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Il PAT ha natura programmatica

13 Ago 2013
13 Agosto 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza del 08 agosto 2013 n. 1056, conferma la natura programmatica e non immediatamente lesiva del P.A.T. esponendo che: “6.2. Dall’altro, deve rilevarsi la non immediata lesività delle previsioni “strutturali” e di obiettivo contenute nel P.A.T., posto che la specifica localizzazione dei singoli assi viari, compreso quello che interessa la presente controversia – benché riportato nella tavola n. 4 “Carta delle Trasformabilità” allegata al P.A.T. (cfr. doc. 4 della parte resistente) quale “viabilità secondaria e minore da riqualificare/potenziare” – risulta normativamente demandata al distinto livello di pianificazione da realizzarsi con il Piano degli Interventi.

6.3. Infatti, l’art. 13, comma 1, della L.R. del Veneto n. 11 del 2004 stabilisce che «il piano di assetto del territorio (P.A.T.), redatto sulla base di previsioni decennali, fissa gli obiettivi e le condizioni di sostenibilità degli interventi e delle trasformazioni ammissibili (…)», specificando al comma 3, lettera b), del medesimo articolo che «il P.A.T. è formato: (…) b) dagli elaborati grafici che rappresentano le indicazioni progettuali».

6.4. L’art. 17, comma 2, lettera h), della citata L.R. n. 11 del 2004, inoltre statuisce che: «il P.I. in coerenza e in attuazione del piano di assetto del territorio (P.A.T.) sulla base del quadro conoscitivo aggiornato provvede a: (…) h) definire e localizzare le opere e i servizi pubblici e di interesse pubblico nonché quelle relative a reti e servizi di comunicazione, di cui al decreto legislativo n. 259 del 2003 e successive modificazioni, da realizzare o riqualificare».

6.5. Pertanto, alla luce di tale quadro normativo, dalla tavola n. 4 “Carta delle Trasformabilità” allegata al P.A.T., non derivava alcun onere di immediata impugnazione a carico dei ricorrenti, trattandosi di una mera “indicazione progettuale”, per la cui puntuale localizzazione risulta necessaria l’adozione del P.I.”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 1056 del 2013

Le medie strutture all’interno dei parchi commerciali

13 Ago 2013
13 Agosto 2013

Con la sentenza n. 981 del 24 luglio 2013, la Terza Sezione del TAR Veneto affronta varie questioni relative alla proroga del termine di attivazione delle strutture di vendita, con particolare riguardo alle medie strutture all’interno dei parchi commerciali.

Segnaliamo, innanzitutto il seguente passaggio, dove viene analizzato l’art. 2 della legge regionale n° 42 del 2012, norma di interpretazione  autentica dell’articolo 10 della legge regionale n° 15 del 2004; quest’ultimo “si interpreta nel senso che agli esercizi di vicinato ed alle medie strutture di vendita, ubicate all’interno dei parchi commerciali oggetto di ricognizione ai sensi del comma 7 dell’art. 10 della legge regionale n° 15 del 2004, si applicano le disposizioni di cui all’art. 22 del d. lgs. n° 114 del 1998.

Dunque”, afferma il TAR, “per effetto dell’art. 2 della legge regionale n° 42 del 2012, l’art. 22 del d. Lgs. n° 114 del 1998 si applica anche alle medie strutture di vendita comprese in un parco commerciale. In tal caso non si applica più l’art. 23 della legge regionale n° 15 del 2004, che prevede una disciplina della proroga più restrittiva rispetto all’art. 22 del d. lgs. n° 114 del 1998, nel senso di richiedere una sola proroga fino ad un massimo di un anno. (…) La ratio della legge n° 42 del 2004 è quella di evitare una disparità di disciplina tra medie strutture di vendita ubicate all’interno di parchi commerciali e le medie strutture di vendita non ubicate all’interno di parchi commerciali.” Il TAR avverte tuttavia che: “La ratio non è invece quella di offrire maggiori libertà di prorogare i termini di attivazione degli esercizi commerciali connessi al rilascio dei provvedimenti autorizzativi. Quanto sopra risulta evidente, considerando che il settimo comma dell’art. 18 della legge regionale n° 50 del 2012 (in vigore dal 1 Gennaio 2013) stabilisce che le medie strutture di vendita sono attivate nel termine di decadenza di due anni dal rilascio dell’autorizzazione commerciale o dalla presentazione della SCIA, salva la potestà del comune di prorogare per una sola volta il termine in caso di comprovata necessità, su motivata richiesta dell’interessato da presentarsi entro il predetto termine. Dunque con la legge regionale n° 50 del 2012 è stata posta una disciplina più restrittiva (in relazione alla determinazione del periodo massimo di proroga ed alla possibilità di prorogare per una sola volta) alle proroghe rispetto a quella posta dall’art. 22 del d. Lgs. n° 114 del 1998, confermando con ciò che l’intento della legge n° 42 del 2012 non era quello di andare nella direzione di una maggiore possibilità di concessione delle proroghe, ma invece quello di evitare la sopra richiamata disparità di disciplina tra medie strutture di vendita ubicate all’interno di parchi commerciali e le medie strutture di vendita non ubicate all’interno di parchi commerciali.

Nel caso di specie ha trovato applicazione, ratione temporis, la legge regionale n° 42 del 2012 (entrata in vigore il 17 Novembre 2012 e abrogata dall’art. 30 comma 1 lettera g) della legge regionale n° 50 del 2012, con effetto dal 1 Gennaio 2013).

In particolare è stato avviato un procedimento ai sensi dell’art. 5 della legge regionale n° 42 del 2012, che stabilisce che i procedimenti amministrativi aventi ad oggetto l’autorizzazione commerciale relativa alle fattispecie di cui agli articoli 1, 2 e 3 della legge regionale n° 42 del 2012, attivati precedentemente all’entrata in vigore della legge stessa, sono riesaminati ad istanza di parte, tenuto conto degli articoli 1, 2 e 3 della legge stessa.

L’interessata invocava l’art. 2 della L. 42 , il quale consentiva – fino all’entrata in vigore il 1° gennaio 2013 dell’art. 18 della L. 50 del 2012 sui nuovi termini di attivazione -  ulteriori proroghe senza una rigida predeterminazione del periodo di proroga, purché fosse fornita una rigorosa dimostrazione della necessità della proroga.

Il TAR ha ritenuto illegittima la proroga concessa dal Comune, in primis, per avere disatteso due sentenze del Consiglio di Stato, le quali  avevano specificamente ritenuto illegittima una precedente proroga dell’attivazione delle medie strutture di vendita in quanto non sussistevano i presupposti di necessità per la concessione della proroga.

In secundis, per carenza di potere, avendo il Comune accordato la proroga dopo che era scaduta l’autorizzazione commerciale; scrive il TAR:  “Gli artt. 2 e 5 della legge regionale n° 42 del 2012 consentono all’amministrazione di riesaminare i procedimenti amministrativi “attivati” che riguardano la proroga delle autorizzazioni commerciali, ma non introducono una deroga al principio, riconosciuto dalla costante giurisprudenza per quanto attiene alla disciplina del termine di attivazione di un’iniziativa commerciale od edilizia autorizzata, secondo cui la richiesta di proroga del termine deve essere presentata prima della scadenza del termine originario (così Consiglio di Stato IV n° 360 del 2013). Tale principio non è derogato né dall’art. 22 del d. lgs. n° 114 del 1998 né dalla legge regionale n° 42 del 2012. Infatti la possibilità di prorogare i termini di attivazione degli interventi edilizi e commerciali autorizzati, successivamente alla loro scadenza, metterebbe in pericolo l’attuazione della programmazione commerciale ed urbanistica e pregiudicherebbe il necessario ordine disciplinatorio degli interventi.

Rileva infine il TAR che il provvedimento impugnato “è altresì illegittimo per violazione dell’art. 7 della legge n° 241 del 1990”. La violazione discende dal fatto che, dalla data di comunicazione alla ricorrente di avvio del procedimento alla data di adozione del provvedimento di proroga fossero trascorsi soltanto nove giorni, vale a dire un termine ritenuto non congruo affinché la ricorrente fosse messa in condizione di partecipare al procedimento (“ (…) il collegio reputa che di norma il termine congruo può essere definito quello avente la durata di quindici giorni (un’indicazione normativa può trarsi sotto tale profilo dall’art. 7 comma 1 del D.P.R. n° 184 del 2006), termine che nel caso di specie non è stato rispettato.”)

avv. Marta Bassanese

sentenza TAR Veneto 981 del 2013

Appalti: intervento ad opponendum, cooptazione e polizza fideiussoria

13 Ago 2013
13 Agosto 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza del 08 agosto 2013 n. 1060, si occupa di alcune questioni concernenti le gare d’appalto.

Innanzitutto per quanto riguarda l’intervento ad opponedum previsto dall’art. 50 c.p.a. secondo cui: “1. L'intervento è proposto con atto diretto al giudice adito, recante l'indicazione delle generalità dell'interveniente. L'atto deve contenere le ragioni su cui si fonda, con la produzione dei documenti giustificativi, e deve essere sottoscritto ai sensi dell'articolo 40, comma 1, lettera d).

2. L'atto di intervento è notificato alle altre parti ed è depositato nei termini di cui all'articolo 45; nei confronti di quelle costituite è notificato ai sensi dell'articolo 170 del codice di procedura civile.

3. Il deposito dell'atto di intervento di cui all'articolo 28, comma 2, è ammesso fino a trenta giorni prima dell'udienza” il Collegio afferma che: “risulta palese la violazione dei termini perentori stabiliti dall’art. 50, co. 2 e 3, c.p.a. per la notificazione e il deposito dell’atto di intervento. Come affermato dalla giurisprudenza (cfr. Cons. St., sez. IV, 30 novembre 2010, n. 8363), la nuova disciplina introdotta dall’art. 50 c.p.a. prevede, sul piano strettamente procedurale, che il deposito dell’atto di intervento è sottoposto ad un duplice, inderogabile, limite temporale: a pena di decadenza deve essere depositato nella segreteria del giudice adito entro trenta giorni dalla notificazione e, comunque, non oltre trenta giorni prima dell’udienza fissata per la discussione del ricorso. Peraltro, la tardività del deposito non è sanabile ex post, in quanto i termini perentori sono espressivi di un precetto di ordine pubblico processuale essendo posti a presidio del contraddittorio e dell’ordinato lavoro del giudice (cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. V, n. 23 febbraio 2012, n. 1058; sez. V, 28 marzo 2008, n. 1331)”.

 Per quanto riguarda invece l’istituto della cooptazione il Collegio rileva che: “l’art. 92, comma 5, del D.P.R. 207/2010 richiede, come rettamente osservato dal ricorrente incidentale, per poter partecipare alla gara quali imprese “cooptate”, sia in presenza di impresa singola che di raggruppamento temporaneo di impresa (senza distinzione tra raggruppamenti verticali, orizzontali o misti), il rispetto di quattro condizioni rappresentate: a) dalla circostanza che l’ammontare complessivo delle qualificazioni possedute dalla singola impresa sia almeno pari all’importo dei lavori che saranno ad essa affidati; b) dalla circostanza che si associno “altre imprese”, diverse da quelle che già costituiscano l’A.T.I.; c) che i lavori eseguiti dalle cooptate non superino il 20% dell’importo complessivo dei lavori; d) che la cooptata sia qualificata per “categorie e importi diversi da quelli richiesti nel bando” (cfr. Consiglio di Giustizia Amministrativa, n. 211 del 2011)”.

 Infine per quanto riguarda la polizza fideiussoria si legge che: “15. Passando all’esame del secondo motivo, deve rilevarsi che, in effetti, la polizza dimessa dal raggruppamento ricorrente (cfr. doc. 22 di parte ricorrente) non soddisfa le condizioni necessarie affinché sia identificabile, per la stazione appaltante, il soggetto legittimato ad impegnare la società garante (Carige Assicurazioni), posto che oltre alla illeggibilità della firma apposta dalla persona fisica che ha sottoscritto, per conto di detta società, la polizza fideiussoria in esame, non ricorre invero alcun ulteriore elemento utile per l’identificazione di quest’ultimo.

15.1. Se si considera, inoltre, che essa risulta, da un lato, rilasciata da “Agenzia Generale 1404 ROMA GENERALE” – la quale, dalla visura camerale depositata in atti, ha sede in Roma –, dall’altro “fatta in 4 esemplari” in Milano, emerge un’incertezza oggettiva anche circa il luogo di emissione e/o soggetto emittente che, unitamente alle carenze sopra evidenziate, preclude alla stazione appaltante di esercitare il proprio potere/dovere di verificare la vincolatività e la validità dell’impegno del fideiussore a rilasciare la garanzia fideiussoria per l’esecuzione del contratto, nell’ipotesi che l’offerente risultasse affidatario (ex art. 75, comma 8, del d.lgs. n. 163 del 2006), in quanto la mancanza assoluta d’identificabilità del dichiarante, non consente di attribuire le referenze bancarie ad alcun soggetto (cfr. in questo senso e da ultimo, TAR Sicilia, sez. Catania, n. 552 del 2013)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 1060 del 2013

Il TAR Veneto sugli oneri specifici in controtendenza rispetto all’AVCP e al CDS

12 Ago 2013
12 Agosto 2013

Nei post del 6 agosto 2013 e del 15 luglio 2013 avevamo sottolineato che sia l’AVCP sia il Consiglio di Stato non ritengono necessaria, a pena di esclusione dalla gara, l’indicazione degli oneri di sicurezza c.d. specifici o aziendali, soprattutto laddove la stazione appaltante non abbia predisposto un modello ad hoc per la loro indicazione.

 Il T.A.R. Veneto, al contrario, si allinea alla sentenza del T.A.R. Campania n. 934/2013 commentata nel post del 08 luglio 2013, secondo cui tali oneri di sicurezza devono essere indicati dall’offerente a pena di esclusione indipendentemente da un previsione in tal senso della lex specialis.

 Ecco quanto si legge nella sentenza n. 1050 del 08 agosto 2013: “2.1. Gli oneri della sicurezza - sia nel comparto dei lavori che in quelli dei servizi e delle forniture - devono essere distinti tra oneri, non soggetti a ribasso, finalizzati all’eliminazione dei rischi da interferenze (che devono essere quantificati dalla stazione appaltante nel DUVRI) ed oneri concernenti i costi specifici connessi con l’attività delle imprese, che devono essere indicati dalle stesse nelle rispettive offerte, con il conseguente onere per la stazione appaltante di valutarne la congruità (anche al di fuori del procedimento di verifica delle offerte anomale) rispetto all’entità ed alle caratteristiche del lavoro, servizio o fornitura (Consiglio di Stato, sez. III, 3 ottobre 2011, n. 5421). Le imprese partecipanti, pertanto, devono includere necessariamente nella loro offerta sia gli oneri di sicurezza per le interferenze (nell’esatta misura predeterminata dalla stazione appaltante), sia gli altri oneri di sicurezza da rischio specifico (o aziendali) la cui misura può variare in relazione al contenuto dell’offerta economica, trattandosi di costi il cui ammontare è determinato da ciascun concorrente in relazione alle altre voci di costo dell’offerta (T.A.R. Lazio Roma, sez. II-ter, 7 gennaio 2013, n. 66; Consiglio di Stato, sez. III ,19 gennaio, 2012 n. 212).

2.1. Tale onere discende dal combinato disposto degli artt. 86, comma 3 bis, e 87, comma 4, del d.lgs. n. 163 del 2006. La prima disposizione - analogamente all’art. 26, comma 6, del d.lgs. n. 281 del 2008 recante norme in materia di tutela della salute e di sicurezza nei luoghi di lavoro - statuisce che: «Nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture». La seconda - nell’ambito dei criteri di verifica delle offerte anomale - dispone tra l’altro che: «Nella valutazione dell’anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell’offerta e risultare congrui rispetto all’entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture».

2.2. Il combinato disposto sopra richiamato impone, pertanto, ai concorrenti di evidenziare gli oneri economici che ritengono di sopportare al fine di adempiere esattamente agli obblighi di sicurezza sul lavoro, al duplice fine di assicurare la consapevole formulazione dell’offerta con riguardo ad un aspetto essenziale di essa e di consentire alla stazione appaltante la valutazione della congruità dell’importo destinato a tale scopo (T.A.R. Lazio Roma, sez. I , 17 ottobre 2012 n. 8522, e T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 19 febbraio 2013, n. 181).

2.3. Tali previsioni rivestono senz’altro carattere imperativo in ragione degli interessi di ordine pubblico ad esse sottese, in quanto poste a presidio di diritti fondamentali dei lavoratori (T.A.R. Calabria Catanzaro, sez. II, 14 gennaio, 2013 n. 56; Consiglio di Stato, sez. V, 29 febbraio 2012, n. 1172; sez. III, 20 dicembre 2011, n. 6677).

2.4. Pertanto, la mancanza di una specifica previsione sul punto nell’ambito della lex specialis non giustifica la mancata indicazione dei costi per la sicurezza aziendale, e ciò per il fondamentale rilievo del carattere immediatamente precettivo delle norme di legge sopra richiamate, che prescrivono di esibire distintamente tali costi, in quanto tali idonee a eterointegrare la legge speciale della singola gara (ai sensi dell’art. 1374 del c.c.) e ad imporre, in caso di loro inosservanza, l’esclusione dalla procedura (Consiglio di Stato, sez. III, 28 agosto 2012, n. 4622).

2.5. Conseguentemente, anche in difetto di una comminatoria espressa nella disciplina speciale di gara, l’inosservanza della prescrizione che impone l’indicazione preventiva dei costi di sicurezza aziendali implica la sanzione dell’esclusione, in quanto rende l’offerta incompleta in ordine ad un elemento essenziale di essa, impedendo alla stazione appaltante un adeguato controllo sull’affidabilità dell’offerta stessa (Consiglio di Stato, sez. III, 2 dicembre 2011, n. 6380). Né, al riguardo, potrebbe invocarsi il dovere di soccorso ex art. 46, comma 1 bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, poiché l’omessa specificazione degli oneri di sicurezza in questione configura un’ipotesi di “mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice” idoneo a determinare “incertezza assoluta sul contenuto dell’offerta” per difetto di un elemento essenziale di quest’ultima (T.A.R. Abruzzo Pescara, Sez. I, 5 aprile, 2013; T.A.R. Piemonte, sez. I, 12 gennaio 2012, n. 23)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 1050 del 2013

L’atto frettoloso è illegittimo? No, secondo il TAR è nullo

12 Ago 2013
12 Agosto 2013

L’atto frettoloso è nullo. Questa è stata la decisione  del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sentenza n. 7337/2013, che ha annullato un provvedimento sanzionatorio della Consob, la Commissione di vigilanza sulla borsa e gli intermediari finanziari nei confronti di una società cipriota.

Il fato riguarda una società di investimento costituita e retta secondo il diritto della Repubblica di Cipro, con sede a Limassol, autorizzata a svolgere, nel territorio della citata Repubblica, determinati servizi finanziari. Oltre ad operare nel territorio di Cipro, la ricorrente  svolgeva anche servizi di investimento all’estero, in particolare in Italia.

Per tale attività svolta dalla società ricorrente venne ordinata dal Presidente della Consob una verifica ispettiva in data 4 settembre 2012 nei confronti della succursale in Italia, al fine di : “accertare il rispetto delle regole di condotta nella prestazione dei servizi di investimento da parte della predetta succursale nonché le modalità con le quali vengono commercializzati alla clientela i servizi di investimento e accessori svolti”.

Il 10 dicembre 2012, a distanza di poco più di tre mesi dall’avvio delle operazioni la Consob chiudeva le attività ispettivi nei confronti della succursale italiana della Società cipriota. In data 21 dicembre interveniva un provvedimento con il quale la Consob ordinava alla citata succursale italiana di porre termine alle irregolarità indicate nell’atto “con riferimento all’utilizzo, per l’attività di promozione fuori sede nei confronti della clientela retail dei propri servizi di investimento, di soggetti non iscritti all’albo dei promotori finanziari ovvero, soggetti, che pur iscritti, al relativo albo, non risultavano avere la ditta ricorrente come impresa mandante”

La seconda sezione del TAR Lazio ha ritenuto che un provvedimento sanzionatorio che giunge dopo solo pochi giorni dalla chiusura dell’attività ispettiva dimostra che la parte punita non ha potuto svolgere le proprie controdeduzioni. Nella sostanza non c’è stato un contraddittorio. Tra la chiusura dell’istruttoria e il provvedimento sanzionatorio erano intercorsi undici giorni; un periodo di tempo giudicato troppo limitato.

I Giudici sono arrivati a sostenere che le due fasi “istruttoria e sanzionatoria” del procedimento amministrativo sono avvenute senza soluzione di continuità.

Il Tar si è ispirato nella pronuncia ai principi contenuti nella Legge 241/90, dove sono contenute le linee guida sulla trasparenza e i diritti di accesso agli atti della pubblica amministrazione. Nel dettaglio il Tar ha spiegato che i provvedimenti di carattere sanzionatorio devono essere svolti nel rispetto dei principi della piena conoscenza degli atti istruttori, del contraddittorio, della verbalizzazione, nonché della distinzione fra funzioni istruttorie e funzioni decisorie rispetto all’irrogazione della sanzione.

Il Tar ha sottolineato che le norme in materia di partecipazione al procedimento amministrativo non devono essere applicate meccanicamente e formalisticamente, dovendo essere invece interpretate in senso sostanziale, coordinando in modo ragionevole e sistematico  principi di legalità, imparzialità e buon andamento ed i corollari di economicità e speditezza dell’azione amministrativa.

Nel caso di specie è mancata la possibilità per la ditta ricorrente di svolgere in fatto osservazioni e controdeduzioni. Non è stata data alla ricorrente tale possibilità, con chiara lesione delle regole partecipative poste a presidio proprio della possibilità per il soggetto di concorrere ad una istruttoria nella quale trovino cittadinanza ed ascolto le ragioni delle parti coinvolte nell’azione dell’amministrazione procedente.

In sostanza l’Amministrazione in maniera apodittica ed assolutamente indimostrata si è limitata a rilevare che il provvedimento impugnato “ non è comunque annullabile in quanto il suo contenuto “non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”, in sostanza ricalcando pedissequamente la formula di cui all’art. 21 octies , comma 2, ultimo periodo della L. 241/90.

Il Tar invece ha rilevato che proprio la complessità delle questioni tecnico – giuridiche sottese all’avversato provvedimento imponevano da parte della Consob il pieno rispetto delle garanzie partecipative approntate dall’ordinamento.

Avv. Giamnartino Fontana

sentenza TAR Lazio - Roma 7337 del 2013

In materia di rimborso delle spese sanitarie sostenute dai cittadini residenti in Italia presso centri di altissima specializzazione all’estero la giurisdizione spetta al giudice ordinario

12 Ago 2013
12 Agosto 2013

Lo specifica la sentenza del TAR Veneto n. 988 del 2013.

Scrive il TAR: "Considerato preliminarmente che il Collegio ritiene fondata l’eccezione di difetto di giurisdizione, avendo le Sezioni Unite della Cassazione civile, con sentenza 6 febbraio 2009 n.2867, precisato che in materia di rimborso delle spese sanitarie sostenute dai cittadini residenti in Italia presso centri di altissima specializzazione all'estero, per prestazioni che non siano ottenibili in Italia tempestivamente o in forma adeguata alla particolarità del caso clinico (art. 5 l. 23 ottobre 1985 n. 595 e decreto del ministro della sanità 3 novembre 1989, come successivamente modificato), la giurisdizione spetta al giudice ordinario, sia nel caso in cui siano addotte situazioni di eccezionale gravità ed urgenza, prospettate come ostative alla possibilità di preventiva richiesta di autorizzazione, sia nel caso in cui l'autorizzazione sia stata chiesta e si assuma illegittimamente negata, - come nella specie- giacché viene comunque in considerazione il fondamentale diritto alla salute, non suscettibile di affievolimento per effetto della discrezionalità meramente tecnica riconosciuta alla P.A. in ordine all'apprezzamento dei presupposti per l'erogazione delle prestazioni, stabilendo che la giurisdizione ordinaria sussiste anche laddove la p.a. rigetti l'istanza, assumendo che in Italia vi sono strutture pubbliche o convenzionate in condizione di erogare il servizio per il quale si chiede il rimborso, poiché si è di fronte a valutazioni tecnico-discrezionali, che non denotano un potere di supremazia dell'amministrazione. È irrilevante, in termini di riparto della giurisdizione, che l'intervento o la cura concernano una situazione grave ovvero ordinaria; che la sig.ra C. ha richiesto l’autorizzazione a fruire di cure all’estero in quanto le terapie richieste non sono svolte in Italia, allegando dunque l’impossibilità, a suo giudizio, di trovare adeguata tutela clinica presso i centri presenti sul territorio nazionale, paventando inoltre un progressivo peggioramento delle proprie condizioni di salute. che anche questo tribunale ha affermato detto principio con decisione 23 febbraio 2010, n. 504...".

sentenza TAR Veneto 988 del 2013

I sepolcri non possono essere ceduti ai terzi: il rilascio di una procura notarile per gestire i rapporti col comune è un trucco che giustifica la revoca della concessione

08 Ago 2013
8 Agosto 2013

Continua l'esame della sentenza del TAR Campania - Napoli n. 3981 del 2013, già allegata al post che precede.

La sentenza ricorda che i cimiteri appartengono al demanio comunale e che i sepolcri sono oggetto di concrssioni amministrative, non cedibili ai terzi.

Nella sentenza si passa poi a esaminare un escamotage usato nella pratica per ovviare al divieto di cessione: il concessionario stipula un atto notarile di cessione dello jus sepulcri a un terzo, atto destinato ad avere soltanto effetti civilistici tra le due parti, senza coinvolgere il comune. Dunque per il Comune, che non viene informato della cessione, esiste soltanto l'originario c0ncessionario. Per mettere in grado l'acquuirente di gestire i rapporti col comune, l'originario concessionario rilascia una allora una procura notarile all'acquirente, il quale può relazionarsi col comune agendo in nome e per conto dell'originario concessionario, come se la cessione non fosse mai avvenuta.

Scrive il TAR: "In relazione alla presente contesa, si evidenzia come il Comune di Napoli, a seguito di indagini della Polizia Giudiziaria, abbia constatato che molteplici edicole funerarie non erano gestite dai rispettivi concessionari, ma, inaudito domino, erano stati alienati a terzi. In particolare, è risultato che con delibera di G.M. in data 23 luglio 1962 (n. 6118) veniva concessa a M. A. un’area cimiteriale in Poggioreale. .L’area è pervenuta poi a De S. A. Quest’ultim. –con atto del notaio Improta nr. 92825 del 24 febbraio 2009 ha ceduto ai De L. la posizione concessoria funeraria: come sottolinea il Comune nella sua conclusiva difesa il rogito è stato “immediatamente e contestualmente preceduto dalla stesura di una procura speciale a favore dell’acquirente, rilasciata 24 febbraio 2009. Come convincentemente osserva la difesa del Comune, Tale procura .. non potrebbe avere alcuna altra causa giuridicamente apprezzabile né alcuna utile funzione giuridico-economica laddove collegata alla compravendita…E’ evidente allora che tale procura acquista unico senso e funzione nei rapporti con l’Ente concedente. Infatti nello schema negoziale messo su fra le parti, il contratto vige tra le parti private, mentre la procura consente all’acquirente nei confronti della p.A. di operare con pienezza di poteri seppure in nome e per conto di un venditore che si è spogliato del bene (ma la p.A. non ne è a conoscenza). Premesso come sia insito nel sistema stesso concessorio che l’amministrazione debba costantemente essere messa a parte, in forma giuridica, della cessione, instaurando –se del caso– un nuovo rapporto concessorio, nella fattispecie qui da esaminare, è dirimente che l’atto notarile sia posteriore al regolamento di Polizia Mortuaria del 2006 e che, altresì, contenga l’allegata procura. Non spetta a questo giudice definire in termini completi la leggibilità di tali evenienze in ottica penalistica ovvero civilistica: resta tuttavia evidente che la cessione, per poter essere efficace doveva essere notificata secondo lo schema di cui agli articoli 1264 e 980 C.C. (altresì richiamando le forme proprie, per analogia, di cessione ex art. 69 R.D. 2440/1923) e che, in altre vicende simili, il collegamento fra atto principale e rilascio della procura sia stato considerato una machinatio. Il collegamento negoziale, infatti, fra i due atti è, secondo le più accreditate tesi sulla causa contrattuale (cfr., Corte di Cassazione – sez. IIIª civile –8 maggio 2006 n. 10490: Causa del contratto è lo scopo pratico del negozio, la sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare c.d. causa concreta) funzionale proprio al “disvelamento” della effettiva “operazione economica che le parti contraenti intendono raggiungere. Nella presente fattispecie, non sembra discutibile che, attraverso la predetta procura si sia inteso mantenere il rapporto concessorio con l’originale titolare. (Per una esemplificazione peculiare di collegamento negoziale, cfr., Cass., sez. I civ., 15 ottobre 2012, n. 17650: “Ai fini della revocatoria fallimentare di cui all'art. 67, comma 1, L. Fall., qualora venga stipulato un mutuo con concessione di ipoteca al solo fine di garantire, attraverso l'erogazione di somme poi rifluite, in forza di precedenti accordi e prefinanziamenti, per il tramite di un terzo, nelle casse della banca mutuante, una precedente esposizione dello stesso soggetto o di terzi, è configurabile fra i negozi posti in essere - prefinanziamento, mutuo ipotecario e pagamenti infragruppo - un collegamento funzionale, ed è individuabile il motivo illecito perseguito, rappresentato dalla costituzione di un'ipoteca per debiti chirografari preesistenti.”). Sul versante penalistico, in una ipotesi del tutto similare, ha osservato la Cassazione (Cass. sez. III pen., 21 gennaio 2013 nr. 3086: “..dagli atti risulta che XX ha alienato a tale YY la Cappella avuta a suo tempo in concessione dal Comune e che contestualmente alla vendita si e' fatto rilasciare dall'acquirente una procura speciale per effettuare tutte le operazioni di polizia mortuaria. Tale comportamento, ad avviso del ricorrente pubblico ministero, integra l'artifizio e il raggiro posto in essere nei confronti del Comune, perche' l'ente, continuando a trattare di fatto col venditore (comparente in prima persona per le operazioni di polizia mortuaria), non viene a conoscenza dell'illecito negozio di trasferimento del manufatto funerario (in violazione del divieto regolamentare) e non ha quindi la possibilita' di porre in essere la dovuta revoca della concessione, con l'ulteriore danno patrimoniale rappresentato dalla mancata stipula di nuova concessione con altri soggetti disposti al pagamento dei relativi oneri, mentre invece il venditore lucra ingiustamente il prezzo della cessione vietata. Il ragionamento e' corretto. Nessun dubbio che la regolamentazione amministrativa –stante la natura di rapporto di durata della concessione e la posizione di supremazia della p.A. che non si elide nel tempo– incida via via che la p.A. la modifica.”). In tutte le fattispecie in cui, come la presente, i relativi atti notarili sono stati rogati dopo il 2006, non si pone peraltro –ad avviso del Tribunale– alcuna questione di retroattività, ma solo di adeguamento alla disciplina amministrativa vigente –che sempre continua a connotare il diritto acquisito con la concessione – in base al generalissimo criterio tempus regit actum. Perspicua, in argomento, la pronuncia del superiore giudice amministrativo ove ha affermato: “In termini generali, questa Sezione, in coerenza con gli indirizzi consolidati del giudice ordinario, ha costantemente affermato che lo "ius sepulchri", ossia il diritto, spettante al titolare di concessione cimiteriale, ad essere tumulato nel sepolcro, garantisce al concessionario ampi poteri di godimento del bene e si atteggia come un diritto reale nei confronti dei terzi. Ciò significa che, nei rapporti interprivati, la protezione della situazione giuridica è piena, assumendo la fisionomia tipica dei diritti reali assoluti di godimento. Tuttavia, laddove tale facoltà concerna un manufatto costruito su terreno demaniale, lo ius sepulchri costituisce, nei confronti della pubblica amministrazione concedente, un "diritto affievolito" in senso stretto, soggiacendo ai poteri regolativi e conformativi di stampo pubblicistico.
In questa prospettiva, infatti, dalla demanialità del bene discende l'intrinseca "cedevolezza" del diritto, che trae origine da una concessione amministrativa su bene pubblico” (Consiglio Stato, sez. V, 14 giugno 2000, n. 3313). Questo consolidato indirizzo interpretativo ha puntualmente specificato che, come accade per ogni altro tipo di concessione amministrativa di beni o utilità, la posizione giuridica soggettiva del privato titolare della concessione tende a recedere dinnanzi ai poteri dell'amministrazione in ordine ad una diversa conformazione del rapporto. Si tratta, in sostanza, di una posizione soggettiva che trova fonte, se non esclusiva, quanto meno prevalente nel provvedimento di concessione. … E' quindi indubbio che il rapporto concessorio debba rispettare tutte le norme di legge e di regolamento emanate per la disciplina dei suoi specifici aspetti. In particolare, lo "ius sepulchri" attiene ad una fase di utilizzo del bene che segue lo sfruttamento del suolo mediante edificazione della cappella e che soggiace all'applicazione del regolamento di polizia mortuaria. Questa disciplina si colloca ad un livello ancora più elevato di quello che contraddistingue l'interesse del concedente e soddisfa superiori interessi pubblici di ordine igienico-sanitario, oltre che edilizio e di ordine pubblico. Non è persuasiva, allora, l'affermazione del ricorrente in primo grado, secondo cui, una volta costituito il rapporto concessorio, questo non potrebbe essere più assoggettato alla normativa intervenuta successivamente, diretta a regolamentare le concrete modalità di esercizio del ius sepulchri, anche con riferimento alla determinazione dall'ambito soggettivo di utilizzazione del bene. Non è pertinente, quindi, il richiamo al principio dell'articolo 11 delle preleggi, in materia di successione delle leggi nel tempo, dal momento che la nuova normativa comunale applicata dall'amministrazione non agisce, retroattivamente, su situazioni giuridiche già compiutamente definite e acquisite, intangibilmente, al patrimonio del titolare, ma detta regole destinate a disciplinare le future vicende dei rapporti concessori, ancorché già costituiti.” (CdS V, 8 marzo 2010 n. 1330)".

I cimiteri appartengono al demanio comunale e i sepolcri sono oggetto di concessione amministrativa

08 Ago 2013
8 Agosto 2013

La sentenza del TAR Campania - Napoli n. 3981 del 2013 contiene una interessante ricostruzione giuridica dello jus sepulcri.

Lo jus sepulcri

Va premessa una ricostruzione breve dello jus sepulcri. Il diritto al sepolcro intorno al quale è causa costituisce in generale, secondo dottrina e giurisprudenza, istituto complesso, scomponibile in più fattispecie: si distingue anzitutto un diritto primario al sepolcro, inteso come diritto ad essere seppellito ovvero a seppellire altri in un determinato sepolcro, diritto distinto a sua volta in sepolcro ereditario e sepolcro familiare o gentilizio; si distingue ancora un diritto sul sepolcro inteso in senso stretto, come diritto sul manufatto che accoglie le salme; si identifica infine, ed è un accessorio dei due precedenti, un diritto secondario al sepolcro inteso come diritto di accedervi fisicamente e di opporsi ad ogni atto che vi rechi oltraggio o pregiudizio (per la distinzione fra diritto primario al sepolcro e diritto sul manufatto, si veda per tutte la motivazione di Cass. civ. sez. III 15 settembre 1997 n 919).

La normativa in materia

Sempre in generale, va affermato, che, anche prima dell'entrata in vigore del codice del 1942, i cimiteri erano beni di proprietà comunale, come tali in linea di principio non liberamente disponibili; di conseguenza la costituzione di cappelle private nell'ambito degli stessi si configurava pacificamente non come cessione del relativo spazio ad un privato acquirente, ma come concessione dello stesso. Sul punto specifico, una norma nazionale espressa fu introdotta con l'art. 71 del R.D. 21 dicembre 1942 n. 1880 (G.U. 16 giugno 1943), sostitutivo di un regolamento del 1892, secondo il quale la cessione a terzi delle tombe di famiglia era consentita se non "incompatibile con il carattere del sepolcro" e "sempre che i regolamenti comunali ed i singoli atti di concessione non dispongano altrimenti". Il regolamento del 1942 fu poi superato poi dal D.P.R. 21 ottobre 1975 n. 803 (G.U. 26 gennaio 1976), che all'art. 94 innovò prevedendo un divieto assoluto di cessione, nel senso che "Il diritto di uso delle sepolture private è riservato alla persona del concessionario ed a quelle della propria famiglia ovvero alle persone regolarmente iscritte all'ente concessionario, fino a completamento della capienza del sepolcro": divieto confermato dall'identico primo comma dell'art. 93 del D.P.R. 10 settembre 1990 n. 285 (G.U. 12 ottobre 1990), succeduto al precedente. Tale regime giuridico è comprovato dall'art. 824 comma secondo del codice civile del 1942 secondo il quale i cimiteri comunali sono soggetti senz'altro al regime giuridico del demanio pubblico, e quindi sono in primo luogo inalienabili ai sensi dell'art. 823 c.c. comma primo, prima parte. In tal modo il codice civile ha introdotto una conformazione generale delle aree cimiteriali, e quindi dei relativi diritti, che non fa in alcun modo salve le situazioni preesistenti: ne consegue che la natura semplicemente concessoria del diritto di sepolcro andrebbe, in tesi, tenuta attualmente ferma anche se per ipotesi fosse stata esclusa dal regime previgente. In termini riassuntivi, la cessione di un diritto di sepoltura privata, anche qualora consentita, non si può configurare come una semplice alienazione da privato a privato, ma richiede –e tale è un punto dirimente della presente vicenda– l'intervento dell'autorità concedente. Ciò risulta anzitutto dai principi in tema di concessioni, che nei rapporti fra privati sono fonte di diritti soggettivi perfetti, i quali però degradano a diritti affievoliti nei rapporti con la p.a. (così, ex pluris, Cass. civ. sez. II, 25 maggio 1983 n. 3607). Risulta inoltre anche da un esplicito dato normativo, pur riferito ad una norma non più vigente, ovvero dal già citato art. 71 del R.D. 21 dicembre 1942 n. 1880, che nel disciplinare la vicenda traslativa del diritto di sepolcro, allora consentita, configurava –significativamente– l'acquirente come "nuovo concessionario" e prevedeva la possibilità di un "veto" del Comune alla cessione.

Il regime giuridico della concessione cimiteriale

Su queste premesse, è agevole ricostruire i dicta giurisprudenziali in materia che si sostanziano nella affermazione secondo cui la cessione di un diritto al sepolcro, tanto nel suo contenuto di diritto primario di sepolcro quanto nel suo contenuto di diritto sul manufatto, va in astratto configurata come voltura di concessione demaniale, sottoposta al requisito di efficacia della autorizzazione del concedente, ovvero del Comune: in tali termini  esplicitamente la Cass. civ. sez. IIª 25 maggio 1983 n. 3607, nonché TAR Calabria 26 gennaio 2010 n. 26 TAR Sicilia Catania, sez. IIIª 24 dicembre 1997 n. 2675 e T.A.R. Puglia Bari, sez. Iª 1 giugno 1994 n. 989; Tar Lombardi/Brescia 30 aprile 2010 n. 1659. L'autorizzazione, a sua volta, si sostanzia in "un nuovo esercizio del potere discrezionale dell'ente concedente di attribuire la concessione a terzi" (T.A.R. Puglia Bari, sez. Iª 1 giugno 1994 n. 989), e come tale, deve di necessità seguire il regime giuridico vigente nel momento in cui essa deve essere pronunciata: in altri termini, si potrà rilasciare solo se in quel dato momento la concessione è, alla stregua dell'ordinamento, considerata cedibile. Coglie dunque con precisione la “doppia” natura della posizione del privato il superiore giudice amministrativo quando afferma: Il diritto sul sepolcro già realizzato è un diritto soggettivo perfetto di natura reale assimilabile al diritto di superficie, suscettibile di possesso e soprattutto di trasmissione sia "inter vivos" che per via di successione "mortis causa", e come tale opponibile agli altri privati, atteso che lo stesso nasce da una concessione amministrativa avente natura traslativa di un'area di terreno o di una porzione di edificio in un cimitero pubblico di carattere demaniale; peraltro nei confronti della p.a. tale diritto è suscettibile di affievolimento, degradando ad interesse legittimo, nei casi in cui esigenze di pubblico interesse, per la tutela dell'ordine e del buon governo del cimitero, impongano o consiglino all'Amministrazione di esercitare il potere di revoca della concessione (Consiglio di Stato – sez. Vª – 26 giugno 2012 nr. 3739).

Nel post che segue verranno esaminate le conseguenze di questo sul trasferimento del sepolcro a terzi.

TAR Campania - Napoli 3981 del 2013

L’attività cinotecnica amatoriale si può fare in zona agricola?

07 Ago 2013
7 Agosto 2013

Il TAR Veneto dice di si.

IL TAR Veneto, sezione seconda, con l’ordinanza n. 382 dell’1 agosto 2013, infatti, ha respinto la domanda di sospensione cautelare di un permesso di costruire in sanatoria, rilasciato per alcuni manufatti in zona agricola, funzionali all'esercizio dell'attività cinotecnica amatoriale di allevamento di cani di razza rottweiller.

Il TAR, premettendo prudenzialmente che le sue considerazioni si basano su  un primo esame tipico della fase cautelare, così motiva il provvedimento:

-          Ritenuto che (…) l’attività di allevamento sopra citata, non appare raggiungere le dimensioni per poter essere considerata un’attività d’impresa, circostanza quest’ultima che consente di ritenere non applicabile le prescrizioni di cui all’art. 44 L. Reg. 11/2004.”; il riferimento deve intendersi, in particolare, ai commi 1, 2 e 3 dell’art. 44, invocati dal ricorrente per sostenere che la tesi che l’interessato dovesse avere i requisiti di ordine soggettivo (qualifica di imprenditore agricolo) e oggettivo (Piano aziendale) per costruire questo tipo di manufatti;

-          Considerato che la stessa natura amatoriale e non professionale di detta attività è stata confermata anche dall’azienda USLL così come desumibile dall’esame del provvedimento impugnato, circostanza quest’ultima che consente di escludere anche il difetto di istruttoria lamentato dai ricorrenti.”; si ricorda che, ai sensi del combinato disposto dell’art. 2, comma 3, della L. 349/1993 e del DM 28.1.1994, n. 193200, non sono imprenditori agricoli gli allevatori che tengono in allevamento un numero inferiore a cinque fattrici e che annualmente producono un numero di cuccioli inferiore alle trenta unità. Questi parametri numerici sono stati presi in considerazione anche dall’allegato  A alla DGRV 272 del 6.2.2007, che definisce come allevamento di cani e gatti per attività commerciale: la detenzione di cani e gatti, anche ai fini commerciali, in numero pari o superiori a 5 fattrici o 30 cuccioli per anno;

-          Ritenuto che non appare sussistere nemmeno il secondo vizio dedotto dalle parte ricorrenti, in quanto riferito alla natura abusiva della realizzazione di gabbie, pavimentazioni e percorsi, manufatti questi ultimi che, in quanto privi di copertura, appaiono non determinare la creazione di volume.

   Dario Meneguzzo

     ordinanza TAR Veneto 382 del 2013

Indennizzo una tantum avente carattere assistenziale previsto dalla legge 25 febbraio 1992, n. 210: la giurisdizione spetta al giudice amministrativo o ordinario?

07 Ago 2013
7 Agosto 2013

Nel post pubblicato ieri davamo conto della sentenza della III sezione del TAR Veneto, n. 966 del 2013, estensore Mielli, depositata il 22 luglio 2013, che affermava la giurisdizione del giudice amministrativo.

Peraltro la sentenza della III sezione del TAR Veneto n. 983 del 2013, estensore Morgantini, depositata il 24 luglio 2013, afferma il contrario, vale a dire che la giurisdizione spetta al giudice ordinario, trattandosi di diritti soggettivi.

Evidentemente relatori differenti vedono la questione in modo diverso, ma si tratta pur sempre della stessa sezione dello stesso TAR, cosicchè ci si aspetterebbe un coordinamento.

sentenza TAR Veneto 983 del 2013

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