibile il manufatto in questione nell’aerofotogrammetria di cui si trattava (come la vegetazione , ecc.) senza fornire alcuna valida e concreta prova contraria, limitandosi a sostenere che l’Amministrazione  non era stata in grado di dimostrare il proprio assunto.

Il C.d.S., come condivisibilmente ritenuto dal primo Giudice, ha rilevato che non era invero sufficiente a smentire le risultanze acquisite dal Comune  il documento a tal fine prodotto dalla appellante, perché consistente in una mera rappresentazione di curve altimetriche.

In conclusione , quindi, il C.d.S., in assenza di adduzioni da parte dell’appellante di prova, mediante elementi  certi, dell’epoca di realizzazione del manufatto in questione diversa da quella risultante all’Amministrazione, ha ritenuto che doveva essere ritenuta pienamente legittima la reiezione della domanda di sanatoria  impugnata con il ricorso introduttivo del giudizio in esame.

avv. Gianmartino Fontana

Sentenza C.d.S. n. 3844 del 2013

Il preavviso di rigetto ex art 10 bis L. 241/90 non si applica alla SCIA

01 Lug 2014
1 Luglio 2014

Lo conferma la sentenza del TAR Veneto n.  875 del 2014.

Si legge nella sentenza: "Premesso che con SCIA del 26.2.2014, presentata ai sensi dell’art. 87-bis del D.lgs. 259/2003, la società istante ha inteso comunicare all’amministrazione comunale la volontà di installare su un impianto già esistente (in via Piraghetto, Mestre) una stazione radiobase per conto del gestore WIND; che con il provvedimento impugnato, il Comune ha diffidato l’esecuzione dei lavori segnalati in quanto l’impianto non avrebbe  osservato le distanze dai confini e dai fabbricati, così come previste dall’art. 50 del Regolamento edilizio comunale; che, inoltre, come osservato nel medesimo atto, non risulta fornita la prova dell’avvenuta richiesta di parere all’ARPAV; ritenuto che, per quanto riguarda il primo motivo, con il quale è stata denunciata la violazione dell’art. 10-bis della legge 241/90, la censura sia destituita di fondamento attesa la particolare natura della SCIA; invero, come già ritenuto con riguardo alla DIA, con tale mezzo si persegue l’obiettivo di assicurare una semplificazione procedimentale che consente al privato di conseguire un titolo abilitativo a seguito del decorso di un termine (30 giorni, così come previsto anche dall’art. 87- bis) dalla presentazione della segnalazione; proprio in considerazione della peculiare natura dell’istituto, nell’ipotesi in cui l’amministrazione assuma l’atto di diffida ad eseguire l’intervento segnalato, a tale diffida-ordine non si applica l'istituto del c.d. preavviso di rigetto (non trattandosi di rigetto in senso proprio). L'istituto del preavviso di rigetto trova infatti applicazione solo nell'ipotesi di adozione di un provvedimento negativo sull'istanza (di provvedimento positivo) presentata dal privato e non nel caso di presentazione di denunzia di inizio di attività e successivo ordine o diffida a non iniziare i lavori. Pertanto, è inapplicabile alla Dia (di cui al D.P.R. n. 380 del 2001) e quindi , per le medesime ragioni, anche alla SCIA, l'art. 10 bis, l. n. 241 del 1990, atteso altresì che l'onere del preavviso di diniego è incompatibile con il termine ristretto entro il quale l'amministrazione deve provvedere, non essendo fra l'altro previste parentesi procedimentali produttive di sospensione del termine stesso".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 875 del 2014

Gli impianti di telecomunicazione sono opere di urbanizzazione primaria non soggetti al rispetto delle distanze edilizie

01 Lug 2014
1 Luglio 2014

Lo precisa la sentenza del TAR Veneto n. 875 del 2014, dove si legge che: "il Collegio non può non osservare come, per espressa previsione normativa, gli impianti di telecomunicazione siano stati assimilati alle opere di urbanizzazione primaria e come tali non risultino soggetti, come avviene per le costruzioni, al rispetto delle distanze dettate a fini edilizi dai Comuni. Non può, infatti, essere ignorato il costante orientamento interpretativo per cui l’espressa assimilazione normativa fra le stazioni radio base e le opere di urbanizzazione primaria (comma 3 dell’art. 86, d.lgs. 259, cit.)  rende l’installazione di tali manufatti compatibile con qualunque destinazione di zona; a tale riguardo è stato altresì precisato come l’attività volta all’installazione degli impianti in parola resta assoggettata alle sole prescrizioni di cui all’art. 87 del d.lgs. 259 del 2003 e non anche alle previsioni generali di cui all’art. 3 del d.P.R. 380 del 2001. In tal modo, come ricordato da C.d.S., VI, n. 5044/2008, “dal punto di vista urbanistico, i Comuni possono incidere sulla collocazione delle antenne radio base, a condizione che la regolamentazione introdotta non abbia l’effetto di impedire in modo indiscriminato la loro installazione nell’ambito del territorio comunale, ovvero non la assoggetti a limiti non adeguati al fine della salvaguardia dei concomitanti interessi oggetto di tutela; la disciplina comunale non può assimilare tout-court gli impianti in questione agli edifici sotto il profilo edilizio - urbanistico (ad es.: assoggettando i primi ai limiti di altezza o in tema di distanze propri dei secondi); la medesima disciplina non può introdurre limiti procedurali ulteriori rispetto a quelli previsti dall’art. 87 del Codice delle comunicazioni elettroniche.” Ne consegue, alla stregua di tale indirizzo, che la diffida impugnata, nella parte in cui pone a fondamento del proprio divieto il mancato rispetto delle distanze dagli edifici e dai confini, nonché la relativa previsione regolamentare sul punto specifico, risultano in contrasto con i profili interpretativi sopra ricordati".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 875 del 2014

Appalti: come incide sulla richiesta di risarcimento la mancata disponibilitĂ  al subentro?

01 Lug 2014
1 Luglio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 24 giugno 2014 n. 906, si sofferma sul collegamento esistente tra la richiesta di risarcimento del danno per mancata aggiudicazione della gara e l’istanza di subentro: “Con riferimento al richiesto risarcimento del danno il Collegio rileva che la ricorrente non ha manifestato la disponibilità a subentrare nel contratto, così come previsto dal primo comma dell’art. 124 cpa e che tale richiesta è indispensabile per assegnare l’esecuzione del contratto alla stessa, per cui il pregiudizio patrimoniale lamentato, in difetto della riferita istanza, deve valutarsi alla stregua delle previsioni di cui all’art. 1227 c.c..

E’ di tutta evidenza, pertanto, che il nocumento patito dalla ricorrente avrebbe potuto essere evitato con la diretta assegnazione del servizio cui la predetta ambiva, essendo, quest’ultima, seconda graduata nella procedura di gara.

Né la ricorrente ha dimostrato e provato l’esistenza di ulteriori danni.

Conseguentemente l’eventuale pregiudizio patito deve essere alla stessa imputato perchè, con il suo comportamento processuale, non ha avanzato la richiesta di esecuzione del contratto che avrebbe limitato e sinache escluso il nocumento lamentato attraverso l’esecuzione del servizio in questa sede, come detto, non richiesto”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 906 del 2014

La richiesta di chiarimenti impedisce la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di permesso di costruire?

30 Giu 2014
30 Giugno 2014

Segnaliamo sulla questione la sentenza del TAR Veneto n. 770 del 2014.

Scrive il TAR: "Premesso che i provvedimenti impugnati con il ricorso principale e con i motivi aggiunti assumono a presupposto la mancata formazione del silenzio-assenso sulla domanda di permesso di costruire presentata il 4 maggio 2012, non essendo state fornite, secondo il Comune, “parte delle integrazioni” dallo stesso richieste con la nota del 29 maggio 2012, ovvero, non essendo stato depositato l’atto di consenso del confinante; Premesso, dunque, che ai fini della decisione della presente causa, è dirimente l’accertamento dell’intervenuta formazione tacita del titolo abilitativo; Ritenuto che, come evidenziato dalla ricorrente con il primo motivo, la suddetta nota comunale del 29 maggio 2012 non era idonea ad interrompere il decorso del termine per provvedere, sostanziandosi nella richiesta di un documento non necessario ai fini della delibazione della domanda di permesso di costruire; Ed infatti, premesso che l’intervento in questione risulta progettato ai sensi e per gli effetti della L.r. n. 14/09, come modificata dalla  successiva L.r. n. 13/2011, con previsione di un ampliamento realizzato in sopraelevazione, in aderenza al confine di proprietà; Osservato che la necessità del consenso del vicino ad un tale intervento edilizio è prevista solo dal regolamento locale ma non dalle norme del codice civile; Considerato che, ai sensi dell’art. 2 comma 1, la L.r. n. 14/09 opera “in deroga alle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali, comunali, provinciali e regionali”; Ritenuto che l’ampia locuzione usata dal legislatore include tutti i contenuti territoriali, urbanistici ed edilizi degli atti di pianificazione di ogni livello, con la sola esclusione, in quanto estranei al campo applicativo della L.r. n. 14/2009, dei contenuti ambientali o paesaggistici; Osservato che la legge citata, dunque, consente di derogare, non solo alle norme sulle distanze (diverse da quelle di fonte statale), ma anche a tutte le altre previsioni poste da fonti locali in materia urbanisticoedilizia, ivi comprese, quindi, le previsioni, come quella di specie, che subordinano la facoltà di costruire sul confine al previo consenso del vicino; Considerato che, alla luce di tali premesse, la richiesta documentale formulata dall’amministrazione risulta un inutile appesantimento dell’istruttoria, non consentito dai principi generali regolatori del procedimento amministrativo, né, in particolare, dall’art. 20 D.P.R. n. 380/2001, laddove al quinto comma prevede che: “il termine di cui al comma 3 può essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento, entro trenta giorni dalla presentazione della domanda, esclusivamente per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino la documentazione presentata..”; Ritenuto che, nel caso di specie, la domanda di permesso di costruire presentata dalla ricorrente il 4 maggio 2012, sulla base dei parametri normativi, era completa ed idonea a porsi come presupposto per la formazione del silenzio-assenso; Osservato, in ogni caso, che la nota del 29 maggio 2012 non era diretta a sospendere alcun termine procedimentale consistendo, invece, in una ordinaria comunicazione di chiusura del procedimento; Ritenuto in conclusione che sulla domanda di permesso di costruire presentata il 4 maggio 2012 si sia formato il silenzio assenso, non essendo intervenuto un provvedimento espresso di diniego nei sessanta giorni successivi; da ciò derivandone l’illegittimità dei provvedimenti di diniego impugnati con il ricorso principale che assumono a presupposto la circostanza contraria; Ritenuto che l’eventuale mancato rispetto della distanza di 10 metri fra pareti finestrate non è preclusivo alla formazione tacita del titolo abilitativo, potendo semmai essere posto a fondamento di un provvedimento di autotutela".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 770 del 2014

Quando è ammesso l’annullamento in autotutela di una gara?

30 Giu 2014
30 Giugno 2014

 Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 24 giugno 2014 n. 907 chiarisce quando e come è possibile annullare in autotutela una gara pubblica. Nel caso di specie la stazione appaltante, dopo aver aggiudicato la gara all’unica ditta che aveva indicato nella propria offerta i costi della sicurezza, a fronte di una lex specialis che non li prevedeva affatto, decideva di annullare in autotutela l’intera gara perché la citata omissione aveva pregiudicato il principio della massima partecipazione: “Preliminarmente il Collegio osserva che l’annullamento in sede di autotutela della gara da parte della stazione appaltante deve necessariamente osservare le previsioni normative di cui agli artt. 21 octies e nonies della L. 241/1990 in uno con l’art. 3 della legge cit.

In altre parole la possibilità d’intervento della p.a. per modificare ed alterare una situazione in essere, è sempre subordinata ad una adeguata istruttoria, che non può prescindere dai diversi interessi coinvolti e che deve essere riportata nella conseguente motivazione proprio per esplicitare le ragioni di fatto e di diritto alla base del provvedimento di secondo grado.

Nel caso di specie la p.a. ha utilizzato la norma di gara in modo non adeguato e non rispettoso del sistema, attraverso una sua mera applicazione letterale, all’evidenza non conforme ai principi ed agli insegnamenti che presiedono l’attività di autotutela risultando, non solo omessa ogni attività istruttoria che doveva, necessariamente, coinvolgere anche l’attuale ricorrente, ma il provvedimento assunto si palesa privo di qualsivoglia giuridica motivazione utilizzando espressioni stereotipate che non rappresentano, né partecipano le ragioni che supportano il provvedimento assunto.

Non solo, i motivi espressi incidentalmente nel provvedimento di annullamento sono errati e disattendono il pacifico insegnamento al riguardo espresso del Consiglio di Stato e da questo Tribunale costantemente ribadito ( cfr. per tutti TAR Veneto, sez. 1°, n. 301/2014).

In particolare il supremo consesso amministrativo ha, in più occasioni, statuito che : “La mancanza, nella legge di gara, di una tale specifica previsione non giustifica la mancata indicazione, nell’offerta, dei costi per la sicurezza aziendale, atteso il carattere immediatamente precettivo delle norme di legge sopra richiamate, che impongono di formulare, nell’offerta, tali costi, così da eterointegrare la legge speciale della singola gara (ai sensi dell’art. 1374 del c.c.) e ad imporre, in caso di loro inosservanza, l’esclusione dalla procedura” (Consiglio di Stato, sez. III, 28 agosto 2012, n. 4622).

Precisando, altresì che : “ Ciò comporta che, anche in difetto di una statuizione espressa nella disciplina speciale di gara, l’inosservanza della prescrizione che impone l’indicazione preventiva dei costi di sicurezza aziendali implica la sanzione dell’esclusione, perchè l’offerta avanzata è incompleta proprio in relazione ad un elemento essenziale, tale da impedire alla stazione appaltante un adeguato controllo sull’affidabilità dell’offerta stessa” (Consiglio di Stato, sez. III, 2 dicembre 2011, n. 6380)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 907 del 2014

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