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La chiusura di un terrazzo con una veranda può costituire una pertinenza

30 Apr 2014
30 Aprile 2014

La sentenza del Consiglio di Stato n. 1953 del 2014 conferma  la sentenza del TAR Umbria n. 611 del 2002.

La ricorrente ha realizzato sul terrazzo di un appartamento di sua proprietà una veranda costituita da pannelli di vetro e plastica. Al termine di una complessa vicenda procedimentale è stata intimata la demolizione del manufatto (18 gennaio 2001) e, successivamente, denegata la concessione edilizia in sanatoria (30 maggio 2001).

L'interessata ho proposto in base alle leggi dell'epoca, sostenendo, in sintesi, che l'opera non costituisce un volume abitabile, ma una semplice pertinenza per cui, essendo soggetta ad autorizzazione e non a concessione, l'infrazione eventualmente commessa dalla ricorrente avrebbe comportato una sanzione pecuniaria e non demolitoria. (Art. 10 L. 28 febbraio 1985 n. 47).

Il TAR ha disposto accertamenti istruttori con ordinanza 7 febbraio 2002 n. 8. Dall'istruttoria è emerso che, effettivamente, le caratteristiche tecniche della veranda non sono tali da renderla abitabile. Essa si connota piuttosto come un ripostiglio, o un balcone protetto dalle intemperie, ma non come un vero e proprio vano. Pertanto, dal punto di vista urbanistico la struttura stessa è definibile come pertinenza, con le inerenti conseguenze sul piano autorizzatorio e sanzionatorio. 3- Infine, il Collegio osserva come, ai fini che qui interessano, non abbia rilevanza il mancato assenso del condominio, diversamente da quanto sostenuto dal Comune e dal condominio stesso, giacché la tutela degli interessi condominiali deve essere articolata nelle competenti Sedi Giudiziarie Ordinarie e non di fronte agli organi della pubblica amministrazione. Ciò è tanto vero che le concessioni edilizie vengono sempre rilasciate, è noto, con salvezza dei diritti dei terzi. Diversamente opinando, la Pubblica Amministrazione verrebbe di fatto ad essere coinvolta in vicende privatistiche che le sono estranee e che sovente  vedono le parti fronteggiarsi con ogni sorta di cavilli, funzionali agli obiettivi più disparati. Liti, queste, che possono anche coinvolgere interessi rilevanti e meritevoli di tutela ma in ordine alle quali l’Amministrazione non ha alcuna competenza, essendo suo compito solo quello di verificare la compatibilità delle opere con la disciplina pubblicistica.”. Il TAR ha quindi accolto il ricorso e ha statuito che l'Amministrazione avrebbe dovuto valutare nuovamente l'istanza presentata dalla ricorrente al fine di ottenere l'autorizzazione, provvedendo sulla medesima e compiutamente motivando.

Il Comune ha appellato e il Consiglio di Stato ha respinto l'appello, con le seguenti considerazioni: "Secondo il TAR, nel caso in esame, dal punto di vista urbanistico, la struttura è definibile come pertinenza. Orbene è noto che secondo la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione la nozione di pertinenza urbanistica ha peculiarità sue proprie, che la distinguono da quella civilistica. Infatti deve trattarsi di un'opera preordinata ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello stesso, sfornita di un autonomo valore di mercato e dotata di un volume minimo. E’ stato anche rilevato che la nozione di pertinenza, rilevante ai fini dell'autorizzazione, deve essere interpretata in modo compatibile con i principi della materia e non si può, quindi, consentire la realizzazione di opere di rilevante consistenza solo perché destinate, dal proprietario, al servizio ed ornamento del bene principale. Inoltre la nozione di pertinenza va definita sia in relazione alla necessità e oggettività del rapporto pertinenziale, sia alla consistenza dell'opera, che non deve essere tale da alterare in modo significativo l'assetto del territorio. Orbene il manufatto in questione è di circa m. 12,41 di lunghezza, m. 1,55 di larghezza interna alla base, m.2,24 di altezza in gronda, m. 2,33 di altezza in corrispondenza del muro del fabbricato esistente. E’ evidente, quindi, che non si tratta di volumi modesti.

si tratta di un manufatto che altera in modo significativo l'assetto del territorio (come si evince anche dalla documentazione fotografica) comportandone una trasformazione fisica permanente. Non c’è dubbio, pertanto, che non si tratta di pertinenza e che l’intervento era assoggettato al regime concessorio".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza CDS 1953 del 2014

 

Vi è la giurisdizione del G.O. in materia di compensazione degli obblighi del servizio pubblico locale

30 Apr 2014
30 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 27 marzo 2014 n. 394 ricorda che la giurisdizione in materia di compensazione degli oneri del servizio pubblico locale spetta al Giudice Ordinario: “- con la presente impugnativa l’impresa ricorrente, società partecipata da 15 comuni della Provincia di Treviso, ha chiesto, in qualità di concessionaria della gestione del trasporto pubblico locale nell’area limitrofa alla città di Castelfranco Veneto, l’accertamento del proprio ad ottenere l’integrale compensazione degli oneri di servizio pubblico locale ai sensi dell’art. 5 del regolamento C.E.E. n. 1191/1969.

- per consolidato orientamento giurisprudenziale, dal quale il Collegio non ritiene di doversi discostare, le controversie riguardanti le pretese di maggiori compensazioni degli obblighi di servizio pubblico da parte delle imprese gestrici rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, attesa l’insussistenza di profili di discrezionalità amministrativa nell’attività di determinazione dell’entità dei relativi crediti alla stregua dei criteri tecnici individuati dalla normativa di riferimento (cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 20 febbraio 2012, nn. da 873 a 895; Cass. civ., sez. un., 14 novembre 2012, n. 19828; Cass. civ., sez. un., 27 marzo 2012, nn. da 4886 a 4892; Cass. civ., sez. un., nn. da 5168 a 5192; Cass. civ., 11 gennaio 2011, nn. 398 e 400)”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 394 del 2014

DECRETO-LEGGE 24 aprile 2014, n. 66

30 Apr 2014
30 Aprile 2014

Sulla GU n.95 del 24-4-2014 è stato pubblicato il decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, recante"Misure urgenti per la competitivita' e la giustizia sociale. (14G00079)", contenente disposizioni per il rilancio dell'economia attraverso la riduzione del cuneo fiscale, il trattamento fiscale dei redditi di natura finanziaria e altre disposizioni fiscali, il contrasto all'evasione fiscale, i risparmi e l'efficienza della spesa pubblica ("l'amministrazione sobria"), i trasferimenti e i sussidi, le aziende municipalizzate, la razionalizzazione degli spazi della pubblica amministrazione, la digitalizzazione e il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione. 

DL_66-2014

http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2014/04/24/14G00079/sg

Norme Tecniche per gli attraversamenti ed i parallelismi di condotte e canali convoglianti liquidi e gas con ferrovie ed altre linee di trasporto

30 Apr 2014
30 Aprile 2014

Sulla GU Serie Generale n.97 del 28-4-2014 è stato pubblicato il Decreto 4 aprile 2014 del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, recante "Norme Tecniche per gli attraversamenti ed i parallelismi di condotte e canali convoglianti liquidi e gas con ferrovie ed altre linee di trasporto. (14A03304)".

Link: http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2014/04/28/14A03304/sg

L’anima misteriosa del cambio d’uso senza opere

29 Apr 2014
29 Aprile 2014

In un appartamento a destinazione residenziale può essere insediato un ufficio, invocando il cambio d'uso senza opere?

L’art. 76, comma 1, punto 2, della L.R. n. 61/1985 stabiliva che il mutamento d’uso senza opere fosse subordinato a una autorizzazione onerosa. La disposizione è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 73 del 1991, con la conseguenza che, per un certo tempo, gli interpreti hanno ritenuto che il mutamento di destinazione d’uso senza opere fosse libero. Si riteneva, infatti, che il diverso utilizzo di un immobile rispetto alla sua destinazione urbanistica  fosse semplicemente espressione del diritto di proprietà, privo di rilevanza urbanistica. L’articolo 10, comma 2, del Testo Unico dell’Edilizia stabilisce che: “Le regioni stabiliscono con legge quali  mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, del’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività. Dopo di questo, la Regione Veneto non ha più disciplinato la materia e progressivamente la giurisprudenza, in mancanza di interventi legislativi,  ha vanificato la sentenza della Corte Costituzionale sopra citata, trattando il cambio d'uso senza opere alla stessa stregua di quello con opere, con la conseguenza che non si riesce a capire se sussista oppure no una differenza tra le due figure.

La questione è stata riproposta davanti al TAR Campania di Salerno, che ha respinto il ricorso di un soggetto al quale era stato ordinato di ripristinare l'uso residenziale di un appartamento utilizzato invece come ufficio. L'interessato  ha proposto l'appello davanti al Consiglio di Stato, che gli ha dato ragione un po' per caso, ma con una motivazione dalla quale si evince che il cambio d'uso senza opere non è affatto libero, ma che bisogna tenere conto del famigerato carico urbanistico.

Cosa dice il Consiglio di Stato nella sentenza n.  2021 del 2014: "1.1. Il principio tempus regit actum impone di verificare se all'epoca in cui avvenne, la dichiarata variazione d'uso dell'immobile di proprietà dell'appellante, senza alcuna opera materiale, potesse concretare un’ipotesi di variazione essenziale al progetto approvato ai sensi dell’allora vigente articolo 8 (Determinazione delle variazioni essenziali), lettera a), della legge 28 febbraio 1985, n. 47, per aver comportato una variazione agli standard e al carico urbanistico, ai sensi del richiamato articolo 3 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444 e se, effettivamente, vi fosse stato mutamento di destinazione tra categorie diverse e cioè da residenziale a terziario. Orbene, posto che il cambio di destinazione è avvenuto nel 1997 e non è stato accompagnato da opere di trasformazioni dell'immobile o di parte di esso, ma è stato di ordine meramente funzionale (su questo non vi è controdeduzione della appellata amministrazione comunale), esso non è, diversamente da quanto sostenuto dal Comune, avvenuto tra categorie diverse. Invero, secondo il Piano regolatore generale vigente nel 1997, l'uso "abitazione" e l’uso "studio professionale" non appartenevano a distinte categorie edilizie.  Dalla documentazione esistente agli atti, solo a seguito del sopraggiunto strumento urbanistico comunale pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione Campania, n. 4 del 28 gennaio 2008, l'uso come studio professionale è transitato dalla categoria residenziale a quella distinta di terziario, come del resto precisato dall'art. 2 delle Norme tecniche di attuazione del citato strumento urbanistico. Nel 1997, l'uso professionale dell'appartamento in questione era, quindi, confome alla destinazione urbanistica prevista dal PRG comunale vigente, essendo l'immobile ubicato nella ZTO B "Residenziale".

1.2. La modifica di destinazione d'uso in questione non configura alcuna delle "variazioni essenziali" di cui all'articolo 8 della legge n. 47
del 1985, poiché non realizza alcuna variazione degli standard. Non vi è stata, infatti, alcuna opera edilizia o modifica strutturale 
dell'appartamento, circostanza quest'ultima che appare dirimente per stabilire se sussista la variazione essenziale prevista dal citato articolo 8, con la conseguente necessità della concessione edilizia. In sostanza, la differente utilizzazione, di tipo esclusivamente
funzionale, non ha determinato violazioni delle prescrizioni dello strumento urbanistico vigente nel 1997, non avendo dato luogo ad una trasformazione urbanistica, non avendo implicato alcun apprezzabile aggravio di carico urbanistico e non dando così luogo ad alcun fabbisogno di standard urbanistico posto che non si è verificato un cambio di categoria edilizia. Conseguentemente, l'irrogazione della sanzione di cui all'articolo 31 del D.P.R. n. 380 del 2001 non poteva essere adottata".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza CDS 2021 del 2014

Per rinnovare col piano casa il patrimonio edilizio esistente devo per forza ampliare?

29 Apr 2014
29 Aprile 2014

Vi sottopongo il seguente quesito, che scaturisce da un caso pratico.

Un soggetto chiede di realizzare una demolizione e ricostruzione di un vecchio edificio legittimamente esistente al 31 ottobre 2013in zona territoriale propria, adeguatamente dimostrando che l’intervento è volto al rinnovamento del patrimonio edilizio esistente per il “il perseguimento degli attuali standard qualitativi, architettonici, energetici , tecnologici e di sicurezza”. In particolare la ricostruzione porterà, tra l’altro, l’edificio alla classe energetica “A”.

Il tecnico presenta al Comune il progetto ai sensi dell’art. 3 della L.R. 14/2009 e s.m.i., in modo da potere usufruire della “deroga”, prevista dal comma 2, alle previsioni del regolamento comunale sulla distanza dai confini.

Il Comune risponde che, per poter accedere al regime derogatorio del comma 2, occorre che il progetto presenti, in aggiunta alle migliorie architettoniche e impiantistiche e agli interventi per il contenimento  energetico, anche un incremento del volume (trattandosi di edificio residenziale) ai sensi della lettera a) oppure ai sensi della lettera b) del comma 2 medesimo, i quali prevedono, rispettivamente, un incremento volumetrico fino al 70%  nel caso di ricostruzione dell’edificio in classe energetica “A” e un incremento graduato fino al’80% se l’edificio viene ricostruito con le tecniche di edilizia sostenibile ex L.R. n. 4 del 9 marzo 2007.

A mio modesto parere la tesi sostenuta dal Comune non sarebbe corretta. Ritengo che sussisterebbero almeno due argomenti che porterebbero a concludere che l’aumento volumetrico non fosse obbligatorio, purché ovviamente sussistano i requisiti precitati, vale a dire che l’edificio sia legittimamente esistente al 31 ottobre 2013, che si trovi in zona territoriale omogenea propria e che venga ricondotto ai vigenti standard qualitativi sotto i profili architettonico, energetico, tecnologico e di sicurezza.

Un primo argomento è di tipo letterale: l’art. 3, comma 3, della L.R. 14/2009 afferma che: “La demolizione e ricostruzione (…) può prevedere incrementi del volume e della superficie (…)”; l’uso dell’espressione “può” indica che si tratti di una facoltà e non di un obbligo.

Un secondo argomento è di tipo logico-sistematico: il comma 1 dell’art. 3 cit., in linea con le finalità generali della legge dichiarate all’art. 1,  afferma che: “La Regione promuove la sostituzione e il rinnovamento del patrimonio edilizio esistente”; lo scopo della normativa è quello di rinnovare e riqualificare l’esistente e il bonus volumetrico costituisce uno strumento di incentivazione per indirizzare il privato a realizzare interventi con questa finalità. Non si comprende per quale motivo il privato non potrebbe rinunciare a questo bonus, considerando oltretutto che tale rinuncia garantirebbe una sostituzione edilizia per così dire “pura” senza aumento del carico urbanistico.

Poiché comunque la legge veneta sul piano casa è una legge di carattere eccezionale, le cui norme, soprattutto dopo le ultime modifiche, non hanno ancora ricevuto da parte della giurisprudenza una interpretazione consolidata, rimetto ai lettori il quesito con cui si è aperta questa breve riflessione.

 Avv. Marta Bassanese

 

Costruzione di un immobile a confine di una corte comune con finestre, poggioli e balconi prospicienti nonché con sporti aggettanti sulla stessa

29 Apr 2014
29 Aprile 2014

Una signora, proprietaria di un fondo e comproprietaria di altro recante il numero 271 (adibito a corte comune ed in comproprietà con il vicino), entrambi in un  comune del Cadore, conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Belluno il suddetto vicino, proprietario di un fondo vicino al suo, mappale n. 384, per sentirlo condannare, tra le altre richieste, all’eliminazione  di varie opere, tra cui balconi, altre vedute e sporti, aggettanti sul predetto fondo comune (mappale n. 271).

Il convenuto resisteva alla domanda attorea. Il Tribunale di Belluno - Sezione Stralcio - con sentenza n. 224 del 18.12.2000 depositata in cancelleria il 12.03.2001 accoglieva le domande dell’attrice, condannando il vicino alle conseguenti demolizioni.

In sostanza il Tribunale di Belluno si pronunciava circa la possibilità o meno del convenuto di costruire un immobile a confine con una corte comune con l’attrice  e, conseguentemente, di costruire ed aprire sulla parete prospiciente la suddetta corte comune dei balconi e delle finestre.

Conseguentemente condannava il convenuto a eliminare a propria cura e spese, entro un anno dal passaggio in giudicato della suddetta sentenza, le vedute, i balconi e gli sporti prospicienti la corte comune e dichiarava improponibile la domanda di demolizione del fabbricato eretto dal convenuto con sconfinamento sul mappale n. 271.

Il soccombente proponeva impugnazione della suddetta sentenza del Tribunale di Belluno.

Sull’impugnazione la Corte di Appello di Venezia, con sentenza n. 594 del 16.11.2004 depositata in cancellaria il 12.04.2005, pronunciata nei confronti degli eredi dell’attrice nel frattempo defunta, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Belluno limitava la condanna dellìappellante all’eliminazione dei soli balconi e vedute, ritenendo che la circostanza per cui il mappale n. 271 fosse comune alle parti (e a un terzo non costituitosi in giudizio) non fosse sufficiente ad attribuire al predetto immobile una destinazione al servizio dell’utilità dei fondi di rispettiva  proprietà esclusiva delle parti, in quanto la creazione di una servitù in danno della proprietà comune non poteva essere giustificata dalla facoltà di una utilizzazione comune della cosa ai sensi dell’art. 1102 c.c.

Per cui la Corte d’Appello evidenziava che la creazione di una servitù in danno della proprietà comune non poteva certamente trovare legittimazione attraverso il ricorso alla facoltà di utilizzo della cosa comune ai sensi dell’art. 1102 c.c..

Sul punto veniva rilevato che i terrazzini dell’edificio del soccombente, aggettanti per appena m. 1,10 ed alti da terra ben oltre tre metri e, a maggior ragione lo sporto del tetto, non contrastando concrete possibilità di utilizzazione da parte dell’attrice  dello spazio aereo sovrastante il fondo vicino, ricadevano nel dettato dell’art. 840, 2° comma c.c., secondo il quale “il proprietario del suolo non può opporsi ad attività di terzi che si svolgano a tale profondità nel sottosuolo o a tale altezza nello spazio sovrastante che egli non abbia interesse ad escluderle” e si evidenziava che gli sporti del tetto, in quanto parte terminale della copertura, inglobante la canalizzazione di gronda, con funzione meramente di rifinitura e priva di incidenza volumetrica erano estranei alla nozione di costruzione”.

La Corte, però, rilevava, sul punto, che il primo dei suddetti motivi d’appello, con esclusione degli sporti del tetto, non poteva essere condiviso. La Corte, infatti, ha ritenuto che l’interesse considerato dall’art. 840, 2° comma c.c. non si esaurisce nella possibilità del proprietario del suolo sovrastante di edificare a propria volta, bensì coinvolge un’ampia gamma di usufruibilità del suolo con la quale, a giudizio della Corte, confliggevano l’invasione dello spazio aereo sovrastante la costruzione a distanza inferiore da quella legale di aggetti calpestabili dal proprietario confinante.

Per contro gli sporti del tetto, in quanto elementi di rifinitura del tetto e, nel caso di specie, di dimensioni modeste, si sottraevano alla disciplina relativa alla distanza tra edifici e, rispetto solo ad essi, andava parzialmente riformata la sentenza impugnata.

La Corte d’Appello, quindi, ha ritenuto che l’invasione dello spazio aereo soprastante il mappale n. 271 neppure potesse essere legittimata dall’altezza (oltre tre metri) alla quale erano stati eretti i balconi, in quanto, come sopra riferito, l’art. 840, 2° comma c.c. non si esaurisce nella possibilità del proprietario del suolo sovrastato di edificare a propria volta, ma coinvolge una più vasta gamma di fruibilità del suolo. La Corte d’Appello, rigettava quindi, da ultimo, solo la domanda dell’attrice relativa agli sporti del tetto, per le motivazioni sopra riportate.

Per la cassazione della sentenza della Corte di Appello, ricorreva il soccombente e resistevano con controricorso gli intimati, i quali proponevano altresì ricorso incidentale alla Suprema Corte di Cassazione, in merito solo alla compensazione delle spese di giudizio.

La Corte di Cassazione – Sezione 2^ Civile - con sentenza n.17207 del 14.04.2011 depositata in cancelleria l’11.08.2011 preliminarmente riuniva, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., i due ricorsi in quanto proposti avverso la medesima sentenza.

Nel suddetto giudizio avanti la Suprema corte il soccombente con il primo motivo del ricorso principale deduceva la violazione dell’art. 167, 1° comma c.p.c., applicabile al giudizio di appello in base all’art. 347, 1 comma c.p.c., nella parte in cui si stabilisce a carico del convenuto l’onere di contestare in maniera specifica i fatti posti a base della “domanda” dell’appellante.

La parte ricorrente sosteneva, infatti, di aver fatto valere le proprie ragioni, nel corso di entrambi i precedenti gradi di giudizio, sostenendo che il mappale n. 271 era posto al servizio delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei contendenti, quale cortile condominiale, e che la realizzazione  di aggetti su di esso era da ascriversi, non alla problematica di presunte violazioni della normativa sulle distanze, ma alle modalità di utilizzo delle cose comuni, ai sensi dell’art. 1102  del c.c..

Ciò posto, la parte ricorrente, asseriva che quanto affermato dalla Corte di Appello in merito alla mancata prova della destinazione del mappale n. 271 al servizio di ognuna delle unità immobiliari in proprietà esclusiva, non corrispondeva alla realtà processuale emersa, poiché a fronte dei rilievi sulla destinazione del predetto mappale, mai la controparte aveva negato quanto affermato dal ricorrente, per cui la conclusione negativa a cui era pervenuta la Corte di Appello non trovava fondamento in alcuna contestazione o eccezione della parte convenuta. Con la conseguenza che la mancata contestazione da parte dell’appellato, eredi della originaria attrice, in ordine alla comunanza del mappale n. 271, aveva reso non controversa la circostanza.

La Cassazione evidenziava che il suddetto motivo era infondato, perché la critica che lo sosteneva non coglieva affatto il senso della decisione impugnata. La Suprema Corte, infatti rilevava che la Corte di Appello non ha ritenuto che non era stata raggiunta la prova che il mappale n. 271 era comune, ma ha affermato, al contrario, che la circostanza che esso era in comproprietà tra le parti (ed un terzo non in causa) non era sufficiente ad attribuirvi una destinazione di servizio all’utilità dei fondi in proprietà esclusiva delle parti (aggiungendo, semmai, che non era provato che il Fontana avesse costruito a ridosso dello stesso mappale); e da ciò ha tratto la conseguenza che la creazione di una servitù in danno della proprietà comune non era giustificata dal diritto di usarne ai sensi dell’art. 1102 c.c..

Tale affermazione, secondo la Cassazione è stata ritenuta del tutto condivisibile, in quanto in linea con l’indirizzo espresso dalla stessa, secondo cui la costruzione di balconi e pensili sul cortile comune, è consentita al singolo condomino, purchè, ai sensi dell’art. 1102 c.c., non risulti alterata la destinazione del bene comune e non sia impedito agli altri partecipanti di farne parimenti uso, secondo il loro diritto (Cass. N. 12569/02; analogamente , v. Cassazione n. 3098/05).

Infatti, per la Cassazione non basta che l’aggetto sia a carico di un’area comune perché possa sillogisticamente trarsi la conclusione che la relativa realizzazione costituisca legittima modalità d’esercizio del diritto di usare del bene, ma occorre l’ulteriore verifica del concorso delle condizioni di cui alla citata norma, e segnatamente della conformità dell’uso stesso alla destinazione del bene. Né tanto meno basta affermare, come si legge nel motivo, che non sia stato contestato che l’area in questione sia “al servizio” dei fondi di proprietà esclusiva, atteso che tale espressione appare generica, e, attribuendovi significato tecnico-giuridico, essa rimanda, semmai all’esistenza di una servitù a carico della cosa comune, fatto che non era mai stato posto a base delle difese della parte ricorrente, intese ad affermare, al contrario, l’applicabilità dell’art. 1102 c.c..

La Cassazione evidenziava che, inoltre, la non contestazione poteva avere ad oggetto unicamente i fatti (come stabilisce l’art. 167 , comma 1, c.p.c., richiamato dal ricorrente), non anche la loro valenza giuridica e il loro significato esaustivo in rapporto alla fattispecie ipotetica invocata. Da ultimo, la stessa natura negatoria della domanda è stata ritenuta dalla Cassazione di per se chiara e univoca contestazione della compatibilità delle opere con il godimento della cosa comune. Compatibilità in ordine alla quale il motivo d’impugnazione non conteneva critiche specifiche alla decisione della Corte di Appello, limitandosi a dare per scontato che i balconi realizzati, per altezza rispetto al suolo e profondità di aggetto, erano tali da non impedire il pari uso dell’area da parte degli altri comproprietari.

Con il secondo motivo il ricorrente denunciava la violazione dell’art. 840, comma 2, del c.c., nella parte in cui prevede che il proprietario del suolo non può opporsi alle attività dei terzi che si svolgono ad altezza tale nello spazio sovrastante che non vi sia interesse ad escluderle, nonché degli artt. 167 e 347 c.p.c. per mancata contestazione sull’assenza di interesse ai sensi dell’art. 840, comma 2, del c.c. e l’insussistenza e l’irragionevolezza della motivazione.

In sostanza il ricorrente ha sostenuto che la sentenza impugnata sarebbe stata in contrasto con la giurisprudenza di legittimità, da cui si ricavava il principio, opposto a quello applicato dalla Corte veneta, della mancanza d’interesse del proprietario del fondo allo svolgimento di attività altrui nello spazio sovrastante, quando non era ipotizzabile alcuna concreta possibilità di edificazione sul fondo sottostante.

Nel caso di cui è causa la parte attrice non aveva mai affermato e provato l’esistenza di un concreto interesse ad opporsi agli aggetti e alle vedute del ricorrente, di guisa che, sempre in applicazione del principio di non contestazione, la parte attrice aveva ammesso di non avere alcun concreto interesse ad opporsi alle opere eseguite da Adriano Fontana.

La Cassazione rilevava, sul punto sopra evidenziato, che la censura non aveva pregio.

Infatti, premesse le considerazioni sopra svolte sull’oggetto del principio di non contestazione (che riguarda i fatti costitutivi della domanda, non le argomentazioni  difensive che il convenuto vi oppone), la Cassazione rilevava che nel caso di specie andava osservato che la costante giurisprudenza  della stessa è nel senso che la sussistenza  dell’interesse del proprietario del suolo ad escludere l’attività di terzi, che si svolga nello spazio sovrastante, andava valutata con riferimento non soltanto all’attuale situazione  e destinazione del suolo, ma anche alle sue possibili, future utilizzazioni, sia pure in concreto non individuate, purché compatibili con le caratteristiche e la normale destinazione del suolo medesimo, a nulla rilevando che questo sia attualmente soggetto a servitù incompatibili con l’utilizzazione edificatoria dello spazio ad esso sovrastante da parte del proprietario. Tali limitazioni, infatti, potendo venire meno nel tempo, non escludevano che alla futura utilizzazione del suolo poteva derivare pregiudizio dalla tolleranza di violazioni corrispondenti all’illegittimo esercizio di nuove servitù, le quali avrebbero potuto costituirsi per usucapione, incidendo, quindi, in via autonoma sulle possibili future utilizzazioni del fondo (Cassazione nn. 20129/04 ; 3603/82 ; 1048/81; 1329/69 e 2096/65).

La Cassazione rilevava che la Corte di merito aveva mostrato, sul punto, di aver correttamente interpretato la norma, ritenendo che l’interesse considerato dal secondo comma dell’art. 840 del c.c. non si esaurisce nella possibilità del proprietario del suolo sovrastato di edificare a propria volta, bensì coinvolge l’ampia gamma di usufruibilità del suolo; e di averne esattamente escluso l’applicazione nella fattispecie, in quanto connotata da aggetti di mt. 1,10 di profondità, posti ad un’altezza di qualche metro (“ben oltre tre metri”, secondo l’affermazione della parte appellante), e a distanza dal confine inferiore a quella legale.

Per mero scrupolo espositivo si evidenzia che, sull’unico motivo di ricorso incidentale con il quale si lamentava la compensazione delle spese di giudizio da parte degli eredi della originaria attrice, la Cassazione rilevava che lo stesso motivo era infondato in quanto emergeva chiaramente la reciproca soccombenza della parte (cfr. Cassazione n. 18496/09).

La suddetta soccombenza reciproca si rilevava, infatti, in sede di appello dal fatto che l’attrice aveva agito oltre che per l’eliminazione degli aggetti, anche per ottenere la demolizione dell’intero fabbricato eretto dal Fontana, nonché la rimozione del marciapiede, della pavimentazione in porfido, della cisterna di gasolio interrata nel fondo comune, e di vari sporti, domande queste che sono state respinte.

avv. Giamnartino Fontana

sent 224 2001 tribunale belluno

sent 594 2005 corte appello venezia

sent 17207 2011 corte suprema di cassazione

Autorizzazione commerciale e V.I.A.

29 Apr 2014
29 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 17 aprile 2014 n. 526, si occupa del rapporto intercorrente tra l’autorizzazione commerciale ex L. R. Veneto n. 50/2012 e la procedura di V.I.A. ex D. Lgs. n. 125/2006. In particolare il Collegio evidenzia che, dato il breve lasso di tempo previsto dalla L. R. Veneto n. 50/2012 per presentare le relative istanze, il privato deve mettere a conoscenza l’Amministrazione comunale che sta instaurando anche la procedura di V.I.A., pena il rigetto della richiesta edilizia qualora nei termini previsti ex lege per questo procedimento non si ottenga o non si abbia già ottenuto il giudizio di compatibilità ambientale favorevole, oppure l’esito negativo della procedura di verifica ovvero il provvedimento conclusivo di non necessità di sottoporre a V.I.A. il progetto.

Assodato che “la ricorrente a mente dell’art.28 comma 4 della legge regionale del Veneto n. 50/2012 ha presentato domanda di ampliamento del proprio esercizio commerciale;

che la ridetta disposizione prevede testualmente che le grandi strutture di vendita e i parchi commerciali autorizzati alla data di entrata in vigore della presente legge possono essere ampliati, con domanda da presentarsi entro il termine perentorio di 60 giorni dall'entrata in vigore della presente legge, in misura non superiore al 20% della superficie autorizzata e comunque entro il limite massimo di 2500 m², nel rispetto dello strumento urbanistico comunale vigente alla data di entrata in vigore della presente legge nonché della normativa in materia ambientale, edilizia e viabilistica di cui alla legge regionale numero 15 del 2004, a condizione che il soggetto richiedente si impegni a iniziare i lavori entro e non oltre il termine di 60 giorni dal rilascio dell'autorizzazione, decorsi inutilmente i quali l'autorizzazione si intende decaduta. L'autorizzazione è rilasciata dal SUAP con le modalità di cui al capo VI della legge regionale 13 agosto 2004, numero 15;

che è dunque chiaro l’intento di promuovere investimenti immediati a rafforzamento delle strutture esistenti sul presupposto che ciò non incontri particolari difficoltà di ordine urbanistico o ambientale, prevedendosi rigide condizioni quali la presentazione della domanda entro il 1 marzo 2013, l'impegno a iniziare i lavori entro 60 giorni dal rilascio dell'autorizzazione, il limite massimo di superficie, la conformità urbanistica dell'ampliamento e il rispetto delle regole ambientali, edilizie e viabilistiche tratte dalla legge regionale n.15/2004, affidandosi allo sportello unico comunale il potere di rilascio dell'autorizzazione all'ampliamento: come chiarito nell'elaborato informativo pubblicato in calce alla legge, si tratta di una facoltà dell'operatore che è legittimato a esercitare una tantum, previa presentazione di apposita domanda di autorizzazione allo sportello unico per le attività produttive del comune competente, trovando applicazione le disposizioni procedurali in materia di conferenza di servizi di cui al capo VI della legge regionale numero 15 del 2004”, il Collegio afferma che: in effetti l'articolo 28 più volte citato, laddove consente l'ampliamento nella misura prevista nel rispetto dello strumento urbanistico comunale vigente - vale a dire non devono essere richieste varianti-, sempre salva – nè potrebbe essere altrimenti, nel senso che la norma non potrebbe certo consentire degli ampliamenti confliggenti con le superiori normative in materia ambientale- l'obbligatorietà di procedere a tutte quelle attività volte ad acclarare la compatibilità ambientale dell'ampliamento, evidentemente vuol consentire detta operazione nei casi in cui il procedimento possa concludersi in tempi brevi, i cui lavori siano iniziati entro e non oltre il termine di 60 giorni;

che per rendere compatibili i termini della procedura commerciale e di quella ambientale la società richiedente avrebbe potuto chiedere il differimento della conferenza di servizi decisoria anche al fine di presentare la domanda di VIA, una volta che il decreto provinciale di assoggettamento non fosse stato impugnato, come ben si sarebbe potuto;

che ad avviso del Collegio non esiste una priorità logica di presentazione fra la domanda commerciale e quella ambientale, costituendone uno il presupposto dell'altra, essendo invece necessaria la congiunta sussistenza dei requisiti che entrambe possano rappresentare, sicché, se è comprensibile la richiesta della ricorrente di qualificare la conferenza di servizi decisoria come ulteriormente interlocutoria nelle more della definizione del procedimento di valutazione dell'impatto ambientale, è altrettanto comprensibile - e corretto- che l'amministrazione, in difetto di puntuale domanda di differimento o sospensione al fine di presentare la domanda di VIA, abbia acclarato che al momento della conferenza di servizi tale domanda non era stata proposta, con la conseguente inapplicabilità di quanto previsto dall'articolo 14 ter comma 4 della legge 241 del 1990, laddove prevede che nei casi in cui sia richiesta la VIA la conferenza di servizi si esprime dopo aver acquisito la valutazione medesima e il termine resta sospeso fino all'acquisizione della pronuncia sulla compatibilità ambientale, ovvero se la VIA non interviene nel termine previsto per l'adozione del relativo provvedimento l'amministrazione competente si esprime in sede di conferenza di servizi”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 526 del 2014

Seminario del 30 aprile

28 Apr 2014
28 Aprile 2014

Si informa che ci sono ancora posti disponibili per il seminario del 30 aprile sulle strade, le frane e le fasce di rispetto in urbanistica.

Locandina seminario 30 aprile su strade

Obbligo di astensione e votazione dello strumento urbanistico per parti separate

28 Apr 2014
28 Aprile 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del Consiglio di Stato n. 1816 del 2014, riguardante il comune veneto di Arcade.

Si legge nella sentenza: "Nei Comuni di piccole dimensioni, qual è senza dubbio il Comune di Arcade, è legittimo che la votazione dello strumento urbanistico generale sia svolta per parti separate, in modo tale da assicurare il rispetto dell'obbligo di astensione dei consiglieri volta a volta potenzialmente interessati, in via diretta o indiretta, alla disciplina urbanistica di ciascuna zona nella quale essi stessi o loro prossimi congiunti siano titolari di diritti reali. Tale modalità procedimentale non è esclusa né vietata da alcuna disposizione normativa, e non collide con l'esigenza di una finale votazione unitaria sullo strumento urbanistico, nella quale, essendo già intervenuta quella per "settori", atta ad assicurare il formale rispetto dell'obbligo di astensione, il consigliere in potenziale conflitto non è più in grado di influire sulle specifiche scelte di assetto territoriale rispetto alle quali sia in astratta posizione d'interferenza. D'altro canto, tale meccanismo è l'unico in grado di assicurare, ad un tempo, l'osservanza dell'obbligo di astensione e l'esercizio dei poteri di pianificazione urbanistica in capo all'organo comunale cui essi competono e, quindi, il rispetto del principio di democraticità rappresentativa, laddove, altrimenti, proprio le scelte espressive della pianificazione territoriale più significative e incisive sulla vita della comunità locale dovrebbero essere demandate ad un organo straordinario non elettivo ed estraneo alla comunità, quale il commissario ad acta". 

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza CDS 1816 del 2014

 

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