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Bene demaniale e giurisdizione

06 Feb 2014
6 Febbraio 2014

Nella sentenza del T.A.R. Veneto n. 128/2014, i Giudici affrontano anche il rapporto tra bene demaniale e giurisdizione affermando che: “Ora, preme sottolineare al Collegio, che nella presente vicenda, ciò che assume dirimente e prevalente significato ai fini della individuazione della giurisdizione, non è tanto l’attività commerciale oggetto dell’avviso pubblico ( posizionamento di macchine avvolgi bagagli e vendita di prodotti ed accessori da viaggio), che, in quanto tale, all’evidenza, non costituisce certo l’esplicazione di un servizio pubblico, atteso che, pacificamente, lo stesso si caratterizza per essere finalizzato direttamente al soddisfacimento di bisogni di interesse generale, che, evidentemente, risultano assenti nelle attività private imprenditoriali o commerciali, ancorché queste siano indirizzate e coordinate a fini sociali ( Cass., s.u. civili, 3 agosto 2006, n. 17573), né la predetta attività può considerarsi strumentale ed essenziale al servizio pubblico prioritariamente gestito dall’aeroporto, né, infine, tale attività può collocarsi nella tassativa elencazione di cui al citato all. A) del d. lgs. n. 18 del 1999.

Pertanto, nella presente vicenda, ritiene il Collegio che, invece, risulta essenziale, prevalente e definitivo, per la individuazione del plesso giudiziario competente, il fatto della utilizzazione, in via particolare, di un’area demaniale.

In altre parole.

E’ la natura del bene, in questo caso demaniale, che deve informare le conseguenti attività che su di essa il sub concessionario svolge o intende svolgere e non già viceversa, perché, diversamente, un aspetto strumentale, incidentale ed eventuale verrebbe a prevalere sulla cogente disciplina giuridica dei beni demaniali, piegandola alle esigenze secondarie proprie dell’attività esercitata, così alterandone la natura giuridica.

Quindi, se è essenziale e prioritaria, per la individuazione della giurisdizione, la natura del bene, ne consegue che i beni demaniali, come l’area aeroportuale in questione, possono essere assegnati in uso soltanto attraverso procedere concessorie, indipendentemente dall’attività che attraverso essi si vuole esercitare che è, e rimane, nella maggior parte delle ipotesi, di natura privatistica e come tale oggetto relazioni contrattuali tra le parti.

Non coglie nel segno, pertanto, la giurisprudenza della Cassazione ( cfr. Cass. civ. Sez. Unite, Ord., 19 dicembre 2009, n. 26823), né quella amministrativa, che ad essa si riporta (Cons. Giust. Amm. Sic., 10 settembre 2010, n. 1197) – peraltro tutte anteriori all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo - quando affermano che : ”… in tema di concessione in uso esclusivo a privati di beni demaniali, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario se la pretesa trovi la propria origine in un rapporto tra il concessionario e il terzo, sempre che la Amministrazione concedente resti totalmente estranea a detto rapporto derivato e non possa ravvisarsi alcun collegamento tra l'atto autoritativo concessorio e il rapporto medesimo, essendo il primo un semplice presupposto del secondo”.

E’ principio tramandato quello per cui il concedente conserva intatta tutta la sua potestà sul bene demaniale affidato in concessione, ovvero in sub-concessione e che, come già sopra rilevato, la concessione si concretizza con l’adozione del provvedimento autoritativo cui accede, eventualmente, un contratto volto a disciplinare gli aspetti privatistici della vicenda”. 

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza TAR Veneto n. 128 del 2014

Preavviso di diniego: la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento di una domanda interrompe i termini per la formazione di un eventuale silenzio assenso

05 Feb 2014
5 Febbraio 2014

Lo specifica la sentenza del Consiglio di Stato n. 418 del 2014.

Si legge nella sentenza: "Si deve, al riguardo, ricordare che, l’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, aggiunto dall'art. 6 della legge 11 febbraio 2005 n. 15 (poi modificato dal comma 3 dell’art. 9 della legge 11 novembre 2011, n. 180), ha previsto che «nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l'autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all'accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. La comunicazione di cui al primo periodo interrompe i termini per concludere il procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo. Dell'eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale».

Tale disposizione ha, quindi, introdotto, in via generale, nel nostro ordinamento l’istituto del preavviso di diniego, che ha la funzione di portare a conoscenza del soggetto che ha fatto una domanda all’amministrazione, i motivi che non consentono di poter accogliere la sua domanda in modo da consentire all’interessato, in via amministrativa e precontenziosa, di rappresentare all’amministrazione, nel termine assegnato, le ragioni che militano invece in favore dell’accoglimento della sua domanda.

L’amministrazione provvede poi, in via definitiva, sulla domanda, anche sulla base delle osservazioni presentate dall’interessato o decorso inutilmente il termine assegnato per la presentazione delle osservazioni.

7.1.- E’ peraltro ovvio che il termine (ordinatorio o, eventualmente, perentorio) concesso all’Amministrazione per esprimere le sue definitive determinazioni sulla questione può riprendere a decorrere solo a seguito della presentazione da parte del soggetto istante, nel termine assegnato, delle osservazioni al diniego preannunciato (o comunque dallo scadere del suddetto termine per la presentazione delle osservazioni).

Lo stesso art. 10-bis della legge n. 241 ha previsto che la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda «interrompe i termini per concludere il procedimento che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla scadenza del termine» assegnato per la loro presentazione.

 7.2.- Si deve ritenere, quindi, in via generale, che la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento di una domanda interrompe anche i termini per la formazione di un eventuale silenzio assenso, in quei casi in cui l’ordinamento ha inteso assegnare al silenzio serbato dall’amministrazione su un’istanza il valore di assenso alla richiesta.

Del resto, non potrebbe ritenersi logica la formazione di un provvedimento tacito di assenso quando la stessa amministrazione, sia pure in modo ancora non definitivo, ha chiaramente indicato (nel preavviso di diniego) le ragioni per le quali la domanda proposta non può essere accolta.

 8.- Né si può ritenere che tale disciplina non possa essere applicata nel procedimento, dettato dall’art. 87 del d. lgs. n. 259 del 2003, per l’esame delle domande di autorizzazione alla installazione di infrastrutture di comunicazione elettronica, sebbene lo stesso procedimento sia chiaramente disciplinato in modo da consentirne la definizione in tempi certi e rapidi.

8.1.- Non può quindi condividersi l’affermazione del giudice di primo grado secondo la quale la comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza non rientrava fra gli atti interruttivi o impeditivi “tassativamente indicati” dal predetto art. 87, comma 9, del d. lgs. n. 259 del 2003.

Tale disposizione è, infatti, volta ad impedire l’emanazione di atti puramente dilatori e prevede che la domanda, decorso il temine assegnato, si intende accolta (con la formazione del silenzio assenso), a meno che non intervenga un provvedimento negativo. Ma tale disposizione non consente di non dare valore ad un atto (come il preavviso di diniego) che è comunque negativo e che non è definitivo solo perché volto a consentire agli interessati di poter esprimere le loro valutazioni ai fini di una possibile diversa conclusione del procedimento.

8.2.- Peraltro l’istituto della comunicazione all’interessato dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza è stata introdotta nell’ordinamento con la legge 11 febbraio 2005, n. 15, che è successiva alla emanazione del d. lgs. n. 259 del 2003 recante il Codice delle Comunicazioni elettroniche".

geom. Daniele Iselle

sentenza CDS 418 del 2014

Il ricorso incidentale non prevale più su quello ordinario

05 Feb 2014
5 Febbraio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza n. 128 del 30 gennaio 2014, affronta numerose questioni  in materia di appalti.

Innanzitutto il Collegio chiarisce che, in attuazione della normativa comunitaria, il ricorso incidentale non deve più ex se essere esaminato sempre prima del ricorso ordinario: “Preliminarmente il Collegio deve dare conto del recente intervento della Corte di Giustizia dell’Unione Europea C- 100/12 – 4 luglio 2013 ( soc. Fastweb c. A.S.L. di Alessandria) che, interpretando l’art. 1, paragrafo 3 della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento e del Consiglio del giorno 11 dicembre 2007 ha, di fatto, superato il contrario insegnamento espresso dal Consiglio di Stato nell’Adunanza Plenaria n. 4 del 7 aprile 2011, con il quale l’Alto consesso, rivedendo un suo precedente orientamento ( A.P., n.11/2008), aveva, in materia di appalti pubblici, enunciato il principio di diritto secondo cui l’esame del ricorso incidentale volto a contestare la legittimità del ricorrente principale, perché illegittimamente ammesso alla gara, deve precedere l’esame del ricorso principale in quanto la legittimazione a reagire giudizialmente spetta esclusivamente al concorrente che legittimamente ha partecipato alla procedura di gara, così che la rilevata illegittimità del ricorrente principale a partecipare alla gara impedisce lo scrutinio delle censure al riguardo avanzate dallo stesso.

Il riferito insegnamento giurisprudenziale comunitario deve assumere una valenza prevalente rispetto a quella, sul punto, assunta dalla giurisprudenza domestica, così come, nei termini indicati dall’art. 249, comma 3, del Trattato CEE, la normativa comunitaria prevale su quella nazionale.

In altri termini il giudicato nazionale, che disattende gli insegnamenti giurisprudenziali comunitari spiega, comunque, effetti esterni che vincolano il primo giudice nella definizione di altri giudizi pendenti tra le stesse parti ( Corte giust., n.C-2/08, 3 settembre 2009) e, a maggior ragione, i principi di diritto espressi dal giudice comunitari devono assumere una prevalente connotazione poiché indicano il reale significato della norma comunitaria.

Pertanto, il Collegio dovrà provvedere allo scrutinio di tutte le censure sottoposte al suo giudizio, indipendentemente dalla asserita natura pregiudiziale del ricorso incidentale, come sostenuto nella decisione della Plenaria sopra riportata, invero oggi nuovamente sottoposta allo scrutinio dell’Alto consesso per una nuova e meditata sua valutazione”. 

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza TAR Veneto n. 128 del 2014

Avvalimento e contratti esclusi in tutto o in parte dall’applicazione del Codice Appalti

05 Feb 2014
5 Febbraio 2014

Nella sentenza del T.A.R. Veneto n. 128/2014, i Giudici ritengono che l’istituto dell’avvalimento si applica anche agli appalti esclusi in tutto o in parte dall’applicazione del Codice Appalti ex art. 27: “L‘istituto dell’avvalimento è di immediata e generale applicazione secondo un condivisibile indirizzo giurisprudenziale (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2011 e sez. V, 23 maggio 2011, n. 3066) ed è mutuato dalla analoga struttura comunitaria, proprio perchè finalizzato a consentire una reale e concreta concorrenza e favorire gli operatori economici di per sé privi di requisiti di carattere economico – finanziario, tecnico – organizzativo, consentendo a questi di avvalersi dei requisiti di capacità di altre imprese, come indicato negli articoli 47 e 48 della Direttiva 2004/18/CE (i suddetti articoli, rubricati rispettivamente “Capacità economica e finanziaria” e “Capacità tecniche e professionali” individuano i requisiti che debbono possedere gli operatori per contrarre con la p.a. e stabiliscono che un operatore economico, per un determinato appalto, può fare affidamento sulla capacità di altri soggetti a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi).

Pertanto, la conseguente disciplina nazionale, introdotta nel nostro ordinamento giuridico dall’art. 49 del d. lgs. n. 163 del 2006, ha, in buona sostanza, riprodotto i principi generali propri dell’ordinamento comunitario.

L’utilizzazione dei principi comunitari, espressamente recepito nell’avviso di gara e nel citato art. 49 è, dunque, ampia e generalizzata, non prevedendo alcun divieto di impiego “ sicché ben può l’avvalimento riferirsi anche alla certificazione di qualità di altro operatore economico, attenendo essa ai requisiti di capacità tecnica” ( Cons.St., sez.V, 6 marzo 2013, 1368).

Alla luce di tali considerazioni, pertanto, il rinvio operato dalla legge di gara all’art. 27 d.lgs citato, consente, proprio alla luce del rispetto dei principi generali di economicità, efficacia, par condicio, ad ammettere, anche per tali ipotesi l’utilizzazione dell’istituto dell’avvalimento per la certificazione dei requisiti richiesti per la partecipazione alla gara”. 

dott. Matteo Acqusaliente

sentenza TAR Veneto n. 128 del 2014

Programmi di Housing Sociale: l’A. P. del CdS dice che sono concessioni di servizio pubblico locale

05 Feb 2014
5 Febbraio 2014

Segnaliamo sulla questione la sentenza dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 7 del 2014.

In che cosa consisteva nel caso specifico il programma di Housing Sociale?  Il programma, dal contenuto complesso, ha previsto, fra l’altro:

a) la progettazione (definitiva ed esecutiva), e realizzazione sull’area assegnata (di proprietà comunale), di un intero quartiere residenziale, per una portata edificatoria complessiva di 132.000 mc, calcolati secondo il vigente piano particolareggiato di Pietralata, ripartita in 127.000 mc per un totale di almeno 555 alloggi (di cui 80 alloggi di edilizia residenziale pubblica da retrocedere al Comune in regime di proprietà, con le aree fondiarie annesse; almeno 50 alloggi da mantenere in locazione per 25 anni al canone mensile sostenibile di euro 6,00 al mq di superficie complessiva, che al termine resteranno nella disponibilità dell’assegnatario per 99 anni fino alla scadenza del diritto di superficie; almeno 150 alloggi da destinare a locazione con patto di futura vendita con canone mensile sostenibile di euro 8,00 al mq di superficie complessiva e rata finale di saldo prezzo convenuto, da far valere tra il 16° e il 25° anno, secondo e con i valori posti in offerta all’assegnatario; almeno 275 alloggi da cedere a prezzo convenzionato per un importo massimo di euro 2.400,00 mq di superficie complessiva, oltre oneri fiscali);

b) la progettazione (definitiva ed esecutiva), e realizzazione di edificazioni con destinazione commerciale per 5.000 mc (che restano nella disponibilità dell’assegnatario fino alla scadenza della durata del diritto di superficie, anche come eventualmente rinnovato);

c) la progettazione (definitiva ed esecutiva), e realizzazione di tutte le opere di urbanizzazione primaria (infrastrutture a rete, viabilità, arredo urbano, parcheggi e verde pubblico);

d) la progettazione (definitiva ed esecutiva), e costruzione di una scuola materna di 3 sezioni;

e) le funzioni di stazione appaltante, in capo all’assegnatario, per la realizzazione di opera monumentale artistica;

f) gestione venticinquennale (inclusa la locazione e la vendita), in regime di proprietà superficiaria, dell’edilizia residenziale destinata alla locazione a canone sostenibile, a riscatto o alla vendita a prezzo convenzionato; in questo ambito sono attribuiti all’assegnatario (in partnership con l’amministrazione), compiti di soggetto gestore dell’assegnazione degli alloggi (comprensivi della predisposizione degli avvisi e della selezione delle domande), nel rispetto delle tariffe imposte da Roma Capitale (canoni e prezzi da praticare alle diverse categorie di beneficiari del programma);

g) l’assenza di oneri a carico dell’amministrazione salva la possibilità che le offerte in gara contemplino, ai fini del perseguimento dell’equilibrio finanziario in funzione della garanzia della sostenibilità imprenditoriale del progetto, un corrispettivo (che in ogni caso concorre in chiave comparativa come elemento della parte economica costruttiva delle offerte).

L'Adunanza Plenaria ritiene che si tratti di una concessione di servizio pubblico locale ed esamina la questione dell'applicabilità dell'art. 30 del codice dei contratti pubblici, affermando che: "6.5. Si tratta a questo punto di stabilire, in relazione alla controversia sottoposta all’esame dell’Adunanza plenaria, la natura giuridica e la portata applicativa della norma sancita dall’art. 37, co. 13, codice dei contratti pubblici; è irrilevante, ai fini della decisione, che la questione sia stata sottoposta dalla V Sezione nella diversa prospettiva dell’art. 27 del codice dei contratti pubblici (in luogo dell’art. 30), perché in entrambi i casi è necessario comunque individuare i principi desumibili dal Trattato FUE e i principi generali relativi ai contratti pubblici (fra cui quello di trasparenza di cui si lamenta la lesione da parte della ditta Pessina).

Vanno allo scopo applicati i criteri di indagine elaborati di recente da questa Adunanza plenaria proprio al fine di individuare quali disposizioni del codice dei contratti pubblici siano espressive di principi generali (di derivazione europea ovvero solo nazionale), e dunque capaci di integrare la disciplina delle gare per la selezione di concessionari di servizi pubblici (cfr. Ad. plen., 6 agosto 2013, n. 19; 7 maggio 2013, n. 13).

In sintesi è sufficiente ribadire che:

a) la regola generale, a mente dell’art. 30, co. 1. cit., è nel senso che alle concessioni di servizio pubblico non si applicano le disposizioni specifiche del codice dei contratti pubblici;

b) si deve tener conto del fatto che in linea teorica tutte le norme di dettaglio del codice costituiscono una derivazione, più o meno diretta, di principi (o più semplicemente di esigenze) generali;

c) in senso proprio costituiscono principi generali applicabili alle concessioni di servizio, non solo i c.d. super principi o valori di sistema, di solito espressamente indicati nelle parti iniziali dei codici di settore (nella specie art. 2 codice dei contratti pubblici), ma anche quelli che si traggono da talune specifiche norme;

d) tuttavia, l’applicabilità di talune disposizioni specifiche di tali codici è predicabile solo quando esse superino uno scrutinio rigoroso di indagine basato sull’accertamento della natura dell’interesse presidiato dal precetto e della sua ampiezza applicativa, trovando la propria ratio immediata e diretta nella tutela di valori immanenti al sistema (nella specie dei contratti pubblici di appalto di lavori, servizi e forniture), in funzione nomo genetica rispetto alle singole norme costitutive delle codificazioni di settore".

geom. Daniele Iselle

Per comodità di lettura si allegano la sentenza integrale e un estratto

estratto A.P. CDS 7 del 2014

 A.P. CDS 7 del 2014

La Corte dei Conti della Liguria rimette alla Sezione Centrale delle Autonomie il contrasto interpretativo sorto tra le sezioni regionali in merito agli incentivi di pianificazione urbanistica

04 Feb 2014
4 Febbraio 2014

Con la Deliberazione n. 6 /2014 la Sezione Regionale di Controllo per la Liguria della Corte dei Conti ha deciso quanto segue:

"Ritiene, pertanto, la Sezione – alla luce del contrasto interpretativo sopra evidenziato – di sottoporre alla valutazione del Presidente della Corte dei conti, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174, convertito nella legge 7 dicembre 2012, n. 213, l’opportunità di rimettere alla Sezione delle Autonomie della Corte la seguente questione di massima:

Se l’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006 debba essere interpretato nel senso che il diritto all’incentivo per la redazione di un atto di pianificazione sussiste solo nel caso in cui l’atto di pianificazione è collegato alla realizzazione di opere pubbliche ovvero nel senso che il suddetto diritto sussiste anche nel caso di redazione di atti di pianificazione generale (quali la redazione di un piano urbanistico generale o attuativo ovvero di una variante) ancorché non puntualmente connessi ad un’opera pubblica”.

Deliberazione 6 del 2014 Corte Conti Liguria

In materia di distanze dai confini si applica lo jus superveniens

04 Feb 2014
4 Febbraio 2014

Cosa succede in una causa civile riguardante la distanza di una costruzione dai confini se nel frattempo cambiano le regole del PRG sulle distanze dai confini?

La Suprema Corte di Cassazione, sez. II, nella sentenza del 09.08.2013 n. 19142 afferma che l'art. 9, comma 1, punto 06 - Distanza dai Confini - delle NTO del P.I. di Verona  deve essere interpretato ed applicato alla luce del principio dello jus superveniens (tale articolo delle NTO stabilisce che: “Distanza dai confini: rappresenta la lunghezza minima tra il filo di fabbricazione di una costruzione e la linea di confine della proprietà; è rappresentata dal raggio della minima circonferenza avente centro in uno dei due elementi e tangente all’altro. Ai fini della presente norma, il filo di fabbricazione, è dato dal perimetro esterno delle pareti della costruzione, con esclusione degli elementi decorativi, dei cornicioni, delle pensiline, dei balconi e delle altre analoghe opere, aggettanti per non più di 1,50 m; sono inclusi nel perimetro anzidetto i "bow window", le verande, gli elementi portanti verticali in risalto, gli spazi porticati, i vani semiaperti di scale ed ascensori. Tale valutazione si applica anche ai piani interrati, nel caso in cui sia stabilita, per questi, una distanza ai sensi delle presenti disposizioni. 

Salvo che non sia diversamente stabilito dalle presenti norme, tale distacco viene fissato in via generale, ad esclusione della Città storica, in mt. 5,00. 

Salvo che non sia esplicitamente escluso o diversamente disciplinato dalle presenti norme o dai PUA, fermo restando, salvi i casi puntualmente disciplinati dal PI e dai PUA, il rispetto delle distanze minime inderogabili tra fabbricati previste dal D.M. 1444/68, è sempre ammessa l’applicazione delle norme civilistiche sulla distanza dai confini, sulla sopraelevazione e sulla prevenzione ai sensi degli artt. 873 e ss. c.c., con la conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza (eventualmente esercitando le opzioni previste dagli art. 875 e 877, comma 2, c.c.), ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico”) 

Nello specifico si legge che: “L'art. 885 cod. civ. è volto a consentire al proprietario che vi abbia interesse la facoltà di utilizzare il muro comune e costituisce una lex specialis nel senso che introduce una deroga sia al normale regime della comunione sia al normale regime della accessione; infatti, l'esercizio di detta facoltà, non essendo subordinata al consenso dell'altro comproprietario del muro, da luogo ad una proprietà separata ed esclusiva della sopraelevazione, la quale appartiene al comproprietario che per primo abbia innalzato il muro comune. Tale disposizione non interferisce con (e non deroga alla) disciplina dettata in materia di distanze legali che ha la funzione di evitare intercapedini dannose tra fabbricati (normativa codicistica) e anche di tutelare l'assetto urbanistico di una data zona e la densità degli edifici in relazione all'ambiente (disciplina regolamentare, richiamata dall'art. 873 cod. civ.)” (...) “La previsione, consentendo espressamente l'edificazione in aderenza, deroga, evidentemente, per il suo carattere di specialità, alla generale disciplina in materia di distanze dal confine, escludendo l'applicabilità, quando esistano fabbricati sul confine, della norma generale della variante” nonché: “L'art. 9 comma primo 06 del Piano di intervento approvato dal Comune di Verona, con Delib. C.C. 23 dicembre 2011, n. 91 in attuazione di quanto previsto dalla L.R. n. 11 del 2004, art. 17, lett. C) stabilisce, in tema di distanza dai confini, fra l'altro, ...". Salvo che non sia esplicitamente escluso o diversamente disciplinato dalle presenti norme o dai PUA, fermo restando, salvi i casi puntualmente disciplinati dal PI e dai PUA, il rispetto delle distanze minime inderogabili tra fabbricati previste dal D.M. n. 1444 del 1968, è sempre ammessa l'applicazione delle norme civilistiche sulla distanza dai confini, sulla sopraelevazione e sulla prevenzione ai sensi dell'art. 873 c.c. e segg., con la conseguenza che è consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza (eventualmente esercitando le opzioni previste dall'art. 875 c.c. e dall'art. 877 c.c., comma 2), ovvero di arretrare la sua costruzione sino a rispettare la maggiore intera distanza imposta dallo strumento urbanistico".

A stregua di tale normativa, deve comunque ritenersi legittima la costruzione del terzo piano, edificata dai convenuti in soprelevazione del preesistente manufatto realizzato in aderenza (oggetto della domanda di cui al capo 1 dell'atto di citazione indicato nell'esposizione della sentenza impugnata), giacche assume rilievo decisivo la verifica della conformità della costruzione alle previsioni urbanistiche attualmente vigenti, eventualmente più favorevoli di quelle esistenti al momento della realizzazione del manufatto.

Se, d’altra parte, anche i resistenti hanno convenuto sulla legittimità delle edificazione in base a tale normativa , appare del tutto inutile verificare la denunciata illegittimità della costruzione alla luce della pregressa normativa, posto che non è stata pronunciata alcuna domanda di risarcimento del danno conseguente alla suddetta sopraelevazione”. 

dott. Matteo Acquasaliente

sentenza Cassazione Civile 19142 del 2013

Le dichiarazioni ex art. 38 D. Lgs. n. 163/2006 si applicano anche alla società che redige il progetto

04 Feb 2014
4 Febbraio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza n. 130 del 30 gennaio 2014, afferma che, nel caso di un appalto integrato di progettazione esecutiva e di esecuzione di lavori pubblici, l’obbligo delle dichiarazioni di inesistenza delle cause di esclusione ex art. 38 D. Lgs. n. 163/2006 sussiste anche nei confronti delle persone fisiche che siano indicate quali effettivi redattori del progetto ex art. 90, c. 7, D. Lgs. n. 163/2006.

 Nello specifico si legge che: “La risposta –re melius perpensa rispetto a quanto diversamente prospettato, ancorchè in forma certamente non perentoria (ma soltanto “possibilista”), nella sentenza n. 1389/2013 di questa sezione - non può che essere affermativa.

Dal punto di vista normativo, invero, deve richiamarsi la previsione contenuta nell’art. 53, III comma del DLgs n. 163 cit., a tenore del quale “quando il contratto ha per oggetto anche la progettazione, ai sensi del comma 2, gli operatori economici devono possedere i requisiti prescritti per i progettisti, ovvero avvalersi di progettisti qualificati, da indicare nell’offerta, o partecipare in raggruppamento con soggetti qualificati per la progettazione”. Stabilisce, poi, il successivo art. 90, VII comma che “indipendentemente dalla natura giuridica del soggetto affidatario dell'incarico di cui al comma 6, lo stesso deve essere espletato da professionisti iscritti negli appositi albi previsti dai vigenti ordinamenti professionali, personalmente responsabili e nominativamente indicati già in sede di presentazione dell'offerta, con la specificazione delle rispettive qualificazioni professionali. Deve inoltre essere indicata, sempre nell'offerta, la persona fisica incaricata dell'integrazione tra le varie prestazioni specialistiche”.

L’obbligo, dunque, di indicare i professionisti a cui è concretamente demandata l’elaborazione del progetto deve essere adempiuto – come, peraltro, è stato effettivamente adempiuto nel caso di specie da Modonuovo srl, società di progettazione individuata dalla ricorrente - già in sede di presentazione dell’offerta, e non avrebbe senso l’imposizione di siffatto obbligo (con cui, appunto, l’Amministrazione viene messa al corrente del nominativo delle persone fisiche che si rapporteranno direttamente con essa e che saranno personalmente responsabili) senza che i progettisti specificamente incaricati fossero tenuti a rilasciare le dichiarazioni (ex art. 38) garantiste della loro affidabilità, serietà e moralità (cfr., a tal proposito, CdS, V, 9.5.2012 n. 1752 che, nel respingere in sede cautelare l’appello avverso la sentenza TAR Sardegna n. 306/2012, ha osservato che “anche nel caso di appalto integrato, pare necessaria l’indicazione specifica del progettista o dei progettisti persone fisiche, potendosi altrimenti eludere (se venisse solamente indicata la società che si occupa del progetto) le norme che impongono determinati requisiti, anche di ordine generale, in capo ai soggetti che materialmente redigono i progetti”).

Risponde infatti ad elementari ragioni di trasparenza e di tutela effettiva degli interessi dell’Amministrazione che tutti gli operatori economici che a qualsiasi titolo eseguono prestazioni di lavori, servizi e forniture nei suoi confronti abbiano i requisiti morali di cui all’art. 38 del codice.

Se in caso di società di professionisti tali requisiti andassero accertati solo in capo alla società e non anche in capo ai soci che eseguono le prestazioni, la società potrebbe agevolmente costituire un elemento di copertura consentendo la partecipazione di professionisti privi dei necessari requisiti: ai professionisti che non avessero i requisiti dell’art. 38 sarebbe sufficiente, infatti, anziché concorrere direttamente (andando incontro a sicura esclusione), avvalersi di una società da utilizzare come copertura” ed ancora: “Il Barbetti, dunque – è appena il caso di osservare che l’art. 38, II comma del DLgs n. 163/2006 stabilisce inequivocabilmente che “il concorrente attesta il possesso dei requisiti mediante dichiarazione sostitutiva….in cui indica tutte le condanne penali riportate, ivi comprese quelle per le quali abbia beneficiato della non menzione” -, ha reso una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà mendace che si configura come causa autonoma di esclusione dalla gara (cfr., ex pluribus, CdS, VI, 6.4.2010 n. 1909; V, 2 febbraio 2010 n. 428; TAR Veneto, I, 19.3.2013 n. 425), anche avuto riguardo alla previsione contenuta nell’art. 75 del DPR 28.12.2000 n. 445, secondo cui “il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”: art. 75 che prescinde, per la sua applicazione, dalla condizione soggettiva del dichiarante e da eventuali, diverse determinazioni (precariamente) assunte dalla stazione appaltante, attestandosi sul dato oggettivo della "non veridicità".

Né può concordarsi con il raggruppamento ricorrente sull’inefficacia del decreto penale per sopravvenuta estinzione della contravvenzione irrogata al Barbetti: è appena il caso di evidenziare, infatti, che la riabilitazione (combinato disposto dagli artt. 683 cpp e 178 cp) e l'estinzione del reato/contravvenzione (combinato disposto dagli artt. 676 cpp e 151 seg. cp) per decorso del termine di legge devono essere giudizialmente dichiarate, giacché il giudice di sorveglianza nel primo caso ed il giudice dell'esecuzione nel secondo caso sono gli unici soggetti al quale l'ordinamento conferisce la competenza a verificare che siano venuti in essere tutti i presupposti e sussistano tutte le condizioni per la relativa declaratoria, con la conseguenza che, in mancanza, la dichiarazione di assenze di condanne penali equivale a dichiarazione mendace e giustifica l'esclusione dalla gara del concorrente che l'abbia resa (cfr. CdS, V, 20.10.2010 n. 7581)”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR n. 130 del 2014

Per gli atti vincolati ammissibile l’integrazione della motivazione del provvedimento nel corso del giudizio

04 Feb 2014
4 Febbraio 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 23 del 2014.

Scrive il TAR: "3.4 Costituisce dato acquisito che, dall’esame dei provvedimenti impugnati, era comunque possibile desumere le circostanze ostative all’accoglimento della domanda.

4. Ne consegue come siano applicabili quei principi giurisprudenziali, peraltro confermati da una recente pronuncia (per tutti si veda Consiglio di Stato sez. V 20/08/2013) che, seppur in una fattispecie differente, hanno sancito che “il divieto di integrazione giudiziale della motivazione non ha carattere assoluto, in quanto non sempre i chiarimenti resi nel corso del giudizio valgono quale inammissibile integrazione postuma della motivazione: è il caso degli atti di natura vincolata di cui all'art. 21 octies l. n. 241- 1990, nei quali l'amministrazione può dare anche successivamente l'effettiva dimostrazione in giudizio dell'impossibilità di un diverso contenuto dispositivo dell'atto, oppure quello concernente la possibilità di una successiva indicazione di una fonte normativa non prima menzionata nel provvedimento, quando questa, per la sua notorietà, ben avrebbe potuto e dovuto essere conosciuta da un operatore professionale”.

4.1 Se, infatti, il divieto di integrazione postuma, costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, rappresenta un presidio
essenziale dell'onere stesso di motivazione dei provvedimenti, l’applicazione di detto principio all’attività vincolata va opportunamente contemperato in presenza di un vizio formale, quale è il difetto di motivazione e, ancor di più nella fattispecie in esame, laddove era comunque possibile evincere gli elementi ostativi alla realizzazione del manufatto di cui si tratta. La censura è, pertanto, non accoglibile".

sentenza TAR Veneto n. 23 del 2014

Per qualificare come “annesso rustico” un edificio da costruire occorre dimostrarne la funzione produttiva

03 Feb 2014
3 Febbraio 2014

La questione è esaminata dalla sentenza del TAR Veneto n. 24 del 2014.

Scrive il TAR: "3. Non può condividersi nemmeno l’eccezione contenuta nel secondo  motivo, mediante il quale si contesta l’affermazione del Comune, diretta a rilevare che l’intervento di demolizione e ricostruzione non rientrava nella definizione di “annesso rustico” di cui all’art. 2 della L. reg. 24/85.

3.1 Nel corso del giudizio il Comune di Vicenza ha dimostrato come non corrisponda alla realtà quanto affermato dal ricorrente. Nel caso di specie non si era in presenza della costruzione di un “annesso rustico”, quanto nella demolizione e nella realizzazione di un nuovo  fabbricato con conseguente ampliamento del manufatto originario e, ciò, in assenza di alcun titolo edilizio.

3.2 Nel provvedimento di rigetto del 26/07/2004 l’Amministrazione comunale ha correttamente evidenziato come, l’intervento di cui si
richiedeva la sanatoria, non rientrava nella definizione di “annesso rustico” di cui all’art. 2 della L. Reg. 24/85, evidenziando la circostanza in base alla quale non risultava dimostrata la funzione produttiva del manufatto.. Si consideri ancora, che parte ricorrente non aveva depositato la relazione tecnica idonea ad evidenziare il miglioramento fondiario perseguito, documentazione indispensabile alla qualificazione del manufatto quale “annesso rustico”.

sentenza TAR Veneto n. 24 del 2014

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