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L’AVCP chiarisce in quali casi la mancata indicazione degli oneri specifici non determina l’esclusione dalla gara

06 Ago 2013
6 Agosto 2013

L’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture (AVCP), nel parere di Precontenzioso n. 118 del 17 luglio 2013, si allinea alla recente sentenza del Consiglio di Stato n. 3706/2013 pubblicata nel post del 15 luglio 2013, ove si sottolinea che la mancata indicazione degli oneri per la sicurezza da rischio c.d. specifico o aziendale non determina ex se l’automatica esclusone dalla gara dell’offerente laddove tale carenza sia imputabile alla stazione appaltante.

In tale Parere l’AVCP richiama innanzitutto la normativa concernente gli affidamenti di lavori sotto soglia di rilevanza comunitaria (artt. 86, c. 3 bis e 87, c. 4, D. Lgs. 163/2006) per ribadire che - in linea di principio - la mancata indicazione degli oneri specifici determina l’esclusione dalla gara: “questa Autorità non ravvisa argomenti giuridici per discostarsi dall’orientamento espresso dal Consiglio di Stato (Sez. III, 20 dicembre 2011 n. 6677), secondo cui le Imprese partecipanti ad una gara d’appalto devono includere nella loro offerta sia gli oneri di sicurezza per interferenze sia quelle relativi al rischio specifico (o aziendale). In ordine agli effetti derivanti dall’omessa indicazione dei costi di sicurezza nell’offerta, la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che tale omissione determini l’esclusione dalla gara d’appalto per incompletezza dell’offerta. La tesi trova consensi non solo tra i giudici di prime cure (T.A.R. Palermo, Sez. I, n. 124 del 17 gennaio 2013), ma anche da parte dello stesso Consiglio di Stato, secondo il quale il combinato disposto delle norme appena indicate impone ai concorrenti di segnalare gli oneri economici che intendono sopportare per l’adempimento degli obblighi di sicurezza sul lavoro (cd. Costi di sicurezza aziendale) - distinti dagli oneri, non soggetti a ribasso, finalizzati all’eliminazione dei rischi da interferenze - al fine di porre la stazione appaltante nella condizione di verificare il rispetto di norme inderogabili a tutela di fondamentali interessi dei lavoratori, e di consentire alla stessa la valutazione della congruità dell’importo destinato ai costi per la sicurezza (Cons. Stato, Sez. III, 28 agosto 2012, n. 4622; 19 gennaio 2012, n. 212; 3 ottobre 2011, n. 5421, sez. V, 29 febbraio 2012, n. 1172; 23 luglio 2010, n. 4849; nello stesso senso T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 17 ottobre 2012 n. 8522; Sez. I ter, 11 ottobre 2011 n. 7871). La mancata indicazione preventiva dei costi per la sicurezza rende l’offerta incompleta sotto un profilo particolarmente pregnante, alla luce della natura particolarmente sensibile degli interessi protetti, impedendo alla p.a. un adeguato controllo sulla affidabilità della stessa: in altri termini, l’offerta economica manca di un elemento essenziale e costitutivo, con conseguente applicazione della sanzione dell’esclusione dalla gara anche in assenza di una specifica previsione in seno alla lex specialis, attesa la natura immediatamente precettiva della disciplina contenuta nelle norme citate ad eterointegrare le regole procedurali ( su tale specifico punto: Cons. Stato n. 4622/2012; n. 4849/2010 citate; T.A.R. Lazio, Roma, n. 7871/2011 cit.). ”.

Nel prosieguo del Parere, però, l’AVCP si sofferma sulla circostanza dirimente rappresentata dall’assenza (nei documenti di gara) di ogni indicazione a riguardo, giungendo ad affermare che: “l’Autorità ha già avuto occasione, recentemente, di affrontare, in sede precontenziosa, una questione del tutto analoga alla presente (Cfr. Avcp, Parere n. 54 del 23.04.2013) ritendendo di condividere l’orientamento espresso dalla giurisprudenza amministrativa che, nel caso di una stazione appaltante che aveva allegato al bando un modello di offerta economica che non prevedeva l’indicazione degli oneri della sicurezza non soggetti a ribasso, prendeva atto della capacità dello stesso di indurre in errore coloro che se ne fossero avvalsi (Cons. Stato, Sez. V, 6 agosto 2012, n. 45150). Si è infatti affermato, in casi simili, che l’esigenza di apprestare tutela all’affidamento inibisce alla stazione appaltante di escludere dalla gara un’impresa che abbia compilato l’offerta in conformità al facsimile all’uopo da essa predisposto (Cons. Stato, Sez. V, 5 luglio 2011, n. 4029); inoltre la circostanza che un concorrente abbia puntualmente seguito le indicazioni fornite dalla stazione appaltante non può ridondare a danno del medesimo, ancorché la detta modulistica non risulti esattamente conforme alla prescrizioni di legge, dovendo in tal caso prevalere il favor partecipationis (TAR Piemonte, Sez. I, 9 gennaio 2012 n. 5 e 4 aprile 2012 n. 458; Cons. Stato, Sez. V, 6 agosto 2012, n. 4510; Pareri precontenzioso n. 30 dell’8 marzo 2012 e n. 139 del 20 luglio 2011; Determinazione Avcp n. 4 del 10 ottobre 2012). Deve quindi conclusivamente ritenersi, in applicazione delle coordinate ermeneutiche sopra ricordate e in considerazione delle circostanze di fatto riconducibili alla erroneità dei moduli predisposti dalla S.A., che le offerte prive dell’indicazione degli oneri per la sicurezza da rischio specifico non vadano escluse dalla procedura di gara”.

dott. Matteo Acquasaliente

AVCP parere prec 54 del 2013

AVCP_parere_118-2013_mancata_indicazione_oneri_sicurezza_da_rischio_specifico

Indennizzo una tantum avente carattere assistenziale previsto dalla legge 25 febbraio 1992, n. 210: la giurisdizione spetta al giudice amministrativo

06 Ago 2013
6 Agosto 2013

La legge  25 febbraio 1992, n. 210 disciplina  l'indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile, a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati.

La sentenza del TAR Veneto n. 966 del 2013 si occupa di un caso nel quale il ricorrente  ha chiesto ed ottenuto l’indennizzo una tantum avente carattere assistenziale previsto dalla legge 25 febbraio 1992, n. 210.

Al fine di ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti ha promosso una causa civile, tutt’ora pendente. Il ricorrente espone altresì di aver presentato il 19 luglio 2012 un’istanza finalizzata alla stipula di transazioni con i soggetti che hanno promosso azioni civili di risarcimento anteriormente al 1 gennaio 2008, previste dall’art. 33 della legge 29 novembre 2007, e dall’art. 2, commi 361 e 362 della legge 24 dicembre 2007, n. 244, in favore dei soggetti -OMISSISIl Ministero non ha dato alcun riscontro all’istanza. Con il ricorso in epigrafe il ricorrente chiede l’accertamento
dell’illegittimità dell’inerzia dell’amministrazione, la condanna alla stipula della transazione, che viene qualificata come esercizio di attività vincolata, la nomina di un commissario ad acta e la condanna al risarcimento dei danni subiti a causa del ritardo nella definizione del procedimento. Si è costituita in giudizio l’Amministrazione eccependo il difetto di giurisdizione.

Scrive il TAR: "Il Collegio, contrariamente a quanto eccepisce l’Amministrazione, ritiene che il ricorso non abbia ad oggetto solamente la  soddisfazione di una pretesa di natura meramente privatistica tale da escludere l’applicabilità della legge 7 agosto 1990 n. 241, e tale da escludere quindi la giurisdizione del giudice amministrativo. Infatti, come è già stato precisato in giurisprudenza (cfr. Tar Puglia, Lecce, Sez. I, 24 febbraio 2011, n. 380; Consiglio di Stato, Sez. III, 24 novembre 2011, n. 6244; Tar Lazio, Roma, Sez. III quater, 17 febbraio 2012, n. 1682), la normativa legislativa e regolamentare che disciplina la fattispecie, ha una struttura non compatibile con una ricostruzione in termini di pura attività privatistica, atteso che è intervenuto un decreto attuativo ministeriale che regolamenta il potere di transazione, facendo risaltare profili attratti alla sfera pubblicistica, esistono dei criteri di  priorità nella stipulazione delle transazioni fondata su elementi obiettivi e, a parità di gravità dell’infermità, la preferenza è accordata ai soggetti in condizioni di disagio economico accertate mediante l’utilizzo dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), previsione quest’ultima non compatibile con una ricostruzione della fattispecie in termini privatistici di  estrinsecazione del principio di libertà contrattuale. Una tale procedimentalizzazione del potere (ulteriormente confermata dal decreto ministeriale 28 aprile 2009 n. 132 del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, e dal decreto ministeriale 4 maggio 2012, che hanno determinato le modalità attuative per la stipulazione degli atti di transazione con l’individuazione dei presupposti per la stipulazione e dei criteri di valutazione delle diverse fattispecie, la previsione di termini per la presentazione delle domande, della modulistica e della documentazione da allegarsi, ed un’articolata disciplina del procedimento amministrativo, degli importi e di ogni altra condizione e modalità riguardante i moduli transattivi per ciascuna classe di danneggiati) comporta l’applicabilità dei principi propri dell’attività pubblicistica e delle previsioni in materia di termine del
procedimento e silenzio previste dalla legge 7 agosto 1990, n. 241 e dal codice del processo amministrativo. Il termine del procedimento, in mancanza di un’espressa previsione, va individuato in quello residuale e sussidiario previsto dall’art. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241, decorrenti dalla presentazione dell’istanza del 3 dicembre 2012, e ormai è ampiamente scaduto. Tutto ciò implica che debba trovare accoglimento la pretesa dei
ricorrenti volta ad ottenere un provvedimento espresso che concluda la fase procedimentale, di carattere pubblicistico, che, come avviene in
tutte le procedure ad evidenza pubblica, precede la stipula della transazione, che è l’esito dovuto che consegue all’accertamento dei requisiti normativamente predeterminati, assegnando a tal fine un termine di centottanta giorni dalla comunicazione o dalla notificazione della presente sentenza (l’ampiezza del termine si giustifica in ragione dell’alto numero di domande presentate, stimate dall’amministrazione in circa settemila), con l’avvertimento che l’inutile decorso del termine potrà comportare, su istanza di parte, ai sensi dell’art. 117, comma 3, cod proc. amm., la nomina di un commissario ad acta".

sentenza TAR Veneto 966 del 2013

Disposizioni urgenti sulla prestazione energetica nell’edilizia: testo coordinato del d.l. 63/2013

06 Ago 2013
6 Agosto 2013

Pubblichiamo il testo del decreto-legge 4 giugno 2013, n. 63 (in Gazzetta Ufficiale - serie generale - n. 130 del 5 giugno 2013), coordinato con  la  legge di conversione 3 agosto  2013,  n.  90  (in  questa  stessa  Gazzetta Ufficiale alla pag.  3),  recante:  «  Disposizioni  urgenti  per  il recepimento della Direttiva 2010/31/UE del Parlamento europeo  e  del Consiglio  del  19  maggio   2010,   sulla   prestazione   energetica nell'edilizia per la definizione delle procedure d'infrazione avviate dalla Commissione europea, nonche' altre disposizioni in  materia  di coesione sociale.».

Decreto legge con conversione risparmio energetico

Il permesso di costruire in sanatoria può essere chiesto anche dal responsabile dell’abuso, possessore e non proprietario

05 Ago 2013
5 Agosto 2013

Della questione si occupa la sentenza del TAR Campania - Salerno n. 1565 del 2013.

Nel caso in esame il Comune aveva negato il rilascio della sanatoria per la mancanza del titolo di proprietà (il richiedente è è solo possessore dell'area de qua, della quale ritiene di avere maturato l'usucapione, anche se non è ancora stata pronunziata una sentenza che lo accerti).

Scrive il TAR: "la proposta domanda di annullamento è meritevole di accoglimento. Occorre evidenziare che il permesso di costruire in sanatoria (n. 10/2012) di cui il Comune intimato ha negato il ritiro da parte del richiedente sig. Salvatore Stabile, odierno ricorrente, in conseguenza della mancata esibizione da parte di quest'ultimo del titolo di proprietà sull'area interessata, ha ad oggetto la realizzazione di una porzione di recinzione (per il resto regolarmente assentita con permesso di costruire n. 32/2011) su terreno (p.lla 107 del foglio 4) di proprietà di terzo soggetto (la controinteressata sig. Quagliariello), dal quale è anche pervenuta al Comune formale opposizione. In virtù del predetto rilievo, il Comune ha altresì avvisato il ricorrente, mediante l'atto impugnato, dell'avvio del procedimento di revoca del predetto permesso di costruire n. 10/2012. Ebbene, è fondata, come anticipato nella fase cautelare (cfr. ordinanza n. 484/2012), la censura con la quale la parte ricorrente allega il carattere non necessario del titolo di proprietà sull'area interessata dai lavori. Ribadito infatti che si verte in tema di permesso di costruire in sanatoria, viene in rilievo, a suffragare la fondatezza delle deduzioni attoree, l'art. 36 d.P.R. n. 380/2001, ai sensi del quale "in caso di  interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, ovvero in assenza di denuncia di inizio attività nelle ipotesi di cui all'articolo 22, comma 3, o in difformità da essa (…), il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina  urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda". La posizione di responsabile dell'abuso, facente capo al ricorrente, costituisce quindi, ai sensi del chiaro disposto normativo, titolo sufficiente a legittimare la presentazione da parte sua del richiesto titolo edilizio in sanatoria".

sentenza TAR Campania - Salerno 1565 del 2013

Il Consiglio di Stato sul diritto all’istruzione e all’educazione della persona disabile; riparto di competenze tra gli enti locali

05 Ago 2013
5 Agosto 2013

Segnaliamo sul punto la sentenza del Consiglio di Stato n. 3954 del 2013.

Scrive il Consiglio di Stato: "Nel merito, occorre premettere che, come recentemente evidenziato da questa stessa Sezione (sentenza 3 ottobre 2012, n. 5194), in tema di diritti dei disabili la Corte Costituzionale ha più volte rilevato che l’esigenza di tutela dei soggetti deboli si realizza non solo con pratiche di cura e riabilitazione, ma anche attraverso il loro pieno ed effettivo inserimento, oltre che nella famiglia, anche nella scuola e nel mondo del lavoro e con la sentenza n. 26 febbraio 2010, n. 80 (con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, commi 413 e 414 della legge 24 dicembre 2007, n. 244, nella parte in cui rispettivamente è stato fissato un limite massimo al numero dei posti degli insegnanti di sostegno ed è stata esclusa la possibilità di assumere insegnante di sostegno in deroga al rapporto tra studenti e docenti stabilito dalla normativa statale, pur in presenza di situazioni di disabilità particolarmente gravi), ha evidenziato, fra l’altro, che i disabili non costituiscono un gruppo omogeneo, sussistendo forme diverse di disabilità, alcune di carattere lieve ed altre gravi, e che “per ognuna di esse è necessario, pertanto individuare meccanismi di rimozione degli ostacoli che tengano conto della tipologia di handicap da cui risulti essere affetta in concreto la  persona”.
E’ stato precisato che “ciascun disabile è coinvolto in un processo di riabilitazione finalizzato ad un suo completo inserimento nella società; processo all’interno del quale l’istruzione e l’integrazione scolastica rivestono un ruolo particolare”, ricordando che il diritto all’istruzione dei disabili è oggetto di specifica tutela anche a livello internazionale (Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006, entrata in vigore sul piano internazionale il 3 maggio 2008, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 3 marzo 2009, n. 18) e che nell’ordinamento interno, in attuazione della disposizione contenuta nel terzo comma dell’art. 38 della Costituzione, il diritto all’istruzione dei disabili e la loro integrazione scolastica sono stati disciplinati dalla legge 5  febbraio 1992, n. 104 (“Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”), finalizzata a “perseguire un evidente interesse nazionale, stringente ed infrazionabile, quale è quello di garantire in tutto il territorio nazionale un livello uniforme di realizzazione di diritti costituzionali fondamentali dei soggetti portatori di handicaps” (Corte Costituzionale 29 ottobre 1992, n. 406).
4.- Sul piano normativo l’art. 12 della citata legge n. 104 del 1992 garantisce il diritto all’educazione e all’istruzione della persona handicappata nelle sezioni di scuola materna, nelle classi comuni delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado e nelle istituzioni universitarie (comma 2), stabilendo che l’integrazione scolastica ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione (comma 3) e che l’esercizio del diritto all’educazione e all’istruzione non può essere impedito da difficoltà di apprendimento, né da altre difficoltà derivanti dalle disabilità connesse all’handicap (comma 4); il successivo quarto comma contempla poi, dal punto di vista operativo, il profilo dinamico – funzionale (che fa seguito all’individuazione dell’alunno come persona handicappata ed all’acquisizione della documentazione risultante dalla diagnosi funzionale) indispensabile per la formulazione di un piano educativo individualizzato, definito congiuntamente, con la collaborazione dei genitori della persona handicappata, dagli operatori delle unità sanitarie locali e, per ciascun grado di scuola, dal personale insegnante specializzato, con la partecipazione dell’insegnante operatore psico – pedagogico (individuato secondo i criteri del Ministero della pubblica istruzione); il profilo dinamico – funzionale indica le caratteristiche fisiche, psichiche ed affettive dell’alunno, pone in rilievo sia le difficoltà di apprendimento conseguenti all’handicap e le possibilità di recupero, sia le capacità possedute, da sostenere, sollecitate, rafforzate e sviluppate secondo le scelte culturali della persona handicappate (comma 5): esso è soggetto a verifiche per controllare gli effetti dei diversi interventi e l’influenza esercitata dall’ambiente scolastico (comma 6) ed è aggiornato a conclusione di ogni ciclo scolastico (scuola materna, scuola elementare e scuola media) e durante il corso dell’istruzione secondaria superiore (comma 8). Il successivo articolo 13, rubricato “Integrazione scolastica”, afferma, al comma 1, che l’integrazione scolastica della persona handicappata nelle sezioni e nelle classi comuni di ogni ordine e grado (e nell’università) si realizza, per quanto qui interessa, anche attraverso: a) la programmazione coordinata dei servizi scolastici con quelli sanitari, socio – assistenziali, culturali, ricreativi, sportivi e con altre attività sul territorio gestite da enti o privati, evidenziando che a tale scopo gli enti locali, gli organi scolastici e le unità sanitarie locali, nell’ambito delle rispettive competenze, stipulano appositi accordi di programma, finalizzati alla predisposizione, attuazione e verifica congiunta di progetti educativi, riabilitativi e di socializzazione, nonché a forme di integrazione tra attività scolastiche e attività integrative extrascolastiche;
b) la dotazione alle scuole (e alle università) di attrezzature tecniche e di sussidi didattici nonché di ogni altra forma di ausilio tecnico, fermo restando la dotazione individuale di ausili e presidi funzionali all’effettivo esercizio del diritto allo studio, anche mediante convenzioni con centri specializzati, aventi funzione di consulenza pedagogica, di produzione e adattamento di specifico materiale didattico; c) la sperimentazione di cui al D.P.R. 31 maggio 1974, n. 419, da realizzare nelle classi frequentate da alunni con handicap. Il terzo comma dell’articolo in esame stabilisce che “Nelle scuole di ogni ordine e grado, fermo restando, ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, e successive modificazioni, l’obbligo per gli enti locali di fornire l’assistenza per l’autonomia e la comunicazione personale degli alunni con handicap fisici o sensoriali, sono garantite attività di sostegno mediante l’assegnazione di docenti specializzati”.
5.- Quanto al riparto di competenza della complessa materia de qua tra gli enti locali, può osservarsi che:
a) l’articolo 39 della legge n. 104 del 1992 stabilisce che le Regioni possono provvedere, nei limiti delle proprie disponibilità di bilancio, ad interventi sociali, educativo – formativi e riabilitativi nell’ambito del piano sanitario nazionale, e della programmazione regionale dei servizi sanitari, sociali e formativo – culturali (comma 1), tra cui la definizione, mediante accordi di programma di cui all’art. 27 della legge 8 giugno 1990, n. 142, delle modalità di coordinamento e di integrazione dei servizi e delle prestazioni individuali di cui alla legge stessa con gli altri servizi sociali, sanitari, educativi, anche d’intesa con gli organi periferici dell’Amministrazione della pubblica istruzione e con le strutture prescolastiche o scolastiche e di formazione professionale, anche per la messa a disposizione di attrezzature, operatori o specialisti necessari nell’attività di prevenzione, diagnosi e riabilitazione eventualmente svolta al loro interno (comma 2, lett. b); l’articolo 40, delineando i compiti dei Comuni, prevede che essi “…anche consorziati tra di loro, le loro unioni, le comunità montane e le unità sanitarie locali qualora le leggi regionali attribuiscano loro la competenza, attuano gli interventi sociali e sanitari previsti dalla presente legge nel quadro della normativa regionale, mediante gli accordi di programma di cui all’articolo 27 della legge 8 giugno 1990, n. 142, dando priorità agli interventi di riqualificazione, di riordinamento e di potenziamento dei servizi esistenti”;
b) il d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (“Attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382, Trasferimento di funzioni a regioni ed enti locali”) all’art. 42 (“Assistenza scolastica”) ha stabilito che “Le funzioni amministrative relative alla materia assistenza scolastica concernono tutte le strutture, i servizi e le attività destinate a facilitare mediante erogazioni e provvidenze in denaro o mediante servizi individuali o collettivi, a favore degli alunni di istituzioni scolastiche pubbliche o private, anche se adulti, l’assolvimento dell’obbligo scolastico nonché, per gli studenti capaci e meritevoli ancorché privi di mezzi, la prosecuzione degli studi”, aggiungendo che “le funzioni suddette concernono tra l’altro: gli interventi di assistenza medico – fisica;l’assistenza ai minorati psico – fisici; l’erogazione gratuita dei libri di testo agli alunni delle scuole elementari” e precisando al successivo art. 45 (“Attribuzione ai comuni”) che “le funzioni amministrative indicate nell’art. 42 sono attribuite ai comuni che le svolgono secondo le modalità previste dalla legge regionale” (comma 1);
c) in materia di istruzione scolastica, l’art. 139 del D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (“Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni e agli enti locali, in attuazione del capo I della l. 15 marzo 1997, n. 59”) ha attribuito alle Province, in relazione all’istruzione secondaria superiore, e ai Comuni, in relazione agli altri gradi inferiori di scuola, i compiti e le funzioni concernenti, fra l’altro “…c) i servizi di supporto organizzativo del servizio di istruzione per gli alunni con handicap o in situazione di svantaggio”;
d) la legge regionale della Lombardia 6 agosto 2007, n. 19 (“Norme sul sistema educativo di istruzione e formazione della Regione Lombardia”), all’art. 6, ha delineato il ruolo delle Province e dei Comuni, stabilendo espressamente al comma 1 che “spettano alle province, in materia di istruzione secondaria superiore, e ai comuni, in relazione agli altri gradi inferiori dell’istruzione scolastica: a) l’istituzione, l’aggregazione, la fusione e la soppressione di scuole, in attuazione degli strumenti di pianificazione; b) i servizi di supporto del servizio di istruzion e per gli alunni portatori di handicap o in situazione di svantaggio; c) il piano di utilizzazione degli edifici e di uso delle attrezzature, d’intesa con le istituzioni scolastiche; d) la sospensione delle lezioni in casi gravi e urgenti; e) la costituzione, i controlli e la vigilanza, ivi compreso lo scioglimento, degli organi scolastici a livello territoriale; f) l’educazione degli adulti; g) la risoluzione dei conflitti di competenza tra istituzioni scolastiche”. ,
6.- Completezza espositiva induce la Sezione ad evidenziare ancora che la giurisprudenza (TAR, Lombardia, sez. Brescia, 4 febbraio 2010, n. 581) ha osservato che, mentre all’insegnante di sostegno spetta una contitolarità nell’insegnamento, essendo egli un insegnante di tutta la classe chiamato a garantire un’adeguata integrazione scolastica (con la conseguenza che egli deve essere inquadrato a tutti gli effetti nei ruoli del personale insegnante), l’assistente educatore svolge un’attività di supporto materiale individualizzato, estranea all’attività didattica in senso stretto, finalizzata alla piena integrazione nei plessi scolastici di appartenenza e nelle classi, principalmente attraverso lo svolgimento di attività di assistenza diretta agli alunni affetti da minorazioni fisiche, psichiche e sensoriali in tutte le necessità ai fini di una loro piena partecipazione, precisandosi inoltre che le competenze comunali non attengono al generale bisogno educativo (rientrante nella sfera delle attribuzioni statali), ma riguardano gli interventi volti a facilitare il percorso formativo dei disabili (in termini analoghi anche T.A.R. Puglia, II, 655 del 2 aprile 2012).
7.- Sulla scorta del delineato quadro normativo e giurisprudenziale la Sezione, essendo preclusa ogni esame sulla questione di giurisdizione, atteso che il relativo capo della sentenza non è stato oggetto di impugnazione, è dell’avviso che le doglianze sollevate dalla Provincia di Milano non siano meritevoli di favorevole considerazione.
7.1. In punto di fatto non è contestata la situazione di grave disabilità da cui è affetto lo studente in questione. Ciò posto, non può dubitarsi del diritto di quest’ultimo all’istruzione ed all’integrazione scolastica, di cui l’assistente personale, quale misura scolastica integrativa e di supporto, nella misura oraria di trenta ore settimanale, costituisce strumento indispensabile, oltre che idoneo ed adeguato (carattere che, del resto non è stato neppure contestato dall’amministrazione appellante).
7.2.- Quanto all’individuazione dell’ente locale competente ad assicurare tale misura (che costituisce la fondamentale questione controversa) la Sezione è dell’avviso che essa appartenga proprio all’amministrazione provinciale, come correttamente ritenuto dai primi giudici. Infatti, diversamente da quanto sostenuto dall’appellante Provincia di Milano, la misura (assistente personale) di cui si discute non rientra né nell’ambito generale degli interventi e dei servizi sociali alla persona (volti a garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione, a prevenire, eliminare o a ridurre le condizioni di disabilità derivanti anche da condizioni di non autonomia e oggetto della generale disciplina di cui alla legge 8 novembre 2000, n. 328), affidati al comune (titolare delle funzioni amministrative concernenti gli interventi sociali svolti a livello, locale, ex art. 6 della ricordata legge n. 328 del 2000 e rispetto ai quali le funzioni ed i compiti delle province si risolvono nell’attività di coordinamento e nel concorso alla programmazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, secondo le modalità definite dalle regioni, né nelle altrettanto generali previsioni di cui alla legge 5 febbraio 1992, n. 104), costituendo piuttosto attuazione concreta della speciale materia dell’istruzione scolastica oggetto del trasferimento di funzioni dallo Stato agli enti locali di cui al D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (“Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni e agli enti locali, in attuazione del capo I della l. 15 marzo 1997, n. 59”). In particolare l’art. 139 di tale decreto legislativo, rubricato “Trasferimenti alle province ed ai comuni”, ha stabilito che “Salvo quanto disposto dall’articolo 137 del presente decreto legislativo, ai sensi dell’art. 128 della Costituzione sono attribuiti alle province, in relazione all’istruzione secondaria superiore, e ai comuni, in relazione agli altri gradi inferiori di scuola, i compiti e le funzioni concernenti: a) l’istituzione, l’aggregazione, la fusione e la soppressione di scuole in attuazione degli strumenti di programmazione; b) la redazione dei piani di organizzazione della rete delle istituzioni scolastiche; c) i servizi di supporto organizzativo del servizio di istruzione per gli alunni con handicap o in situazione di svantaggio; d) il piano di utilizzazione degli edifici e di uso delle attrezzature, d’intesa con le istituzioni scolastiche; e) la sospensione delle lezioni in casi gravi e urgenti; f) le iniziative e le attività di promozione relative all’ambito delle funzioni conferite; g) la costituzione, i controlli e la vigilanza, ivi compreso lo scioglimento, sugli organi collegiali scolastici a livello territoriale” (comma 1), precisando ancora che “I comuni, anche in collaborazione con le comunità montane e le province, ciascuno in relazione ai gradi di istruzione di propria competenza, esercitano, anche d’intesa con le istituzioni scolastiche, iniziative relative a: a) educazione degli adulti; b) interventi integrati di orientamento scolastico e professionale; c) azioni tese a realizzare le pari opportunità di istruzione; d) azioni di supporto tese a promuovere e sostenere la coerenza e la continuità in verticale e orizzontale tra i diversi gradi e ordini di scuola; e) interventi perequativi; f) interventi integrati di prevenzione della dispersione scolastica e di educazione della salute” (comma 2). Dal tenore letterale di tale disposizione emerge la ripartizione tra la Provincia, per quanto riguarda l’istruzione secondaria superiore, e i Comuni, per quanto concerne gli altri gradi inferiori di scuola, dei compiti e delle funzioni ivi indicate, precedentemente incardinati nell’amministrazione statale, in osservanza del principio di sussidiarietà predicato dal comma 2 dell’art. 1 della legge 15 marzo 1997, n. 59 (recante “Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la sua semplificazione amministrativa”). Peraltro deve osservarsi che se, per un verso, la specificità della materia cui ineriscono i predetti compiti e funzioni, nonché le peculiari e concrete misure che ne costituiscono la relativa attuazione, esclude in radice che gli stessi possano essere genericamente ricompresi nell’ambito dei servizi integrati sociali alla persona, trattandosi di particolari modalità di concreta attuazione del diritto allo studio ed all’integrazione scolastico, solennemente riconosciuto ai disabili in modo altrettanto pieno ed integrale rispetto ai soggetti, per altro verso non può negarsi l’esistenza in capo all’amministrazione provinciale di compiti e funzioni anche operativi e gestionali, pena un’inammissibile disapplicazione o peggio interpretazione “abrogans” del ricordato articolo 139 del D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (a nulla rilevando sul punto le mere argomentazioni difensive dell’amministrazione provinciale appellante volte a sottolineare la mancanza nella struttura burocratica di adeguate figure professionali idonee ad espletare le delicate funzioni di assistente personale). Non può sottacersi che a tali conclusioni conduce anche la lettura delle disposizioni di cui all’articolo 6 della citata legge regionale n. 19 del 2007.
7.3.- In definitiva, ad avviso della Sezione, l’assistenza personale in favore di uno studente disabile frequentante un istituto di istruzione secondaria superiore, costituendo una adeguata misura per dare effettività e concretezza al suo diritto all’istruzione e alla integrazione scolastica, integra ragionevolmente la fattispecie del servizio “di supporto organizzativo del servizio di istruzione per gli alunni con handicap o in situazione di svantaggio”, di cui al comma 1, lett. c), del ricordato art. 139 del D. Lgs. n. 112 del 1998 e dell’art.6 della legge regionale n. 19 del 2007. Del resto che la misura in questione sia attinente piuttosto all’istruzione scolastica che ai più generali servizi sociali e alle persone è  comprovato anche dalla inequivoca circostanza che essa trova fondamento e giustificazione nel Piano Educativo Individualizzato, predisposto per il singolo alunno disabile da parte dell’istituzione scolastica frequentata ed oggetto di continua verifica ed aggiornamento in relazione alle specifiche esigenze dell’alunno stesso. Non trova alcun fondamento normativo, né alcun ragionevole riscontro fattuale, l’interpretazione riduttiva della lett. c), del comma 1, del più volte citato articolo 139 del D. Lgs. n. 112 del 1998, prospettata dall’amministrazione provinciale, secondo cui “i servizi di supporto organizzativo del servizio di istruzione per gli alunni con handicap o in situazione di svantaggio” consisterebbero esclusivamente nel servizio di trasporto, dall’abitazione all’istituto scolastico e viceversa, degli alunni e degli studenti disabili".

sentenza CDS 3954 del 2013

Piano di ripartizione dei contributi ai partiti e movimenti politici a titolo di rimborso delle spese elettorali per il rinnovo del Senato della Repubblica

02 Ago 2013
2 Agosto 2013

Contributo totale 2013: euro 18.125.543,63

RIMBORSI PER LE SPESE ELETTORALI

Incostituzionale l’art. 9, comma 4 del D. l. n.95/2012 nella parte in cui prevedeva la soppressione ope legis di tutti gli enti strumentali degli enti locali

01 Ago 2013
1 Agosto 2013

Con la sentenza n. 236 del 24 luglio 2013 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 4 del D. l. n.95/2012 nella parte in cui prevedeva la soppressione ope legis  di tutti gli enti strumentali degli enti locali, qualora decorsi 9 mesi dall’entrata in vigore del d.l, non abbiano dato attuazione al precetto normativo.

Con l’art. 9 del d. l. n. 95/2012, il legislatore aveva previsto un’apposita procedura articolata in tre passaggi: a) ricognizione, entro tre mesi dall’entrata in vigore del decreto, di tutti gli «enti, agenzie e organismi» che esercitavano funzioni fondamentali o, in ogni caso, di tipo amministrativo degli enti locali (comma 2); b) definizione, mediante intesa da adottarsi in sede di Conferenza Unificata, dei «criteri e della tempistica» per l’attuazione della norma (comma 3); c) soppressione ope legis di tutti gli enti, agenzie e organismi, con conseguente nullità di tutti gli atti successivamente adottati, qualora le Regioni, le Province e i Comuni, decorsi nove mesi dalla data di entrata in vigore del decreto, non abbiano concretamente dato attuazione al precetto normativo (comma 4).

Secondo le Regioni ricorrenti (si ricordano essere la Regione Lazio, Veneto, Friuli Venezia Giulia e Sardegna) l’art. 9, comma 1, 2, 3, 4 del d. l. n. 95/2012 impugnato, incideva indebitamente sulla sfera  di autonomia  organizzativa e di funzionamento dell’amministrazione regionale, ponendosi in contrasto con gli artt. 123 e 117 della Costituzione. Nello specifico la Regione del Veneto evidenziava “che la stessa disciplina non contiene principi fondamentali di «coordinamento della finanza pubblica» dettati dallo Stato nell’esercizio della sua potestà legislativa concorrente e, dunque, si pone in contrasto con l’art. 117, comma terzo, Cost.La Regione Veneto richiama la giurisprudenza della Corte costituzionale con la quale si è affermato che quando una disposizione di legge statale imponga- come nel caso di specie - vincoli ad una singola voce di spesa delle Regioni (o degli Enti locali), essa deve considerarsi costituzionalmente illegittima, perché «pone un precetto specifico e puntuale, comprimendo l’autonomia finanziaria regionale ed eccedendo dall’ambito dei poteri statali in materia di coordinamento della finanza pubblica» risolvendosi ciò «in un’indebita invasione dell’area riservata dall’art. 119 Cost. alle autonomie regionali» (sentenze n. 182 del 2011 e n. 157 del 2007)”.

La Corte ha ritenuto non fondate le numerose censure sollevate dalle Regioni ricorrenti ad eccezione dell’impugnato art. 9, comma 4 del d. l. n. 95/2012. La Corte ha ritenuto che “il legislatore statale, decorso il termine di nove mesi dall’approvazione del decreto-legge, sopprime in modo indistinto tutti gli enti strumentali che svolgono funzioni fondamentali o conferite di Province e Comuni senza che questi siano sufficientemente individuati. L’incertezza circa i soggetti destinatari della norma è tale che, come si è visto, lo stesso legislatore statale ha ritenuto necessario un procedimento concertato per la complessiva ricognizione degli enti, delle agenzie e degli organismi, comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica da sopprimere o accorpare e per l’individuazione dei criteri e della tempistica per l’attuazione della norma. Risulta palese, pertanto, la contraddittorietà della disposizione in esame, che stabilisce la soppressione ex lege di tutti gli enti comunque denominati allo scadere del termine di nove mesi dall’approvazione del decreto-legge non tenendo conto della previsione di cui ai commi 2 e 3, istitutiva di un procedimento volto alla ricognizione dei suddetti enti e all’individuazione dei criteri e della tempistica per l’attuazione della norma con il coinvolgimento delle autonomie locali. Inoltre, l’automatica soppressione di enti, agenzie e organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica che esercitano, anche in via strumentale, funzioni nell’ambito delle competenze spettanti a Comuni, Province, e Città metropolitane ai sensi dell’art. 118 Cost., prima che tali enti locali abbiano proceduto alla necessaria riorganizzazione, pone a rischio lo svolgimento delle suddette funzioni, rischio ulteriormente aggravato dalla previsione della nullità di tutti gli atti adottati successivamente allo scadere del termine. In conclusione, la difficoltà di individuare quali siano gli enti strumentali effettivamente soppressi e la necessità per gli enti locali di riorganizzare i servizi e le funzioni da questi svolte rendono l’art. 9, comma 4, del d.l. n. 95 del 2012 manifestamente irragionevole”.

dott.sa Giada Scuccato

corte cost. 236-2013

Come va qualificata la ricostruzione di un intero fabbricato, diruto da lungo tempo e del quale residuino solo piccole frazioni dei muri

01 Ago 2013
1 Agosto 2013

La questione è esaminata dalla sentenza del Consiglio di Stato n.  3968 del 2013.

Scrive il Consiglio di Stato: "l’appello non merita positiva valutazione alla stregua del consolidato e condivisibile orientamento interpretativo secondo cui l’opera di restauro, risanamento e consolidamento deve riguardate strutture attuali e non può riferirsi a manufatti, come nella specie, da tempo inesistenti in quanto distrutti e demoliti (Cons. Stato, sez. V, 3 aprile 2000, n. 1906, secondo cui costituisce vera e propria costruzione "ex novo" e non già ristrutturazione né mero restauro o risanamento conservativo la ricostruzione di un intero fabbricato, diruto da lungo tempo e del quale residuino, al momento della presentazione dell'istanza del privato, solo piccole frazioni dei muri, di per sé inidonee a definire l'esatta volumetria della preesistenza, in quanto l'effetto ricostruttivo così perseguito mira non a conservare o, se del caso, a consolidare un edificio comunque definito nelle sue dimensioni nè alla sua demolizione e fedele ricostruzione - e, quindi, ad attuare i fini propri dell'art. 31 l. 5 agosto 1978 n. 457, diretti al recupero o al pieno ripristino del patrimonio edilizio esistente -, bensì a realizzarne uno del tutto nuovo e diverso). Reputato, in particolare, che il progetto presentato dalla ricorrente, stante anche l’impossibilità di addivenire alla cognizione esatte delle forme strutturali originarie, si risolve in un ampliamento delle strutture  effettivamente esistenti, id est in un intervento radicalmente innovativo che esorbita, sul piano letterale e teleologico, dai connotati tipologici del proposto intervento di restauro e risanamento conservativo".

sentenza CDS 3968 del 2013

Occupazione d’urgenza senza successivo esproprio

31 Lug 2013
31 Luglio 2013

Segnaliamo sul punto le considerazioni della sentenza del TAR Campania - Napoli n. 3879 del 2013, giĂ  citata nei post che precedono.

Scrive il TAR: "il ricorso è fondato in maniera assorbente sotto il profilo dell’inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, ove si consideri che al decreto di occupazione non ha mai fatto seguito il decreto di esproprio; al riguardo è appena il caso di ribadire (10.6.2009, n.3192) che l’art.13,  comma 3, della Legge n.2359/1865 ha riguardo all’inutile spirare del termine entro cui deve compiersi l’espropriazione ed al venir meno del potere dell’Amministrazione nel caso di inosservanza di tale necessario presupposto. Tale quadro normativo non è stato modificato dal DPR n.327/2001, il cui art.13, al comma 6, contempla la sanzione dell’inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità nel caso di omessa emanazione del decreto di esproprio entro il termine di cinque anni dalla data in cui è diventato efficace l’atto che aveva dichiarato la pubblica utilità dell’opera. L’operato di parte resistente va pertanto censurato proprio perché la citata previsione di cui all’art.13 costituisce un precetto posto dalla legge ed indirizzato all’Amministrazione al fine di porre un vincolo alla discrezionalità dei suoi poteri, la cui violazione integra gli estremi della violazione di legge in  quanto vizio di legittimità dell’atto amministrativo; la mancata adozione da parte dell’Amministrazione di un provvedimento di esproprio ha come conseguenza che l’originaria pubblica utilità è certamente scaduta, ragion per cui il potere ablatorio, validamente sorto, è stato colpito da  un’inefficacia sopravvenuta che sanziona ex nunc un vizio dell’iter procedimentale, integrandosi una fattispecie di cattivo esercizio del potere.
4. Ciò considerato ai fini della declaratoria dell’illegittimità dell’operato di parte resistente, occorre poi tener conto dell’orientamento comunitario (Corte Europea Diritti Uomo, 6.3.2007, n.43662) che preclude di ravvisare una “espropriazione indiretta” o “sostanziale” in assenza di un idoneo  titolo previsto dalla legge.
4.1 Il T.U. n.327/2001, attraverso la disciplina contenuta nell’art.43, aveva originariamente introdotto un meccanismo che attribuiva all’Amministrazione il potere di acquisire la proprietà dell’area con un atto formale di natura ablatoria e discrezionale al termine del procedimento nel corso del quale vanno motivatamente valutati gli interessi in conflitto; il citato art. 43 era stato in definitiva emesso dal Legislatore delegato per consentire all'Amministrazione di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto quando il bene fosse stato <modificato per scopi di interesse pubblico> (fermo restando il diritto del proprietario di ottenere il risarcimento del danno). Da un lato vi era un’interpretazione garantista, ma minoritaria, che richiedeva una motivazione esauriente delle ragioni della disposta sanatoria che provasse la sua inevitabilità (Cons. Stato, VI, 9.6.2010, n.3655); dall’altro, in maniera prevalente, si ammetteva l’applicabilità dell’istituto anche in presenza di un giudicato che riconosceva al privato il diritto alla restituzione dell’area (ex multis, Cons. Stato, IV, 22.10.2010, n.7619; V, 13.10.2010, n.7472). La Corte Costituzionale, però, con sentenza n.293 dell’8 ottobre 2010, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del cennato art.43: muovendo dalla contrapposizione tra la Corte di Cassazione, che esclude l’ammissibilità dell’adozione di un provvedimento di acquisizione sanante ex art. 43 con riguardo alle occupazioni appropriative verificatesi prima dell’entrata in vigore del D.P.R. n. 327 del 2001, e il Consiglio di Stato, secondo il quale «la procedura di acquisizione in sanatoria di un’area occupata sine titulo, descritta dal citato articolo 43, trova una generale applicazione anche con riguardo alle occupazioni attuate prima dell’entrata in vigore della norma», la Consulta ha affrontato la possibilità di acquisire alla mano pubblica un bene privato, in precedenza occupato e modificato per la realizzazione di un’opera di interesse pubblico, anche nel caso in cui l’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità sia venuta meno, con effetto retroattivo, in conseguenza del suo annullamento o per altra causa, o anche in difetto assoluto di siffatta dichiarazione. Preso atto che la delega riguardava il «riordino» delle norme elencate nell’allegato I alla legge n. 59 del 1997 ed, in particolare, il «procedimento di espropriazione per causa di pubblica utilità e altre procedure connesse: legge 25 giugno 1865, n. 2359; legge 22 ottobre 1971, n. 865», il giudice delle leggi ha affermato la necessità che, in ogni caso, si faccia riferimento alla ratio della delega, si tenga conto della possibilità di introdurre norme che siano un coerente sviluppo dei principi fissati dal legislatore delegato e detta discrezionalità venga esercitata nell’ambito dei limiti stabiliti dai principi e criteri direttivi.  In definitiva l’istituto previsto e disciplinato dall’art.43 era connotato da numerosi aspetti di novità, rispetto sia alla disciplina espropriativa oggetto delle disposizioni espressamente contemplate dalla legge-delega, sia agli istituti di matrice prevalentemente giurisprudenziale, specie nel momento in cui si era introdotta la possibilità per l’Amministrazione e per chi utilizza il bene di chiedere al giudice amministrativo, in ogni caso e senza limiti di tempo, la condanna al risarcimento in luogo della restituzione; nel regime risultante dalla norma impugnata, inoltre, si era previsto un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla stessa Amministrazione che aveva commesso l'illecito, a dispetto di un giudicato che disponeva il ristoro in forma specifica del diritto di proprietà violato. Il Legislatore delegato, in definitiva, non poteva innovare del tutto e derogare ad ogni vincolo alla propria discrezionalità esplicitamente individuato dalla legge-delega, dovendo piuttosto limitarsi a disciplinare in modi diversi la materia e ad espungere del tutto la possibilità di acquisto connesso esclusivamente a fatti occupatori, garantendo la restituzione del bene al privato in analogia con altri ordinamenti europei.
4.2 A seguito dell’eliminazione dal mondo giuridico dell'istituto della cd. “acquisizione sanante” di cui all'art. 43 D.P.R. n. 327 del 2001, la Sezione (a partire dalle pronunce nn.261 e 262 del 18 gennaio 2011) ha ritenuto che in siffatte ipotesi il comportamento tenuto dall’Amministrazione dovesse essere qualificato non già come illecito, bensì come illegittimo; si trattava di un’illegittimità a cui non poteva porsi rimedio neppure riesumando l'istituto di origine giurisprudenziale della cosiddetta “espropriazione sostanziale” - nelle due ipotesi alternative della occupazione acquisitiva o usurpativa - perché tale  istituto era stato ritenuto in contrasto con l'ordinamento comunitario (cfr.: T.A.R. Sicilia Palermo I, 1.2.2011 n. 175; idem III, 21.1.2011 n. 115). Del resto in nessun caso - neppure a fronte della sopravvenuta irreversibile trasformazione del suolo per effetto della realizzazione dell’opera pubblica - era possibile giungere ad una condanna puramente risarcitoria a carico dell’Amministrazione, poiché una tale pronuncia presupponeva in ogni caso l’avvenuto trasferimento della proprietà del bene per fatto illecito dalla sfera giuridica di parte ricorrente, originaria proprietaria, a quella della P.A. che se ne è illecitamente impossessata, esito, questo, non consentito dal primo protocollo addizionale della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo (cfr. T.A.R. Calabria, Catanzaro, I, 1.7.2010, n. 1418). Pertanto, ricorrendone i presupposti le Amministrazioni sono state condannate alla restituzione a parte ricorrente degli immobili in ragione dell’accertato utilizzo degli stessi per come materialmente appresi sia pure per fini pubblicistici, atteso l’irrilevanza, nell’ottica di una eventuale traslazione della proprietà della res, che fosse stata realizzata l’opera pubblica nella misura in cui questa aveva modificato la destinazione originaria del cespite e recato un pregiudizio patrimoniale e non a carico di parte ricorrente. Tale statuizione era peraltro compatibile con la restituzione dei cespiti e facoltà dello ius tollendi concessa al proprietario dei manufatti alle condizioni previste dall'art. 935 c.c., comma 1 e art. 937 c.c., laddove il diritto al risarcimento e l’applicabilità dell’art.2058 c.c. sarebbero entrati in discussione ove si fosse rientrati nella materia risarcitoria.
4.3 In costanza di vuoto normativo, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (31.5.2011, n.11963) hanno affermato che l’irreversibile trasformazione, anche parziale, del fondo determina l’acquisto della proprietà del bene, nei limiti della parte trasformata, da parte dell’Amministrazione che aveva dato corso al processo espropriativo, mentre l’eventuale domanda di risarcimento in forma specifica sarebbe ordinariamente destinata ad avere esito negativo, dovendo trovare prioritario soddisfacimento l’interesse posto a base della realizzazione dell’opera pubblica. Da canto suo, a titolo esemplificativo, la giurisprudenza amministrativa (T.A.R. Emilia-Romagna, Parma, I, 12.7.2011, n.245) ha ritenuto che, proprio a seguito del citato vuoto normativo, ove il privato avesse chiesto unicamente il risarcimento del danno per equivalente in ragione dell’irreversibile trasformazione del bene, detta richiesta andava considerata come rinuncia alla restituito in integrum; comunque la richiesta del solo risarcimento per equivalente non determinerebbe un effetto abdicativo della proprietà all’Amministrazione occorrendo piuttosto un accordo transattivo tra le parti (Cons. Stato, IV, 13.6.2011, n.3561; 1.6.2011, n.3331; 28.1.2011, n.676), mentre se il privato dovesse insistere per la tutela restitutoria la stessa andrebbe disposta eccezion fatta per la ricorrenza dei presupposti per l’applicazione degli artt.2933, comma 2 o 2058 c.c. Di recente si è poi affermato (Cons. Stato, IV, 29.8.2011, n.4833) che, essendo venuto meno il procedimento espropriativo accelerato di cui al citato art.43, la P.A. avrebbe potuto apprendere il bene facendo uso unicamente del contratto tramite l’acquisizione del consenso della controparte, ovvero del provvedimento anche in assenza del consenso ma con riedizione del procedimento espropriativo con le sue garanzie.
4.4 Ad oltre nove mesi dalla sentenza di incostituzionalità dell’originario art.43, con l’art.34 del Decreto-Legge 6.7.2011, n.98 convertito in Legge 15.7.2011, n.111 (in materia di misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria) è stato reintrodotto attraverso l’art.42-bis l’istituto dell’acquisizione coattiva dell’immobile del privato utilizzato dall’Amministrazione per fini di interesse pubblico, potendosi acquisire al suo patrimonio indisponibile il bene del privato allorchè la sua utilizzazione risponde a “scopi di interesse pubblico” nonostante difetti un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità. L’obbligo motivazionale ai sensi del nuovo comma 4 impone di dare conto dell’assenza di ragionevoli alternative alla adozione del nuovo provvedimento, che entro trenta giorni va anche comunicato alla Corte dei Conti (comma 7); ancora nella nuova versione (commi 1, 2, 3 e 4) si fa riferimento all’indennizzo, piuttosto che al risarcimento del danno, quale corrispettivo dell’attività posta in essere dall’Amministrazione, ciò forse per la liceità dell’attività, non retroattiva, posta in essere dall’Autorità agente. Laddove prima, anche in sede di contenziosi diretti alla restituzione di un bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, la P.A. poteva chiedere che il giudice amministrativo disponesse la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione, e successiva adozione del provvedimento sanante dall’Amministrazione interessata, ora (comma 2) il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche in corso di giudizio di annullamento previo ritiro dell’atto impugnato; il potere acquisitivo dell’Amministrazione è esercitabile anche in presenza di una pronunzia giurisdizionale passata in giudicato che abbia annullato il provvedimento che costituiva titolo per l’utilizzazione dell’immobile da parte della stessa Amministrazione, atteso che il giudicato è intervenuto sull’atto annullato e non sul rapporto tra privato ed Amministrazione. Il nuovo atto, che l’Amministrazione è legittimata ad adottare finchè perdura lo stato di utilizzazione pur se illegittima del bene del privato, è distinto da quello annullato, tant’è che non opera con efficacia retroattiva e non ha una funzione sanante del provvedimento annullato; in ogni caso la P.A. deve porre in essere tutte le iniziative necessarie per porre fine alla perdurante situazione di illiceità, restituendo il bene al privato solo quando siano cessate le ragioni di pubblico interesse che avevano comportato l’utilizzazione del suolo, dovendo in caso contrario acquisire al suo patrimonio indisponibile il bene su cui insiste o dovrà essere realizzata l’opera pubblica o di pubblico interesse. Premesso che in ogni caso non sarà possibile la restituzione della nuda proprietà superficiaria al privato, atteso che ciò che rileva è appunto l’idoneità del bene del privato a soddisfare, attraverso la sua trasformazione fisica, l’interesse pubblico perseguito dall’Amministrazione, la prima giurisprudenza (T.A.R. Sicilia, Catania, III, 19.8.2001, n.2102) successiva all’entrata in vigore del nuovo art.42- bis ha ritenuto che il giudice amministrativo, anche nell’esercizio dei propri poteri equitativi e nella logica di valorizzare la ratio della novella legislativa di far sì che l’espropriazione della proprietà privata per scopi di pubblica utilità non si trasformi in un danno ingiusto a carico del cittadino e che gli effetti indennitari e/o risarcitori conseguano necessariamente ad un formale provvedimento della PA, possa accogliere la domanda risarcitoria derivante dall’occupazione senza titolo di un bene privato per scopi di interesse pubblico, se irreversibilmente trasformato, differendone però gli effetti all’emissione di un formale provvedimento acquisitivo ai sensi dello stesso art.42-bis. Si potrebbe obiettare che si prescinde in tal modo dalle problematiche di carattere applicativo e che l’acquisizione sanante è inidonea a fungere da strumento di giuridico di tutela del principio di legalità, ma è un dato che la previsione di una “legale via d’uscita” con l’esercizio di un potere basato sull’accertamento dei fatti e sulla valutazione degli interessi in conflitto (che di fatto trasforma un comportamento in un’attività amministrativa supportata dalla presunzione di legittimità) è già stata ritenuta immune da questioni di costituzionalità (Cons. Stato, VI, 15.3.2012, n.1438) in quanto conforme alle disposizioni della CEDU ed alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo che in passato ha condannato la Repubblica italiana proprio perché i giudici nazionali avevano riscontrato la perdita della proprietà in assenza di un valido provvedimento motivato. L’art. 42-bis, pur facendo salvo il potere di acquisizione sanante in capo alla P.A., non ripropone lo schema processuale previsto dal comma 2 dell’originario art.43, che attribu iva all’Amministrazione la facoltà e l’onere di chiedere la limitazione alla sola condanna risarcitoria ed al giudice il potere di escludere senza limiti di tempo la restituzione del bene, con il corollario dell’obbligatoria e successiva emanazione dell’atto di acquisizione. Ciò nonostante, il potere discrezionale dell’Amministrazione di disporre l’acquisizione sanante è conservato (Cons. Stato, IV, 16.3.2012, n.1514): l’art.42-bis infatti regola i rapporti tra potere amministrativo di acquisizione in sanatoria e processo amministrativo di annullamento, in termini di autonomia, consentendo l’emanazione del provvedimento dopo che “sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio” od anche, “durante la pendenza di un giudizio per l'annullamento degli atti citati, se l'amministrazione che ha adottato l'atto impugnato lo ritira”; non regola più invece, come innanzi accennato, i rapporti tra azione risarcitoria, potere di condanna del giudice e successiva attività dell’Amministrazione, sicchè ove il giudice, in applicazione dei principi generali condannasse l’Amministrazione alla restituzione del bene, il vincolo del giudicato eliderebbe irrimediabilmente il potere sanante dell’Amministrazione (salva ovviamente l’autonoma volontà transattiva delle parti) con conseguente frustrazione degli obiettivi avuti a riferimento dal legislatore. L’ordinamento sovranazionale che lo Stato ha recepito, anche a fronte della sopravvenuta irreversibile trasformazione del suolo per effetto della realizzazione di un’opera pubblica astrattamente riconducibile al compendio demaniale necessario e nonostante l’espressa domanda in tal senso di parte ricorrente, esclude la possibilità di una condanna puramente risarcitoria a carico dell’Amministrazione, poiché una tale pronuncia postula l’avvenuto trasferimento della proprietà del bene, per fatto illecito, dalla sfera giuridica del ricorrente, originario proprietario, a quella della P.A. che se ne è illecitamente impossessata, esito, questo (comunque sia ricostruito in diritto: rinuncia abdicativa implicita nella domanda solo risarcitoria, ovvero accessione invertita), vietato dal primo Protocollo addizionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. T.A.R. Umbria, 22.10.2012, n.451; Cons. Stato, Sez. IV, 3 ottobre 2012 n. 5189).
5. Il Collegio ritiene dunque che, atteso che non può più essere azionato il meccanismo procedimentale accelerato previsto dal citato art.43 (Cons. Stato, IV, 29.8.2012, n.4650) e che la realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non  in grado di assurgere a titolo dell'acquisto e come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà (Cons. Stato, IV, 29.8.2011, n.4833; 28.1.2011, n.676), l'Amministrazione possa divenire proprietaria o al termine del procedimento, che si conclude sul piano fisiologico con il decreto di esproprio o con la cessione del bene espropriando, oppure quando, essendovi una patologia per cui il bene è stato modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, viene emesso il decreto di acquisizione al patrimonio indisponibile ai sensi dell'art. 42-bis, indennizzando il proprietario per il mancato utilizzo del bene (5% di interesse annuo sul valore venale di ogni anno), per il lamentato danno patrimoniale (al valore venale attuale) e non patrimoniale (10% del valore venale attuale salvo casi particolari in cui è il 20%). In verità deve ritenersi possibile (T.A.R. Sicilia, Palermo, 5.7.2012, n.1402) l’usucapione da parte della Pubblica Amministrazione in presenza dei presupposti di cui all’art.1158 c.c. (possesso ininterrotto, non violento, non clandestino, da oltre un ventennio) ed alle condizioni di cui al D. Lgs. n.28/2010, con possibilità di un risparmio di spesa dovendosi corrispondere solo danno non patrimoniale e da mancato utilizzo. Sul punto la giurisprudenza ha precisato che “Il Tribunale Amministrativo é competente a decidere circa l'eccezione di intervenuta usucapione in materia espropriativa ricondotta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 34 D. Lg. n.80 del 1998 ed oggi ai sensi dell'art.53 del T.U. espropriazioni” (Tar Catania, II, 14.7.2009, n. 1283). Ove poi si ritenga che la pronuncia sull’usucapione non rientra nell’ambito rimesso alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, primo comma, lett g) c.p.a. in quanto la specifica questione non è riconducibile, anche mediatamente, all’esercizio del pubblico potere, si deve affermare che, se il giudice amministrativo può conoscere in via incidentale di tutte le questioni pregiudiziali relative a diritti ai sensi dell’art. 8 c.p.a. nelle materie in cui non ha giurisdizione esclusiva, a maggior ragione ne può conoscere alla stessa stregua nelle materie in cui ha giurisdizione esclusiva; al giudice ordinario, per contro, sono devolute tutte le controversie relative all’accertamento del possesso ventennale ininterrotto necessario per l’usucapione in quanto, ove l’interesse di parte ricorrente fosse da correlarsi unicamente al dedotto diritto di proprietà derivante dall’acquisto a titolo originario per intervenuta usucapione, sulla controversia deve pronunciarsi il giudice ordinario. In sede di conferma della citata pronuncia n.1402 del 2012 del TAR Palermo, si è ancora affermato (Cons. Giust. Ammin., 14.1.2013, n.9) che l’avvenuta usucapione estingue non solo ogni sorta di tutela reale spettante al proprietario del fondo ma anche quelle obbligatorie tese al risarcimento dei danni subiti poiché, retroagendo gli effetti dell’usucapione - quale acquisto a titolo originario – al momento dell’iniziale esercizio della relazione di fatto con il fondo altrui, “viene meno ab origine” il connotato di illiceità del comportamento della PA che occupava “sine titulo” il bene poi usucapito. 5.1 Quando si accerta l’illegittimità dell’operato dell’Amministrazione e la rilevanza nel giudizio dei principi quali desumibili dal menzionato art.42-bis, l’accoglimento del ricorso e la condanna dell’Ente al  risarcimento pongono il problema dell’eventuale applicazione dell’art.5-bis del D.L. n.333 del 1992, convertito in Legge n.359 del 1992; al riguardo occorre precisare che, con riguardo al comma 7-bis di tale articolo come introdotto dall’art.3, comma 65, della Legge n.662 del 1996, la Corte Costituzionale di recente (24.10.2007, n.349) ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale in quanto non prevederebbe un ristoro integrale del danno subito per effetto dell’occupazione acquisitiva da parte della Pubblica Amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene occupato, dunque in contrasto con gli obblighi internazionali sanciti dall’art.1 del Protocollo addizionale alla CEDU e con lo stesso art.117, primo comma, Cost. Quanto alla misura dell’indennizzo, nella giurisprudenza della Corte europea (29.3.2006, Scordino) è ormai costante l’affermazione secondo cui “una misura che costituisce interferenza nel diritto al rispetto dei beni deve trovare il giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e le esigenze imperative di salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo”, non potendosi garantire in tutti i casi il diritto dell’espropriato al risarcimento integrale in quanto obiettivi legittimi di pubblica utilità possono giustificare un rimborso inferiore al valore commerciale effettivo. In ogni caso la liquidazione del danno per l’occupazione acquisitiva stabilita in misura superiore a quella stabilita per l’indennità di espropriazione, ma in una percentuale non apprezzabilmente significativa, non permette di escludere la violazione del diritto di proprietà come garantito dalla norma convenzionale. Il danno subito da parte ricorrente va dunque liquidato tenendo conto non della rendita catastale quale è un mero valore fiscale impresso dall’Amministrazione agli immobili a meri fini tributari, bensì del valore di mercato (o venale) del bene ablato, da determinarsi attraverso la valutazione delle caratteristiche intrinseche dell’immobile e delle sue eventuali potenzialità edificatorie, la verifica dei prezzi risultanti da atti di compravendita di immobili finitimi con analoghe caratteristiche ed il valore accertato dal Ministero delle Finanze rivalutato alla data dell’irreversibile trasformazione, mentre sulla somma così determinata andranno calcolate la rivalutazione monetaria e gli interessi al tasso legale. Quanto al danno non patrimoniale, premesso che le disposizioni di cui al comma 1 del citato art.42-bis sono rivolte non al giudice bensì all’Amministrazione che procederà o meno alla liquidazione dell’indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale subito – mentre il giudice potrà valutare la legittimità dell’attività amministrativa solo ex post ove sia chiamato a sindacare l’operato della P.A., esso è risarcibile (Cons. Stato, IV, 9.1.2013, n.76; Cass. Civ., SS. UU., 11.11.2008, n.26972) nei soli casi “previsti dalla legge” e cioè, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art.2059 c.c., a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato (in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall'ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale); b) quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di un’ipotesi di  reato (ad es. nel caso di illecito trattamento dei dati personali o di violazione delle norme che vietano la discriminazione razziale); in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento (quali, rispettivamente, quello alla riservatezza od a non subire discriminazioni); c) quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati "ex ante" dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice. Occorrerà dunque verificare la sussistenza di un pregiudizio non patrimoniale derivante da attività o comportamenti illegittimi o illeciti della P.A., a ciò provvedendo il giudice in quanto ne venga investito a domanda di parte atteso che il diritto al risarcimento del danno è un diritto disponibile. Ai sensi dell’ultima parte del secondo comma dell’art.42-bis, le somme eventualmente già erogate al proprietario a titolo di indennizzo, maggiorate dell’interesse legale, devono essere detratte da quelle dovute ai sensi del nuovo atto. Ove invece venga disposta l’acquisizione ai sensi del citato art.42-bis, atteso che ai sensi del comma 3 della stessa norma l’indennizzo deve tener conto della misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità - mentre se l’occupazione riguarda un terreno edificabile occorre aver riguardo ai commi 3, 4, 5, 6 e 7 dell’art.37, andrà risarcito il danno relativo al periodo della utilizzazione senza titolo, nonché l’importo spettante in base alle vigenti disposizioni oltre interessi moratori. Per il periodo di occupazione illegittima il danno da risarcire deve essere forfettariamente determinato nella misura fissa dell’interesse del 5% annuo sul valore venale del bene".

La tutela del possesso davanti al giudice amministrativo si svolge con le forme proprie del processo amministrativo e non con l’applicazione dell’articolo 703 c.p.c.

31 Lug 2013
31 Luglio 2013

La questione è esaminata dalla sentenza del TAR Campania - Napoli n.  3879 del 2013, già allegata al post che precede.

Scrive il TAR: "Ritenuta dunque la giurisdizione sulla domanda di reintegra nel possesso proposta da parte ricorrente, resta da stabilire se le forme di tutela siano quelle previste dall’art 703 c.p.c., che rinvia agli art. 669 bis e ss. c.p.c., oppure quelle proprie del processo amministrativo. Ritiene il Collegio di seguire la seconda impostazione, poiché, come ha rilevato la Corte Costituzionale – investita di una questione di legittimità con riferimento all’inesistenza di un tutela cautelare ante causam avanti al g.a. – l’applicazione di istituti processual-civilistici non è giustificabile qualora le esigenze ad essi sottese vengano effettivamente tutelate da istituti propri del processo amministrativo (idem T.A.R. Umbria, 4.9.2002, n. 652). Nel caso in esame l’esigenza di tutela immediata, soddisfatta dagli artt. 703-669 bis e ss. c.p.c., è efficacemente garantita mediante il procedimento di cui all’art 23-bis della Legge n.1034/1971 (ora art.119 del Decr. Legisl. 2/7/2010, n.104 di riordino del processo amministrativo), di cui sussistono tutti i presupposti applicativi (essendo, in particolare, la controversia oggetto del presente giudizio contemplata dalla lettera b) del medesimo articolo).
Il comportamento tenuto dalla Amministrazione, la quale abbia emanato una valida dichiarazione di pubblica utilità ed un legittimo decreto di occupazione d'urgenza senza tuttavia emanare il provvedimento definitivo di esproprio nei termini previsti dalla legge, deve essere, poi, qualificato come "illecito permanente", nella cui vigenza non decorre la prescrizione, ciò perché in questo caso manca un effetto traslativo della proprietà, stante la mancanza del provvedimento di esproprio, connesso alla mera irrevocabile modifica dei luoghi. Per questo motivo, salva restando la possibilità di optare per  le differenti forme "risarcitorie" che l'ordinamento appresta (restituzione del bene ovvero risarcimento del danno per equivalente), il soggetto privato del possesso può agire nei confronti dell'ente pubblico senza dover sottostare al termine prescrizionale quinquennale decorrente dalla trasformazione irreversibile del bene, con l’unico limite temporale rinvenibile nell’acquisto della proprietà, per usucapione ventennale del bene, eventualmente maturata dall’ente pubblico (cfr. T.A.R. Sicilia, Palermo, 1.2.2011, n. 175)".

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