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Quando la modifica di un impianto di trattamento dei rifiuti esistente corrisponde ad un nuovo impianto?

24 Giu 2014
24 Giugno 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 18 giugno 2014 n. 863 chiarisce quando la modifica di un impianto per lo smaltimento ed il trattamento dei rifiuti già esistente corrisponde alla creazione di un nuovo impianto: “Per quanto concerne gli impianti di trattamento dei rifiuti l’art. 49 del piano d’area, mediante apposite direttive, fissa degli obiettivi che devono essere raggiunti in sede di pianificazione provinciale e comunale, demandando agli enti locali di indicare i criteri o gli ambiti per la loro localizzazione e rilocalizzazione.

Con prescrizioni e vincoli immediatamente precettivi dispone inoltre che “nuovi impianti di trattamento e smaltimento dei rifiuti non possono essere ubicati in fregio e all’interno: a) degli ambiti di interesse naturalistico - ambientale; b) delle zone archeologiche; c) delle aree di risorgiva e dei punti di presa dell’acqua potabile; d) dell’ambito prioritario della protezione del suolo” facendo salvo “in ogni caso quanto già autorizzato alla data di adozione del presente piano” e con l’ulteriore specificazione che “eventuali ampliamenti delle discariche esistenti devono essere motivati e realizzati in modo tale che la sistemazione finale comporti un miglioramento significativo dell’ambiente circostante”.

Nel caso all’esame l’impianto ricade all’interno dell’ambito di protezione del suolo.

Si tratta di un ambito territoriale per il quale l’art. 51 del piano d’area pone forme particolari di tutela finalizzate ad evitare modificazioni della giacitura dei terreni e delle caratteristiche fisiche dei suoli e la loro impermeabilizzazione, a facilitare l’infiltrazione delle acque superficiali garantendone la massima permeabilità, e per le quali sono vietati l’impermeabilizzazione di estese superfici e l’uso, in linea di massima, di fitofarmaci e diserbanti nella manutenzione del verde, mentre sono consentiti lavori di miglioria fondiaria a condizione del rispetto delle suddette finalità.

Poste tali premesse, ed in mancanza di una definizione normativa di “nuovo impianto”, il Collegio ritiene condivisibili le conclusioni cui è giunta la Provincia circa la necessità di utilizzare un criterio di carattere sostanzialistico nel definire la tipologia di interventi che ricadono nel divieto.

Infatti tale criterio è quello che risulta coerente con le finalità di tutela dell’ambito di protezione del suolo dato che le modifiche agli impianti esistenti possono essere talmente importanti da costituire un nuovo progetto, e per la loro natura, dimensione o ubicazione, possono risultare idonei a produrre un impatto sull' ambiente del tutto equivalente ad un nuovo impianto, e sarebbe contrario agli obiettivi del piano sottrarre dal suo campo di applicazione queste modifiche.

Peraltro nella materia ambientale, per non frustrare il raggiungimento degli obiettivi di tutela, di norma le modifiche sostanziali ad un impianto sono equiparate ad un nuovo impianto.

Rispetto all’ordinamento comunitario, ad esempio, si è ritenuto in via interpretativa che la procedura di valutazione di impatto ambientale dovesse essere svolta anche rispetto a modifiche di opere esistenti, nonostante l’allegato II della direttiva 85/337 CEE nel testo originario non si riferisse esplicitamente anche alle modifiche dei progetti ivi elencati (cfr. CGCE sentenza resa nella causa C – 72/95 del 24 ottobre 1996).

La normativa nazionale all’art. 208 del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, assoggetta alle procedure per nuovi impianti le varianti sostanziali in corso d'opera o di esercizio che comportino modifiche a seguito delle quali gli impianti non sono più conformi all'autorizzazione rilasciata, e all’art. 5 definisce come modifica sostanziale di un progetto, di un’opera o di un impianto “la variazione delle caratteristiche o del funzionamento ovvero un potenziamento dell'impianto, dell'opera o dell'infrastruttura o del progetto che, secondo l'autorità competente, producano effetti negativi e significativi sull'ambiente”.

Allo stesso modo anche la legislazione regionale ricorre ad un criterio di carattere sostanzialistico quando, all’art. 23, comma 6, della legge regionale 21 gennaio 2000, n. 3, assoggetta alla procedura prevista per nuovi impianti le varianti sostanziali in corso di esercizio che comportino modifiche per cui gli impianti non siano più conformi all’autorizzazione rilasciata, con la sola esclusione delle varianti che non riguardino il processo tecnologico e non comportino modifiche ai quantitativi di rifiuti recuperati o smaltiti.

Pertanto, poiché manca una definizione normativa di “nuovo impianto” o di “modifica di un impianto esistente” nel piano d’area, appare corretta l’interpretazione che ricorre al criterio sistematico e teleologico, secondo la quale restano assoggettate alla disciplina prevista per nuovi impianti, anche le modifiche di impianti esistenti che per la loro natura, dimensione o ubicazione producano effetti sull'ambiente equivalenti a quelli di un nuovo impianto, dato che altrimenti un qualsiasi impianto potrebbe, di modifica in modifica, espandersi senza limiti, vanificando la portata precettiva e le finalità di salvaguardia della norma del piano d’area.

1.2 In senso contrario non possono essere valorizzate le considerazioni svolte dalla parte ricorrente circa l’erroneità di un esito interpretativo il cui effetto le impedirebbe di realizzare interventi di sviluppo ed ampliamento della propria attività, da ritenersi connaturati ad ogni attività di impresa.

Infatti l’introduzione di restrizioni alla facoltà di apportare modifiche agli impianti esistenti, limitandole agli interventi necessari a mantenerne la funzione in atto (ed in effetti la Provincia ha autorizzato, non ritenendole incompatibili con l’art. 49 del piano, l’accorpamento delle tre diverse autorizzazioni, la realizzazione della raccolta e della gestione delle acque interne, e la realizzazione delle tettoie relative alla copertura dei rifiuti già autorizzati, contenuti in container), appare conforme al principio giurisprudenziale secondo cui deve ritenersi ammissibile una disciplina che produce effetti conformativi per il futuro.

In tal modo non vengono infatti messi in discussione né l’intangibilità delle attività e delle opere poste in essere in conformità della disciplina previgente che mantengono la loro precedente e legittima destinazione, né il correlato principio che la cessazione di attività in essere può essere disposta solo sulla base di atti a contenuto espropriativo (con riferimento alla disciplina urbanistica, ex pluribus, cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 21 giugno 2013, n. 3429), e si incentiva al contempo la delocalizzazione di un impianto, la cui presenza è giudicata incompatibile con la tutela di interessi pubblici ritenuti prevalenti”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 863 del 2014

L’interesse al ricorso deve essere serio ed effettivo

24 Giu 2014
24 Giugno 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 18 giugno 2014 n. 864, conferma che l’interesse al ricorso deve essere concreto ed attuale perché: “In secondo luogo va dichiarata l’inammissibilità, per carenza di interesse, dell’impugnazione con i motivi aggiunti del provvedimento di annullamento in autotutela.

Infatti l’interesse che sorregge il ricorso deve essere concreto ed attuale, perché il rimedio di carattere giurisdizionale non può essere azionato al solo fine di ottenere una pronuncia di principio finalizzata ad un utilizzo ipotetico, futuro ed eventuale (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 7 giugno 2012, n. 3365; id. 22 novembre 2011, n. 6151), né è possibile chiedere la tutela giurisdizionale avverso atti favorevoli alla propria posizione giuridica che non sono lesivi, al solo fine di chiedere una modifica della motivazione (cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. I, 10 febbraio 2004, n. 2007).

Pertanto, poiché nel caso di specie la parte ricorrente intende far valere solamente in astratto l’idoneità del sito all’insediamento di un esercizio di somministrazione (cfr. pag. 3 della memoria conclusiva del 18 aprile 2014), i motivi aggiunti devono essere dichiarati inammissibili per carenza di interesse”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 864 del 2014

L’ottemperanza non vale per le sentenze di rigetto

24 Giu 2014
24 Giugno 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 18 giugno 2014 n. 859, chiarisce che il giudizio di ottemperanza non si applica alle sentenze di rigetto, ma solo a quelle di accoglimento: “Infatti per orientamento ripetutamente seguito dal Consiglio di Stato (VI n° 1675 del 2013) e dal quale il Collegio non ha ragione di discostarsi, “il ricorso per l’esecuzione del giudicato – strumento processuale previsto dall’ordinamento per l’esecuzione coattiva delle pronunce passate in giudicato – non è utilizzabile per l’esecuzione delle pronunce di rigetto, anche in mancanza di un’espressa regola che circoscriva l’ottemperanza alle sole decisioni di accoglimento” (in tal senso Cons. Stato, VI, 13 dicembre 2001, n. 6532; cfr., inoltre, Cons. Stato, VI, 1° settembre 2009, n. 5114).

E’ stato, infatti, chiarito, a tale riguardo, che, relativamente alle decisioni del giudice amministrativo, sono le statuizioni preordinate ad una pronuncia di accoglimento a far nascere per l’amministrazione destinataria un obbligo di ottemperanza, che può dirsi adempiuto solo se vengono posti in essere atti completamente satisfattivi rispetto a quelle statuizioni.

Viceversa, la pronunce di rigetto lasciano invariato l’assetto giuridico dei rapporti precedente alla radicazione del giudizio.

Ne consegue che parte ricorrente, se vuole tutelare le proprie ragioni,

- deve inviare all’ente parco nuova istanza a provvedere che non faccia riferimento alla necessaria esecuzione di una sentenza, ma semplicemente alla circostanza che l’amministrazione è obbligata ad adottare i provvedimenti di propria competenza ai sensi dell’art. 2 della legge n° 241 del 1990;

- potrà successivamente agire in giudizio avverso il silenzio dell’amministrazione od impugnare l’eventuale provvedimento di rifiuto di provvedere. Non sarà invece ammessa azione di ottemperanza della presente sentenza, che è una sentenza con cui viene dichiarata l’inammissibilità del ricorso.

La circostanza che la provincia di Padova si stia attualmente interessando per il ripristino della vicina strada provinciale non può essere motivo di diniego a provvedere da parte dell’ente parco, ma semmai motivo per un’eventuale coordinamento degli interventi”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 859 del 2014

I parcheggi obbligatori non sono soggetti al pagamento del contributo di costruzione

23 Giu 2014
23 Giugno 2014

Il T.A.R. Puglia, Bari, sez. III, nella sentenza del 18 giugno 2014 n. 756 chiarisce che la realizzazione dei c.d. parcheggi obbligatori, ai sensi della L. n. 122/1989 ed ai sensi degli artt. 3 e 5 del D.M. 144/1968, non comporta il pagamento del contributo di costruzione: “Con le sentenza sovra citate è stato infatti affermato che “Ai sensi delle 1. n. 10 del 1977 e n. 122 del 1989, in sede di rilascio della concessione edilizia, non sono assoggettabili al contributo commisurato al costo di costruzione e agli oneri di urbanizzazione i parcheggi c.d. obbligatori fissati dall'art. 41-sedes della 1. n. 1150 del 1942.

Infatti, la 1. 24 marzo 1989 n. 122 (c.d. legge Tognoli), recante disposizioni in materia di parcheggi, dispone (art. 11 comma 1) che le opere e gli interventi da essa previsti « costituiscono opere di urbanizzazione anche ai sensi dell'art. 9 comma 1 lett. f), della 1. 28 gennaio 1977 n. 10 », e dunque non sono soggetti a contributo concessorio (ex multis T.A.R. Lombardia Milano, sez. Il, 17 aprile 2007, n. 1779).>>.

In particolare, il Consiglio di Stato – con la pronuncia n. 6154/2011 – ha affermato che <<per pacifica e risalente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato la realizzazione dei parcheggi obbligatori è esonerata dall'onere di pagamento del contributo di urbanizzazione. (Consiglio Stato , sez. V, 14 ottobre 1992 , n. 987) mentre di converso si è rilevato che i parcheggi costruiti in aree private per libera scelta speculativa di un imprenditore rappresentano una modificazione edilizia del territorio realizzata su domanda del soggetto interessato, assimilabile a tutte le altre forme di edificazione soggette a concessione e ai relativi oneri. (Consiglio Stato , sez. V, 22 dicembre 2005 , n. 7344).>>, specificando che la circostanza che il parcheggio << sia stato dimensionato in ottemperanza alle prescrizioni di cui agli artt. 22 e 56 e delle NTA al Prg comunale non può certo valere ad escludere il nesso di pertinenzialità, ricadendosi altrimenti nell’incomprensibile aporia per cui la esenzione prescritta dalla legge non potrebbe mai trovare applicazione salva la ipotesi in cui il progetto non fosse conforme alle precitate norme d’attuazione. Invero la disposizione di legge ricollega alla realizzazione dei parcheggi pertinenziali la esenzione dal contributo di concessione; è ovvio che nella realizzazione dei medesimi ci si debba rifare alle disposizioni pianificatorie generali dettate dai comuni, ma non può trarsi argomento dal rispetto di queste ultime per negare l’applicabilità della prevista esenzione.>>.

Va rilevato che la circostanza che la vicenda per cui è causa si sia svolta ( a differenza di quelle di cui alle sentenze sopra richiamate) nel periodo in cui è entrato in vigore l’art. 17 del DPR n.380/01, non muta i termini della questione, non essendovi alcuna differenza di disciplina di tale disposto rispetto alle norme richiamate nelle suddette sentenze (che sono state trasfuse nel T.U. dell’edilizia)”.

Il Collegio inoltre stabilisce che il ritardato pagamento di questa somma, seppur garantito da una fideiussione, legittima l’ente ad applicare le sanzioni connesse alla mora: “Invero, come ha chiarito la prevalente e preferibile giurisprudenza ( cfr. da ultimo Cons. St. Sez. IV n. 731/2014 e precedenti ivi richiamati) in materia di obbligazioni pecuniarie, il creditore è soltanto facultato ad attivare la solidale responsabilità del fideiussore, senza che possa invece ritenersi tenuto ad escutere il coobbligato piuttosto che attendere il pagamento, ancorché tardivo (salva l'esistenza di apposita clausola in tal senso). Ne consegue che legittimamente l’amministrazione, nell'applicare la sanzione prevista dall'art. 3 comma 2 lett. a), L. n. 47/1985, per ritardato pagamento degli oneri di urbanizzazione, non ha proceduto, prima dell'applicazione delle sanzioni, alla preventiva richiesta alla banca garante, obbligatasi a pagare quanto dovuto dietro semplice richiesta scritta.

In particolare, (cfr. TAR Salerno Sez. 2° n. 552/2014) “il fatto che l’obbligazione avente a oggetto i contributi concessori sia assistita da garanzia fideiussoria, anche quando questa contempli il pagamento a semplice richiesta e l’esclusione del beneficio della preventiva escussione, non comporta affatto un dovere del Comune di chiedere prima l’adempimento anche al fidejussore per poter poi applicare le relative sanzioni pecuniarie; un tale dovere, in particolare, non può farsi discendere dal richiamo agli obblighi di correttezza e buona fede di cui all’art. 1227 cod. civ., norma che risulta del tutto inconferente alla fattispecie, essendo riferibile solo alle obbligazioni di carattere risarcitorio e non a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura sanzionatoria, come nel caso in esame (cfr. Cons. Stato, sez. V, 24 marzo 2005, nr. 1250; id., 11 novembre 2005, nr. 6345; id., 16 luglio 2007, nr. 4025)””. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Bari n. 756 del 2014

Il Comune condannato a risarcire il danno morale per avere illegittimamente negato a un disabile l’installazione di una piattaforma elevatrice

23 Giu 2014
23 Giugno 2014

Segnaliamo la sentenza del tribunale di Vicenza n. 775 del 2014, che condanna un Comune a risarcire il danno morale a una persona disabile, alla quale era stato illegittimamente negata l'installazione di una piattaforma elevatrice, motivata col mancato rispetto delle disposizioni sulla larghezza minima delle scale condominiali. 

sentenza T. Vicenza 775 del 2014

La “sanatoria” ex art. 38 DPR 380/2001 non vale solo per i vizi formali e non richiede la doppia conformità

23 Giu 2014
23 Giugno 2014

L'articolo 38 del DPR 380/2001 disciplina gli interventi eseguiti in base a permesso annullato e stabilisce che: "In caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale. La valutazione dell'agenzia e' notificata all'interessato dal dirigente o dal responsabile dell'ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa".

La sentenza del TAR Veneto 776 del 2014 esamina un caso nel quale il titolo edilizio era stato annullato per contrasto con le NTA vigenti al momento del suo rilascio, ma l'opera eseguita sulla base del titolo è stata lo stesso fatta salva dal comune, perchè conforme alla normativa sopravvenuta (le nto del P.I.). Il dubbio sulla necessità di richiedere il requisito della doppia conformità (rispetto della normativa vigente sia al momento della realizzazione dell'opera sia  al momento della "sanatoria") può nascere dal fatto che il comma 2 dello stesso articolo 38 stabilisce che: "L'integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all'articolo 36".

Il TAR però esclude che il richiamo all'articolo 36 attragga anche i presupposti dell'articolo 36 per potere applicare l'articolo 38: "2.3.2.) Il Collegio al riguardo non condivide l'assunto che la rimozione dei vizi sarebbe possibile solo allorché essi siano di carattere formale, dato che l’art. 38 nulla dice al riguardo e che tale norma costituisce una normativa di favore che differenzia sensibilmente la posizione di colui che abbia realizzato l'opera abusiva sulla base di un titolo annullato, rispetto a coloro che hanno realizzato opere abusive senza alcun titolo, tutelando l'affidamento del privato a poter conservare l'opera realizzata. In tal senso si è espressa anche l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 23 aprile 2009, n. 4, laddove afferma che "l'ipotesi di opere abusive realizzate in base a concessione annullata, a seguito di pronuncia giurisdizionale, non costituisce propriamente una tipologia di abuso", perché assentite da un atto rilasciato dalla stessa amministrazione. Infatti in colui che si vede annullare il titolo abilitativo rilasciato dall'Amministrazione, a volte dopo diversi anni, come nella fattispecie, si è ingenerato un affidamento causato dal lungo lasso di tempo trascorso e, nel caso della trattoria di parte controinteressata, anche dalla sentenza favorevole del TAR Veneto nel 2004. Ne consegue che, in seguito all'annullamento di un titolo abilitativo edilizio, "l'Amministrazione non può dirsi vincolata ad adottare misure ripristinatorie, dovendo, anzi, tale scelta, tipicamente discrezionale, essere adeguatamente motivata, privilegiando, ogni volta che ciò sia possibile, la riedizione del permesso di costruire emendato dai vizi riscontrati" (TAR Bari, Puglia, sez. III n. 187 del 13.01.2012; C.S., Sez. IV, sent. n. 7731 del 02-11-2010).

2.3.3) Nel caso che ci occupa il Comune ha evidentemente ritenuto che sussistesse la possibilità di rimuovere i vizi e quindi di emendare il titolo annullato dal Consiglio di Stato perché, come già ricordato, il 13 marzo 2012 era entrato in vigore il Piano degli Interventi, che colloca l'edificio in zona per la quale la destinazione d'uso U3 - pubblici esercizi (art. 13 N.T.O.) risulta ammessa senza limitazioni; l'utilizzo stagionale della terrazza, situata al piano primo, ad attività di ristorazione è ora conforme allo strumento urbanistico, superando così il motivo per cui il Consiglio di Stato ha annullato il silenzio assenso formatosi sulla DIA.. 

2.3.4) Per quanto riguarda la c.d. sanatoria giurisprudenziale del montavivande il Collegio ritiene che, a prescindere dal fatto che non
risulta nemmeno chiaro quale sia l’interesse di parte ricorrente a censurare tale previsione, l’amministrazione risulta aver fatto ricorso ad una specifica norma regolamentare che non appare di per sé in violazione di legge, dato che proprio la tenuità della modifica operativa assentita dimostra nel caso di specie quanto sia illogico e antieconomico ritenere obbligatoria l’adozione di una misura ripristinatoria, comunque superabile con una nuova riproposizione della domanda".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto 766 del 2014

Documento preliminare per aggiornamento del Piano di gestione del distretto idrografico delle Alpi Orientali

20 Giu 2014
20 Giugno 2014

Il Segretario Generale dell'Autorità di bacino in data odierna pubblica sul sito internet il documento preliminare per aggiornamento del Piano di gestione del distretto idrografico delle Alpi Orientali.

Documento preliminare

La normativa in materia di terre e rocce da scavo

20 Giu 2014
20 Giugno 2014

Il T.A.R. Lazio, Roma, sez. II bis, nella sentenza del 10 giugno 2014 n. 6187, si occupa di numerose questioni in materia di terre e rocce da scavo che verranno riportate nei seguenti post.

Le questioni, in particolare, vertono sul contenuto e sull’interpretazione del Decreto del Ministero dell’Ambiente del Territorio e del Mare del 10.08.2012 n. 161, con cui sono stati stabiliti i criteri qualitativi e quantitativi da soddisfare affinché i materiali da scavo possano essere utilizzati come sottoprodotti, sulla base delle condizioni previste dall’art. 184-bis del D. Lgs. n. 152/2006.

 Innanzitutto i Giudici si soffermano sulla disciplina delle terre e rocce da scavo succedutasi nel tempo: “Le terre e rocce da scavo – ovvero come è evincibile dalla stessa dizione letterale, provenienti da escavazione - in un primo tempo risultavano escluse dall’applicazione del d.lgs. n. 22 del 1997 (c.d. decreto Ronchi) ai sensi dell’art. 10 della l. 93 del 2001, successivamente confermato dall’art. 1 commi 17, 18 e19, l. n. 443 del 2001 (c.d. legge Lunardi).

Con la legge comunitaria n. 306 del 2003 all’art. 23 (disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee) in modifica all’art. 1 della 443/01, erano definite le condizioni per tale esclusione delle terre e rocce da scavo dalla materia dei rifiuti; in particolare, prevedendosi a tal fine che il loro riutilizzo sia “certo ed autorizzato secondo le modalità previste dal progetto di VIA o, in mancanza, secondo le indicazioni date dalle competenti autorità amministrative”.

L’esclusione delle terre e rocce di scavo dalla materia dei rifiuti veniva in seguito regolamentata dall’art. 186 del d.lgs. 152 del 2006.

Lo stesso decreto d.lgs 4 del 2008 (correttivo del d.lgs 152/06), entrato in vigore il 13 febbraio 2008, consentiva di escludere dalla disciplina sui rifiuti le terre e rocce da scavo non provenienti da siti contaminati, purché destinate a determinate e previste utilizzazioni, da inserire preventivamente nei progetti approvati. La novella introdotta dal d.lgs. n. 205 del 2010, in attuazione della direttiva 2008/98/CE, modificava il precedente testo normativo, in particolare introducendo gli artt. 184 bis e 184 ter al d.lgs. n. 152.

L’art. 184 bis, richiamato anche dall’art. 183 comma 1, lett. “qq”, infatti, definisce il concetto di sottoprodotto, ponendo le condizioni essenziali affinché un materiale possa essere classificato in tal senso.

L’art. 184 ter, d’altro canto, nel definire la cessazione della qualifica di rifiuto, stabilisce i termini da soddisfare affinché ciò accada, fissando il presupposto che il materiale sia stato sottoposto ad una operazione di recupero e abbia di conseguenza acquisito caratteristiche effettive di utilizzabilità e collocabilità sul mercato.

Il d.l. n 1 del 2012, convertito dalla l. 24 marzo 2012 n. 27, all’art. 49 ha previsto l’emanazione entro 60 gg. del d.m. di armonizzazione della disciplina di riferimento, di cui si verte, con l’art. 184 bis sui sottoprodotti, con la contemporanea abrogazione dell’art. 186 del d.lgs. 152 del 2006.

Il Regolamento è entrato in vigore il 6 ottobre 2012.

II - In primo luogo, dunque, risulta necessario definire l’ambito di applicazione del decreto impugnato, ad esito delle modifiche legislative intervenute per effetto dell’art. 8 bis, l. n. 71 del 2013 ed, in particolare, del d.l. 21 giugno 2013 n. 69, al fine di delimitare l’oggetto della presente controversia.

In vero, l’art. 49, del d.l. 24 gennaio 2012 n. 1 disponeva che “….L’utilizzo delle terre e rocce da scavo è regolamentato con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti da adottarsi entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto”.

In sede di conversione, la legge n. 27 del 2012, modificava detto articolo nei seguenti termini:

- “L'utilizzo delle terre e rocce da scavo è regolamentato con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti [da adottarsi entro sessanta giorni dall'entrata in vigore del presente decreto].” (comma 1);

- “Il decreto di cui al comma precedente, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, stabilisce le condizioni alle quali le terre e rocce da scavo sono considerate sottoprodotti ai sensi dell'articolo 184-bis del decreto legislativo n. 152 del 2006”. (comma 1 bis);

- “All'articolo 39, comma 4, del decreto legislativo 3 dicembre 2010, n. 205, il primo periodo è sostituito dal seguente: "Dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui all'articolo 49 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, è abrogato l'articolo 186”. (comma 1 ter);

L’art. 49, dunque, come sopra modificato, disponeva l’abrogazione dell’art. 186 del T.U. A., di cui all’art. 39, del d.lgs. 205/2010 (“Disposizioni di attuazione della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive”) alla “data di entrata in vigore del decreto ministeriale” di regolamentazione dell’utilizzo delle terre e rocce da scavo (previsto dall’art. 184 bis, comma 2, T.U. cit.).

Per un verso, è chiaro, dunque, che la l. n. 27 del 2012 di conversione del d.l. n. 1 del 2012, secondo il meccanismo della ‘delegificazione’, ha demandato la disciplina dell’uso delle terre e rocce, come sottoprodotti, alla fonte regolamentare, autorizzando specificamente il Governo ad adottare la norma secondaria e abrogando l’art. 186 cit..

Tuttavia, in fase di conversione del d.l. 21 giugno 2013 n. 69 (c.d. ‘Decreto del Fare’) è stata operata una rilevante modifica sul regime delle terre e rocce da scavo.

Infatti, la l. 9 agosto 2013 n. 98 (pubblicata in G.U. n. 194 del 20 agosto 2013 – Suppl. Ordinario n. 63) ha introdotto un nuovo art. 41 bis nel contesto del d.l. n. 69/2013.

Ne è derivato che, quanto all’ambito di applicazione del d.m. n. 161 del 2012, risulta confermata l’interpretazione iniziale che vedeva la complessa disciplina dettata dal decreto limitata alla gestione dei materiali da scavo che derivano dalle “grandi opere”.

Infatti, in forza dell’art. 184 bis, comma 2 bis, d.lgs. n. 152 del 2006 – di cui all’art. 41, comma 2, d.l. n. 69/2013 - l’ambito di applicazione del Regolamento in esame è circoscritto esplicitamente solo alle terre e rocce da scavo che provengono da attività o opere soggette a valutazione d’impatto ambientale o ad autorizzazione integrata ambientale”.

 In considerazione di quanto esposto i giudici ritengono che i cantieri di piccole dimensioni sono sempre esclusi dall’applicazione del D.M.: “Per quanto appena rilevato, dunque, deve essere dichiarato improcedibile il terzo motivo di ricorso, con cui si censurava l’illegittimità dell’assimilazione, operata dal decreto per cui è causa, dei piccoli cantieri a quelli di medio-grande dimensione con riferimento alla gestione dei materiali da scavo”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR_Lazio_II-bis_6187-2014

I principi generali in materia di terre e rocce da scavo

20 Giu 2014
20 Giugno 2014

Nella sentenza n. 6187/2014, il T.A.R. Lazio enuclea i principi fondamentali e generali in materia di terre e rocce da scavo: “Il Legislatore (T.U. Ambiente – art. 2) ha inteso dichiarare esplicitamente l'obiettivo perseguito nella "promozione dei livelli di qualità della vita umana" da attuarsi attraverso "la salvaguardia e il miglioramento delle condizioni dell'ambiente", attraverso la "conservazione, salvaguardia, miglioramento e utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali, anche al fine di promuovere la qualità della vita umana e lo sviluppo sostenibile".

Con il d.lgs 16 gennaio 2008, n. 4, c.d. "secondo Correttivo", è stato modificato il titolo della Prima Parte del Codice, denominata ora non più solo "disposizioni comuni" ma anche "principi generali e sono stati introdotti alcuni articoli (da 3 bis a 3 sexies) al fine di rendere evidente la portata generale degli stessi a tutta la ‘materia’ della tutela dell'ambiente.

Con tali norme, peraltro, sono recepiti e rafforzati alcuni principi di derivazione comunitaria in materia di tutela dell'ambiente.

Per i profili di interesse, vale ricordare:

- i principi di "prevenzione" e di "precauzione" (art. 3 ter), in base ai quali occorre evitare di creare rischi per l'ambiente, e solo in subordine cercare di arginare quelli esistenti o quelli che si dovessero verificare;

- il principio "chi inquina paga" (art. 3 ter), che obbliga all'integrale ripristino dello "status quo ante" dell'ambiente;

- il principio dello "sviluppo sostenibile" (art. 3 quater), in base al quale la p.a. deve dare priorità alla tutela ambientale;

Ed ancora, specificamente, per gli aspetti che qui vengono in esame, va menzionato che anche la Parte IV del d.lgs. n. 152, relativa ai rifiuti, contiene alcuni principi, ed in particolare:

- i criteri di priorità nella gestione dei rifiuti di cui all’art. 179, in forza dei quali la gestione dei rifiuti deve avvenire nel rispetto di una precisa gerarchia, in modo tale da favorire la riduzione della produzione e della pericolosità dei rifiuti e di incentivarne il riciclaggio e il recupero per ottenere prodotti, materie prime, combustibili o altre fonti di energia, correlatamente alla nuova regola del principio di prossimità e di autosufficienza, di cui agli artt. 182, comma 3 e 182 bis, d.lgs. n. 152 cit..

Ne consegue che le condizioni prescritte dal Regolamento, oltre che trovare la propria legittimazione nella fonte primaria, rispondono precipuamente alle indicazioni e ai principi dettati dal legislatore, come sopra descritti, nel prevedere che al fine del conseguimento della possibilità di utilizzare il materiale da scavo come ‘sottoprodotto’, sia assicurato che gli elementi ed i composti contenuti nei materiali predetti proveniente da siti sottoposti a bonifica o a ripristino ambientale rispettino i valori-limite stabiliti dalle C.S.C., sì da non divenire pregiudizievoli per la salute umana e l’ambiente”. 

dott. Matteo Acquasaliente

Terre da scavo sottoprodotto

20 Giu 2014
20 Giugno 2014

Nella medesima sentenza n. 6187/2014 i Giudici romani definiscono il concetto di sottoprodotto: “Prevede, infatti, l’art. 184 bis T.U. Ambiente (introdotto dall’art. 12, d.lgs. n. 205 del 2010) che: “1. È un sottoprodotto e non un rifiuto ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lettera a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni:

a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;

b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;

c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;

d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana”.

La stessa disposizione prescrive ai commi successivi che “possono essere adottate misure per stabilire criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti”, con uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, in conformità a quanto previsto dalla disciplina comunitaria.

Peraltro, come già sopra evidenziato, la portata della disciplina di cui al Regolamento in esame, risulta limitata dall’intervento operato dall'art. 41, comma 2, l. n. 98 del 2013 solo alle terre e rocce da scavo che provengono da attività o opere soggette a valutazione d'impatto ambientale o ad autorizzazione integrata ambientale”.

 dott. Matteo Acquasaliente

 

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