Tag Archive for: Amministrativo

È legittimo imporre il pagamento ai professionisti anche tramite POS (purtroppo)

09 Mag 2014
9 Maggio 2014

Il T.A.R. Lazio, Roma, sez. III ter, nell’ordinanza del 30 aprile 2014 n. 1932, dichiara legittimo il D.M. 24 gennaio 2014 del Ministro dello Sviluppo Economico, nella parte in cui prevede l’obbligo, per tutti i professionisti privati, di accettare pagamenti attraverso carte di debito: “Ritenuto che, alla luce della sommaria delibazione dell’atto impugnato e dei motivi di ricorso, la domanda diretta all’annullamento del Decreto Ministeriale in epigrafe (atto di normazione secondaria, attuativo di quanto disposto dal D.L. n. 179 del 2012, convertito in L. 17 dicembre 2012, n. 221) non appare caratterizzata da evidente “fumus boni juris”, atteso che il Decreto impugnato sembra rispettare i limiti contenutistici ed i criteri direttivi fissati dalla richiamata fonte legislativa che, all’art. 9, comma 15-bis, impone perentoriamente ed in modo generalizzato che “a decorrere dal 30 giungo 2014, i soggetti che effettuano l’attività di vendita di prodotti e di prestazioni di servizi, anche professionali, sono tenuti ad accettare anche pagamenti effettuati attraverso carte di debito….”;

ritenuto che con il Decreto impugnato il Ministero dello sviluppo economico, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, ha dato attuazione al suddetto obbligo generale di fonte legale (relativo all’uso tendenzialmente generalizzato delle carte di debito per le transazioni commerciali) limitandosi a prevedere, nel rispetto della norma attributiva del potere di normazione secondaria (cfr. art. 15, comma 5, D.L. n. 179 del 2012), un termine di decorrenza differenziato in relazione a distinte classi di imprese e professionisti (obbligo immediato per imprese e professionisti il cui fatturato, nell’anno precedente a quello nel corso del quale è stato effettuato il pagamento, sia stato superiore ai duecentomila euro; obbligo differito al 30 giugno 2014 per tutti gli altri operatori) e l’importo minimo dei pagamenti ai quali si applica la nuova disposizione di legge (peraltro ai sensi dell’art. 15, comma 5, D.L. cit. la fissazione di “importi minimi” da parte della fonte secondaria è espressamente indicata come “eventuale”)”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Lazio, Roma, ordinanza n. 1932 del 2014

Valore di una sentenza civile non passata in giudicato relativa ai confini ai fini del rilascio di un titolo edilizio

08 Mag 2014
8 Maggio 2014

La sentenza del Consiglio di Stato n. 1942 del 2014 esamina la questione delle indagini sulla proprietà e sui confini che il Comune deve effettuare ai fini del rilascio di un titolo edilizio.

Scrive il Consiglio di Stato circa i limiti dell'indagine: "Al fine di risolvere le questioni giuridiche poste da queste ultime, occorre innanzitutto ricordare che per costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato in sede di rilascio di titoli ad edificare l’amministrazione è tenuta a verificare la disponibilità giuridica del richiedente, ma non le sono richieste complesse ricognizioni giuridicodocumentali sul titolo di proprietà (o altro diritto reale), ritenendosi per contro sufficiente che l’istante esibisca un titolo che formalmente legittimi il rilascio del provvedimento abilitante in suo favore (Sez. III, 22 aprile 2013, n. 2238; Sez. IV, 20 dicembre 2013, n. 6165, 22 novembre 2013, n. 5563, 4 aprile 2012, n. 1990). In questa prospettiva, si afferma che l’obbligo per l’amministrazione di verificare che il  richiedente rispetti i limiti privatistici gravanti sul fondo sul quale intende edificare è soddisfatto mediante semplice presa d’atto di detti limiti, in quanto effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili o non contestati, senza la necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici (Sez. IV, 26 luglio 2012, n. 4255; Sez. VI, 28 settembre 2012 n. 5128).

4. Nella medesima linea si colloca anche il precedente invocato dall’appellante (Sez. IV, 4 aprile 2012, n. 1990, sopra citato), nel quale si è ribadito che “la questione della titolarità del bene in ordine al quale viene chiesto titolo abilitativo al Comune, è questione incidentale che non può farsi coincidere del tutto con l’accertamento della titolarità reale, che non compete funditus né all’adito
giudice amministrativo, né alla amministrazione competente in materia edilizia. Ai fini del rilascio del permesso di costruire l'amministrazione è onerata del solo accertamento della sussistenza del titolo astrattamente idoneo da parte del richiedente
alla disponibilità dell'area oggetto dell'intervento edilizio: cioè l'astratta proprietà desunta dagli atti pubblici prodotti ed in via residuale dalle risultanze catastali. Nel procedimento di rilascio dei titoli edilizi, l'amministrazione ha il potere e il dovere di
verificare l'esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull'immobile interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, costituendo tale verifica un'attività istruttoria che non è diretta, in via principale, a risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in ordine all'assetto proprietario degli immobili interessati, ma che risulta finalizzata, più semplicemente, ad accertare il requisito della legittimazione del richiedente.”. La pronuncia in esame ha quindi soggiunto che se l’amministrazione “ha
sempre l’onere di verificare la legittimazione del richiedente la concessione edilizia e ora il permesso di costruire, accertando che sia il proprietario dell’immobile oggetto  dell’intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l’attività edificatoria”, nondimeno “non incombe, però, alla p.a. l’onere di effettuare complesse indagini e ricognizioni giuridico-documentali sul titolo di proprietà depositato dal richiedente” (in termini simili anche la pronuncia della IV Sez. n. 3508 dell’8 giugno 2011, parimenti invocata dalla Società Zandonai).

5. Tanto precisato, il TRGA si è pienamente attenuto a questo indirizzo, rilevando che l’amministrazione resistente aveva basato il rilascio del titolo ad edificare contestato sulle convergenti risultanze istruttorie costituite dalla documentazione fotografica raffigurante lo stato dei luoghi sin dal 1983, dalla quale emergeva in particolare l’esistenza di un cancello e di una recinzione posti a delimitazione delle due proprietà e dalla sentenza del Tribunale di Rovereto che aveva regolato il confine in corrispondenza di tale manufatto. Contro questa ratio decidendi si infrange anche la censura di eccesso di potere per difetto di istruttoria sulla situazione dei luoghi ed in particolare dei fondi interessati dall’edificazione.

6. A confutazione della controeccezione della ricorrente, la quale ha riferito di avere segnalato all’amministrazione l’appello nei confronti di detta pronuncia, il giudice di primo grado ha affermato che: “vi era dunque, se non la assoluta certezza, certamente una forte apparenza della titolarità della richiedente (…) mancavano al momento della conclusione del procedimento, adeguati elementi istruttori per negare la concessione”. Il giudice di primo grado non ha quindi mancato di evidenziare che, la circostanza, pur nota all’amministrazione, che la sentenza del Tribunale di Rovereto era stata appellata, non poteva indurre quest’ultima a  soprassedere dal rilasciare la concessione, a causa della necessità di non aggravare il procedimento che sulla base delle suddette emergenze documentali poteva già all’epoca ritenersi sufficientemente istruito. Nessuna critica può dunque essere rivolta per questa parte alla decisione qui appellata".

Per quanto riguarda poi la rilevanza di una sentenza del giudice civile non passata in giudicato, che accerta i con fini, nella snetenza si legge che: "7. Erra poi l’appellante a negare rilievo di prova in sede procedimentale amministrativa ad una sentenza civile non passata in giudicato. In assenza di prove legali e di divieti di legge, nessun dubbio può nutrirsi sul fatto che anche quest’ultima possa essere impiegata dall’amministrazione come fonte di convincimento per l’esercizio di poteri di sua competenza. I principi di efficienza ed efficacia che reggono l’azione amministrativa (art. 1 l. n. 241/1990) non consentono di attendere i tempi, notoriamente lunghi, per ottenere l’incontrovertibilità propria del giudicato. Più in generale, il grado di certezza dei fatti rilevanti per l’esercizio del potere amministrativo preteso dall’ordinamento è relativo, potendo in altri ambiti essere acquisiti elementi di conoscitivi fondati su mere attestazioni dei privati istanti (le autocertificazioni), la cui efficacia probatoria riposa sul principio di autoresponsabilità del dichiarante e sulle verifiche campionarie successive. A fortiori dunque deve ritenersi consentito all’amministrazione di impiegare pronunce giurisdizionali non ancora definitive.

8. In memoria conclusionale la società appellante si sofferma poi sull’efficacia delle sentenze civili nel giudizio amministrativo, traendo dall’indirizzo giurisprudenziale che riconosce l’utilizzabilità delle prime ai fini di prova dei fatti controversi nel secondo argomenti a sostegno  delle proprie doglianze, come finora esaminate. Sostiene al riguardo la Società Zandonai che, l’accertamento, con efficacia di giudicato, contenuto nella Corte d’appello di Trento accertato secondo cui “il confine tra le pp.ff 894 (ora 894/1 e 894/2) e 895/1 C.C. Pedersano si identifica con il confine catastale di cui al grafico 2 della c.t.u.”, avrebbe fatto venire meno i presupposti fondanti il rilascio della concessione edilizia impugnata. La deduzione è tuttavia inconferente ai fini dello scrutinio di detta doglianza. L’errato apprezzamento dei presupposti fattuali e giuridici rilevanti per l’esercizio di un potere attiene alla questione della legittimità del provvedimento impugnato, che il giudice di primo grado ha apprezzato come finora detto, mentre i rapporti tra sentenze di diversi ordini giurisdizionali concernono la diversa questione della prova dei fatti controversi nell’ambito del giudizio amministrativo. Come sopra detto il TAR è giunto alla conclusione che l’amministrazione abbia effettuato una valutazione di detti presupposti non inficiata da errori in base alle risultanze istruttorie in suo possesso e che non fosse necessario attendere l’esito del giudizio civile, onde non aggravare il procedimento. La Società Zandonai si duole per contro che la situazione di fatto rappresentatasi dal Comune di Lagaranina sia stata a posteriori smentita dalla sentenza d’appello del giudizio di regolamento dei confini. Che ciò sia avvenuto non è contestabile, ma che l’operato dell’amministrazione sia del pari stato rispettoso dei canoni generali dell’agire amministrativo sotto i profili, qui contestati, dell’errato apprezzamento dei fatti e del difetto di istruttoria, oltre che di non aggravamento del procedimento, è altrettanto pacifico, alla luce di quanto finora osservato".

Dario Meneguzzo -avvocato

sentenza CDS 1942 del 2014

L’inquinamento atmosferico e la soglia di c.d. normale tollerabilità

08 Mag 2014
8 Maggio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza dl 05 maggio 2014 n. 573, chiarisce che l’espressione “inquinamento atmosferico” comprende anche le emissioni odorigene – nella specie quelle provenienti da un fabbrica che produce materiale plastico – che, seppur non superando la soglia di normale tollerabilità, creano gravi problematiche di carattere olfattivo: “Rispetto a queste va osservato che è vero che per le emissioni odorigene in base alla normativa nazionale vigente non è prevista la fissazione di limiti di emissione né di metodi o di parametri idonei a misurarne la portata, tuttavia ciò non significa che in sede di rilascio delle autorizzazioni alle emissioni in atmosfera non possano essere oggetto di considerazione i profili attinenti alle molestie olfattive al fine di prevenire e contenere i pregiudizi dalle stesse causati.

Infatti l’art. 268, comma 1, alla lett. a), del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152 (che sul punto richiama l’art. 2 del DPR 24 maggio 1988, n. 203) fa proprio un concetto ampio di inquinamento atmosferico che è definito come “ogni modificazione dell'aria atmosferica, dovuta all'introduzione nella stessa di una o di più sostanze in quantità e con caratteristiche tali da ledere o da costituire un pericolo per la salute umana o per la qualità dell'ambiente oppure tali da ledere i beni materiali o compromettere gli usi legittimi dell'ambiente”, e alla lett. b), definisce come emissione in atmosfera “qualsiasi sostanza solida, liquida o gassosa introdotta nell'atmosfera che possa causare inquinamento atmosferico e, per le attività di cui all'articolo 275, qualsiasi scarico, diretto o indiretto, di COV nell'ambiente”.

Pertanto anche se non è rinvenibile un riferimento espresso alle emissioni odorigene, le stesse debbono ritenersi ricomprese nella definizione di «inquinamento atmosferico» e di «emissioni in atmosfera», poiché la molestia olfattiva intollerabile è al contempo sia un possibile fattore di «pericolo per la salute umana o per la qualità dell'ambiente», che di compromissione degli «altri usi legittimi dell'ambiente», ed in sede di rilascio dell’autorizzazione, dovendo essere verificato il rispetto delle condizioni volte a minimizzare l’inquinamento atmosferico (infatti per l’art. 296, comma 2, lett. a, del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, il progetto deve indicare le tecniche adottate per limitare le emissioni e la loro quantità e qualità), possono pertanto essere oggetto di valutazione anche i profili che arrecano molestie olfattive facendo riferimento alle migliori tecniche disponibili (cfr. Tar Friuli Venezia Giulia, 2 gennaio 2013, n. 2; Tar Veneto, Sez. III, 3 maggio 2011, n. 741; Tar Umbria, 10 gennaio 2003, n. 10)”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 573 del 2014

Spetta al Sindaco ordinare la rimozione dei rifiuti

08 Mag 2014
8 Maggio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 05 maggio 2014 n. 574, conferma il suo orientamento in materia di organo competente ad ordinare la rimozione dei rifiuti: spetta al Sindaco e non al Dirigente emanare questo provvedimento amministrativo.

A riguardo si legge che: “è vero quanto afferma la parte ricorrente con riguardo all’art. 107 del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267.

A decorrere dalla data di entrata in vigore del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, le disposizioni che conferivano agli organi politici atti di gestione e atti o provvedimenti amministrativi, devono intendersi nel senso che la relativa competenza è transitata in capo ai dirigenti, e tale principio vale anche per l’ordinanza contemplata dall’art. 14 del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22.

Tuttavia va considerato che nel caso all’ esame l’ordinanza è stata adottata successivamente all’entrata in vigore del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152 (pubblicato sula gazzetta ufficiale n. 88 del 14 aprile 2006), e che l’art. 192 di tale decreto legislativo, ha incardinato in capo al Sindaco e non al dirigente la competenza ad adottare le ordinanze di rimozione dei rifiuti.

Come ha chiarito la giurisprudenza, la disposizione da ultimo citata, in base al criterio cronologico e di specialità, prevale sulla disposizione di cui all’art. 107 del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, con la conseguenza che le ordinanze di rimozione dei rifiuti abbandonati adottate successivamente all’entrata in vigore del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, rientrano nella competenza del Sindaco (ex pluribus cfr. Tar Calabria, Catanzaro, Sez. I, 7 maggio 2013, 514; Tar Veneto, Sez. III, 24 novembre 2009, n. 2968; id. 14 gennaio 2009, n. 40; Consiglio di Stato, Sez. V, 25 agosto 2008, n. 4061)”.

Pr quanta concerne il soggetto destinatario, il Collegio chiarisce che solo in via residuale tale ordine può essere rivolto nei confronti del c.d. proprietario incolpevole: “Come è noto l’art. 192 del Dlgs. 3 aprile 2006. n. 152, conformemente a quanto prima già prevedeva l’art. 14 del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, impone che l’ordine di rimozione sia rivolto nei confronti dell’autore dell’abbandono, e in caso di rinvenimento di rifiuti abbandonati da ignoti, il proprietario del terreno non può essere chiamato a rispondere se non viene individuato a suo carico l'elemento soggettivo del dolo o della colpa”.

 dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 574 del 2014

Il “mito” della semplificazione: convegno a Padova

08 Mag 2014
8 Maggio 2014

L'Università degli Studi di Padova - Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali e l'Associazione Veneta Avvocati Amministrativisti organizzano il Convegno di Studi, intitolato Il  “mito” della semplificazione, a Padova, 30 maggio 2014, ore 15.30 – 19.30.

Coordina il prof. Vittorio Domenichelli.

Ne discutono: Luigi Benvenuti, Giuseppe Caia, Marcello Clarich, Alfredo Corpaci, Rosario Ferrara, Erminio Ferrari, Enrico Follieri, Carlo Emanuele Gallo, Lucio Iannotta, Nino Longobardi, Enzo Maria Marenghi, Alfonso Masucci, Eugenio Picozza, Andrea Pubusa. 

 Convegno semplificazione 30 maggio 2014

 

Le distanze del D.M. del 1968 nel caso di parete finestrata con una porzione cieca

07 Mag 2014
7 Maggio 2014

Nel caso di una parete finestrata con una porzione cieca, il vicino può costruire senza rispettare le distanze di cui al DE.M. del 1968, limitatamente alla porzione cieca?

Il TAR Veneto, nella stessa sentenza n. 561 del 2014 dice di no: "4. E qui si giunge al secondo punto controverso, dove, mentre la ricorrente invoca il rispetto, da parte della nuova costruzione, della distanza di dieci metri dalla parete finestrata del condominio “La Palladietta”, ai sensi dell’art. 9 del D.M. 1444/1968, il Comune resistente e la società costruttrice controinteressata sostengono invece che la regola della distanza di dieci metri tra pareti di cui almeno una finestrata, posta dell’art. 9 del D.M. 1444/1968, possa essere derogata nell’ipotesi di costruzione in aderenza prevista dall’art. 877 c.c. . E ciò, in particolare, laddove, come nel caso di specie, l’ampliamento si va ad addossare ad una porzione cieca della parete. In tale ipotesi, essendo le pareti fronteggianti, nella parte in cui vengono in aderenza, entrambe non finestrate, non troverebbe applicazione il predetto art. 9 D.M. 1444/1968, bensì l’art. 877 c.c. . La tesi da ultimo illustrata appare priva di fondamento 

4.1. Ed infatti, va innanzitutto premesso che l’art. 9, primo comma, n. 2, del D.M. 1444/1968, laddove prescrive la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, essendo diretto alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, pone una disposizione tassativa ed inderogabile, anche rispetto alla disciplina – si badi di natura eccezionale – del criterio di prevenzione e dei suoi corollari (fra cui la possibilità di costruire in aderenza di cui all’art. 877 c.c.) prevista dal codice civile in tema di distanze tra costruzioni. Sul punto la giurisprudenza della Cassazione, condivisa peraltro dal Consiglio di Stato, è ferma nel ritenere che l’art. 9, primo comma, n. 2, del D.M. 1444/1968 “stante la sua assolutezza ed inderogabilità, risultante da fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali, comporta che, nel caso di esistenza sul confine tra due fondi di un fabbricato avente il muro perimetrale finestrato, il proprietario dell'area confinante che voglia, a sua volta, realizzare una costruzione sul suo terreno deve mantenere il proprio edificio ad almeno dieci metri dal muro altrui, con esclusione della possibilità di esercizio della facoltà di costruire in aderenza (esercitabile soltanto nell'ipotesi di inesistenza sul confine di finestre altrui) e senza
alcuna deroga neppure per il caso in cui la nuova costruzione realizzata nel mancato rispetto del menzionato d.m. sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma terzo, cod. civ.” (Cass. civ. Sez. II: 20 giugno 2011 n. 13547, 31  ottobre 2006, n. 23495, 10 gennaio 2006, n. 145; Cons. St., sez. IV, 12 febbraio 2013, n. 844). 

4.2. Ciò premesso, ne deriva che, nel caso di specie, essendo la parete est del condominio “La Palladietta” una parete finestrata, dotata di vedute e balconi in ciascuno dei suoi tre piani, trova piena applicazione l’art. 9 comma 1, n. 2 del D.M. n. 1444/1968, a nulla valendo il fatto che l’ampliamento interesserebbe una porzione non finestrata della parete, dovendo la predetta distanza essere rispettata con riferimento all’intera parete e non solo alle sue porzioni finestrate. In tal senso si è condivisibilmente espressa la Cassazione con la
sentenza n. 13547 del 20 giugno 2011, laddove, interpretando l’art. 9 comma 1, n. 2 del D.M. n. 1444/1968, ha precisato che sono le pareti, non le finestre aperte in esse, a costituire dati di riferimento per il calcolo della distanza, per cui, in relazione alla ratio della previsione  (finalizzata alla salvaguardia dell'interesse pubblico - sanitario a mantenere una determinata intercapedine degli edifici che si fronteggiano), il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestre".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto n. 561 del 2014

Demolizione e ricostruzione con ampliamento in sopraelevazione e distanze del D.M. del 1968

07 Mag 2014
7 Maggio 2014

La sentenza del TAR Veneto n.  561 del 2014 si occupa anche della questione della demolizione e ricostruzione di un edificio con  ampliamento in sopraelevazione di un edificio che originariamente non dista 10 metri da una parete finestrata, chiarendo come ci si regola in relazione alla distanza di 10 metri tra pareti finestrate.

Scrive il TAR: "il gravame non è fondato nella parte in cui censura il titolo abilitativo anche per ciò che attiene alla demolizione e ricostruzione del fabbricato preesistente. Ovvero, laddove la ricorrente pretende che anche tale porzione di edificio, una volta demolita, debba essere ricostruita, non sul medesimo sedime, bensì rispettando la distanza di dieci metri dalla parete del condominio “La Palladietta”. Ed infatti, l’ipotesi in esame, di demolizione e ricostruzione con ampliamento, ex lege n 14/2009, è puntualmente e chiaramente disciplinata da quest’ultima legge, all’art. 10, il quale, alla lettera b), prevede che: “gli interventi di ristrutturazione edilizia con ampliamento di cui all’articolo 10, comma 1, lettera c), del DPR n. 380/2001, qualora realizzati mediante integrale demolizione e ricostruzione dell’edificio esistente, per la parte in cui mantengono volumi e sagoma esistenti sono considerati, ai fini delle prescrizioni in materia di indici di edificabilità e di ogni ulteriore parametro di carattere  quantitativo, ristrutturazione edilizia, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera d), del DPR n. 380/2001 e non nuova costruzione, mentre è considerata nuova costruzione la sola parte relativa all’ampliamento che rimane soggetta alle normative previste per tale fattispecie”. Ne consegue che la riedificazione dei primi due piani dell’edificio può sicuramente avvenire mantenendo lo stesso sedime del fabbricato originario e dunque in aderenza al condominio “La Palladietta”, integrando la loro demolizione e ricostruzione un intervento di mera ristrutturazione e non di nuova costruzione. Viceversa, i nuovi due piani da realizzare in sopraelevazione della preesistenza, devono essere qualificati come nuova costruzione, e ciò anche ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto n. 561 del 2014

La doppia tutela in tema di distanze fra costruzioni o di queste con i confini

07 Mag 2014
7 Maggio 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 561 del 2014: "Costituisce principio consolidato e pacifico che in tema di distanze fra costruzioni o di queste con i confini vige il regime della c.d. "doppia tutela", per cui il soggetto che assume di essere stato danneggiato dalla violazione delle norme in materia è titolare, da un lato, del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in pristino nei confronti dell'autore dell'attività edilizia illecita (con competenza del  G.O.) e, dall'altra, dell'interesse legittimo alla rimozione del provvedimento invalido dell'amministrazione, quando tale attività sia stata autorizzata, consentita e permessa (conosciuto dal G.A.). Pertanto, la controversia derivante dall’impugnazione di un permesso di costruire da parte del vicino che lamenti la violazione delle distanze legali costituisce una disputa non già tra privati ma tra privato e pubblica amministrazione, nella quale la posizione del primo si atteggia a interesse legittimo, con conseguente spettanza della giurisdizione al giudice amministrativo (cfr. da ultimo T.A.R. Veneto sez. II, 25 gennaio 2012, n. 43; Cons. Stato, sez. IV, 28.1. 2011 , n. 678)".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto n. 561 del 2014

L’ultimazione di un edificio ai fini del condono edilizio

07 Mag 2014
7 Maggio 2014

Segnaliamo sulla questione la sentenza del Consiglio di Stato n.  2032 del 2014, dove si legge che: "il Collegio ritiene fondata e assorbente la censura di violazione dell’art. 32, comma 25, del d.-l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito dalla legge 24 novembre 2003, n. 326 (misure per la riqualificazione urbanistica, ambientale e paesaggistica, per l’incentivazione dell’attività di repressione dell’abusivismo edilizio, nonché per la definizione degli illeciti edilizi e delle occupazioni di aree demaniali). La norma sopra citata, infatti, rende esplicitamente applicabili a opere abusive, ultimate entro il 31 marzo 2003, “le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47”, come successivamente modificate ed integrate, entro determinati limiti di cubatura. Tra le disposizioni richiamate, al capo IV della citata legge n. 47 del 1985 (norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie) è rilevante nel caso di specie l’art. 31, comma 2, in cui è precisato il concetto di “ultimazione” delle opere ammesse al condono, nei seguenti termini: “si intendono ultimati gli edifici, nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente”. Nella situazione in esame, il Comune di Altamura contesta genericamente che l’immobile fosse completato, sul piano strutturale, entro il 31 marzo 2003 (termine ultimo per l’ammissione al condono), ma tali affermazioni non trovano conferma nella documentazione fotografica in atti, che reca il timbro dello stesso Comune come allegato  all’istanza di sanatoria e che mostra un edificio effettivamente allo stato di rustico, fornito di copertura, ma completamente privo di finiture interne, idonee a caratterizzarne le possibili destinazioni d’uso. Deve quindi ritenersi, in effetti, che l’immobile fosse non “già esistente” (locuzione la cui rilevanza in questi termini è riservata ai meri mutamenti di destinazione d’uso, con o senza opere), ma appunto in via di completamento, con un grado di avanzamento dei lavori che ne consentiva, nei termini riportati, la condonabilità sul piano strutturale, per quanto riguarda le variazioni essenziali, che si riconoscevano apportate al progetto originariamente assentito (incremento di volumi e superfici su ogni piano). In assenza di finiture, tali da consentire l’esplicitazione della destinazione d’uso compatibile con le caratteristiche funzionali dell’immobile, il solo utilizzo in effetti ipotizzabile era quello residenziale, evidentemente privilegiato dalla legge perché stimato meno grave di quello non residenziale e, quindi, riconosciuto condonabile per edifici ancora in grado di completamento alla data indicata. Le ragioni sopra illustrate appaiono sufficienti per evidenziare l’illegittimità dell’atto di diniego impugnato e delle relative misure consequenziali, con assorbimento di ogni altra argomentazione difensiva".

Dario Meneguzzo -  avvocato

sentenza CDS 2032 del 2014

Corso sugli appalti delle pubbliche amministrazioni

07 Mag 2014
7 Maggio 2014

Il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Verona organizza un Corso di Perfezionamento ed Aggiornamento Professionale per approfondire le problematiche concernenti i contratti di lavori, servizi e forniture conclusi dalle pubbliche amministrazioni.

La docenza è affidata a: Consiglieri di Stato, Consiglieri TAR, Professori universitari, avvocati amministrativisti e Dirigenti di enti pubblici. 

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