L’obbligo di bonifica prescinde dai siti di interesse nazionale

07 Mar 2014
7 Marzo 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 04.03.2014 n. 276, dichiara che l’obbligo di bonifica di un’area inquinata prescinde dall’inserimento o meno dell’area contaminata nel perimetro dei siti di interesse nazionale. Correttamente il Collegio ritiene incompatibile la salvaguardia ambientale, che è un diritto ed un interesse diffuso e generalizzato, con quelle delimitazioni che, seppur valevoli in astratto, non possono trovare in concreto applicazione poiché ciò comprometterebbe la stessa tutela ambientale.

A riguardo si legge che: “la parte ricorrente ha eccepito la cessazione della materia de contendere in quanto nelle more della definizione del ricorso la propria area è stata esclusa dal perimetro del sito di bonifica di interesse nazionale, in quanto è sopravvenuto l’art. 36 bis, comma 3, della legge 7 agosto 2012, n. 134, il quale ha stabilito la possibile revisione del perimetro dei siti di interesse nazionale su iniziativa delle Regioni, e la Regione Veneto con deliberazione n. 58 del 21 gennaio 2013 ha proposto la predetta revisione che è stata infine disposta con Decreto ministeriale n. 68267 del 24 aprile 2013.

Alla dichiarazione di cessata materia del contendere, nel corso della trattazione orale, si è opposto il Ministero.

L’eccezione di cessata materia del contendere non può essere accolta, in quanto questa presuppone una piena soddisfazione della pretesa avanza dal ricorrente che non è ravvisabile nella fattispecie all’esame.

Infatti non è vero che la sopravvenuta esclusione dell’area della parte ricorrente dal perimetro del sito di interesse nazionale abbia fatto venir meno i presupposti normativi per l’effettuazione della bonifica, dato che la necessità o meno della bonifica prescinde dall’inclusione nel perimetro di interesse nazionale.

Infatti così come l’inclusione di un’area nel perimetro dei siti di interesse nazionale non comporta una presunzione assoluta di inquinamento tale da comportare l’obbligo di eseguire la bonifica dei terreni (come si evince dallo stesso DM 23 febbraio 2000, con il quale è stata effettuata la perimetrazione, e che ha precisato che all'interno dell'area perimetrata deve essere eseguita l'attività di caratterizzazione al fine di accertare le effettive condizioni di inquinamento), allo stesso modo la sua esclusione dal perimetro del sito di interesse nazionale non comporta di per sé all’esclusione degli obblighi di bonifica.

Infatti l’obbligo della bonifica è determinato solamente dal superamento o meno di determinate soglie di sostanze contaminanti, e l’unico effetto ricollegabile dall’inclusione nella perimetrazione del sito di interesse nazionale, è il radicamento della competenza in materia, in deroga alle regole ordinarie, in capo al Ministero dell’Ambiente ai sensi dell’art. 17, comma 14, del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22.

Ne consegue che, contrariamente a quanto dedotto dalla parte ricorrente, le circostanze sopravvenute non hanno inciso sui termini della controversia che non aveva ad oggetto l’inclusione o meno dell’area della parte ricorrente nel sito di interesse nazionale, e l’eccezione di cessazione della materia del contendere deve pertanto essere respinta”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 276 del 2014

Circolare mensile per l’impresa n. 3 / 2014

07 Mar 2014
7 Marzo 2014

Per gentile concessione della Società & Professionisti srl di Malo (VI) pubblichiamo la circolare mensile per l'impresa n. 3 / 2014, contenente l'aggiornamento in materia tributaria.

Circolare n. 3 del 06-03-2014

Il TAR decide alcune questioni relative al piano casa (ristrutturazione e distanze nel caso di demolizione e ricostruzione)

06 Mar 2014
6 Marzo 2014

Segnaliamo che la sentenza del TAR Veneto n. 262 del 2014 decide alcune questioni relative al piano casa.

In primo luogo, il TAR si occupa della nozione di ristrutturazione di cui alla lettera b) dell'articolo del piano casa del Veneto, scrivendo: "Premesso che parte istante denuncia con due ordini di motivi l’illegittimità del permesso di costruire rilasciato al controinteressato, permesso con il quale è stata autorizzata la demolizione e successiva ricostruzione di un edificio preesistente, con soprelevazione dello stesso ai sensi della L.r. 14/09 e successive modificazioni; dato atto che il titolo edilizio parimenti conseguito dal ricorrente, pur non presupponendo la demolizione e ricostruzione dell’esistente, ha  beneficiato a sua volta della possibilità di ampliamento dell’esistente, mediante sopraelevazione, in applicazione della richiamata normativa regionale; dato atto altresì che i due edifici, quello del ricorrente e del controinteressato, già si fronteggiavano, risultando fra di essi una distanza inferiore ai tre metri e non risultando applicabile ratione temporis il disposto di cui all’art. 9 del D.M. 1444/68, in quanto edifici realizzati anteriormente alla data di entrata in vigore della norma che impone il distacco di almeno 10 fra pareti finestrate frontistanti; considerato che per effetto degli interventi assentiti al ricorrente ed al controinteressato, stanti le sopraelevazioni reciproche, le pareti frontistanti saranno comunque cieche; ritenuto che, per quanto riguarda il primo motivo, pur osservando - sotto il profilo dell’interesse - che della medesima disposizione ha usufruito nche il ricorrente nel realizzare l’ampliamento in altezza del proprio immobile, non sono condivisibili i dubbi di legittimità costituzionale della disposizione di cui alla lettera b) dell’art. 10 della Legge regionale sul “Piano Casa”, in quanto, come già osservato dal Tribunale e confermato dal giudice di seconda istanza (cfr. T.A.R.Veneto, II, n. 1359/11 e C.d.S., IV, 2732/12), privilegiando un’interpretazione costituzionalmente orientata che consenta di attribuire alla norma una portata tale da non porsi in contrasto con il dettato della Costituzione, si è escluso che il legislatore regionale abbia voluto introdurre una definizione del concetto di “intervento di ristrutturazione edilizia”, diversa da quella dettata dall’art. 3 del D.P.R.  380/01, che come noto costituisce normativa vincolante per il legislatore regionale, contenendo i principi fondamentali della materia; che conseguentemente, non risulta esorbitare dai principi dettati dalla normativa nazionale la previsione di ricondurre alla ristrutturazione edilizia anche gli interventi di demolizione e ricostruzione; che, inoltre, a tale specifico riguardo, in termini più generali, è costantemente affermata la riconducibilità degli interventi di demolizione/ricostruzione, con mantenimento delle medesime caratteristiche dell’edificio demolito, alla tipologia della ristrutturazione edilizia".

In secondo luogo il TAR si occupa della demolizione e ricostruzione con sopraelevazione di edifici già in origine posti a una distanza inferiore a 10 metri e scrive: "esaminate le ulteriori censure, ritiene il Collegio che il ricorso sia destituito di fondamento; ciò in considerazione di quanto controdedotto dalla difesa del Comune, corredata della relativa documentazione prodotta in giudizio, confermato sul punto anche dalla difesa del controinteressato, dalla quale è chiaramente desumibile che per quanto riguarda le porzioni di edifici frontistanti preesistenti è stata prescritta la distanza di tre metri ex art. 873 c.c., risultando derogabili proprio in applicazione del Piano Casa le prescrizioni dei regolamenti comunali, mentre, così come in origine, non è stata richiesta l’osservanza delle distanze prescritte dal D.M. 1444/68; che diversamente, per le porzioni sopraelevate, è stata accertata, anche a seguito aggiustamenti dei progetti, l’osservanza delle disposizioni in materia di distanze, rilevando tuttavia che per le pareti frontistanti delle  nuove costruzioni in sopraelevazione non esistono pareti finestrate poste in linea perpendicolare l’una rispetto all’altra".

avv. Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto n. 262 del 2014

Il ricorso notificato alla Soprintendenza presso la sua sede è inammissibile

06 Mar 2014
6 Marzo 2014

L'art. 138 c.p.c. del 1865 stabiliva che la citazione dovesse essere notificata per le amministrazioni dello Stato, a chi le rappresenta nel luogo in cui risiede l'autorità giudiziaria, davanti cui è portata la causa, osservate le norme stabilite nel regolamento. L'art. 25 R.D. 30 dicembre 1923, n. 2828, con disciplina poi trasfusa negli originari artt. 11 e 12 R.D. n. 1611/33, modificò il sistema stabilendo che le citazioni, le sentenze ed ogni altro atto giudiziale dovevano essere notificati, a pena di nullità da pronunziarsi anche d'ufficio, alle amministrazioni interessate presso l'ufficio della regia Avvocatura erariale, nel cui distretto aveva sede l'autorità adita o che aveva pronunciato la sentenza. Dopo la pronuncia di incostituzionalità di Corte Cost., sentenza 8 luglio 1967, n. 27 Rass. Avv. St., 1967, I, 521 ss., si è di seguito pervenuti alla formulazione attuale dell'art. 11 R.D. n. 1611/33, ed all'abrogazione dell'art. 12 R.D. ult. cit. con gli artt. 1 e 2 l. 25 marzo 1958, n. 260.

Cosa dispone l'art. 11 R.D. n. 1611/33?

"Art. 11. 1. Tutte le citazioni, i ricorsi e qualsiasi altro atto di opposizione giudiziale, nonché le opposizioni ad ingiunzione e gli atti istitutivi di giudizi che si svolgono innanzi alle giurisdizioni amministrative o speciali, od innanzi agli arbitri, devono essere notificati alle Amministrazioni dello Stato presso l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l'Autorità giudiziaria innanzi alla quale è portata la causa, nella persona del Ministro competente.[5]

2. Ogni altro atto giudiziale e le sentenze devono essere notificati presso l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l'Autorità giudiziaria presso cui pende la causa o che ha pronunciato la sentenza.

3. Le notificazioni di cui ai comma precedenti devono essere fatte presso la competente Avvocatura dello Stato a pena di nullità da pronunciarsi anche d'ufficio".

Il TAR Veneto, con la sentenza n. 263 del 2014, ha disposto quanto segue circda la eccezione di inammissibilità del ricorso per l'errore di notificazione: "Ritenuta l’eccezione fondata, essendo stato il ricorso - proposto anche avverso il parere vincolante reso dalla Soprintendenza - notificato presso la sede della Soprintendenza B.A.P. di Venezia e Laguna e non già presso l’avvocatura distrettuale che ne è domiciliataria ex lege; Ritenuto che non sussistono i presupposti per la rimessione in termini richiesta dalla difesa della ricorrente, non ricorrendo le ipotesi di scusabilità dell’errore descritte dall’art. 37 c.p.a.; Ritenuto pertanto il ricorso inammissibile per mancata notificazione dello stesso all’amministrazione statale che ha emesso il parere paesaggistico vincolante, posto a fondamento del provvedimento di diniego".

sentenza TAR Veneto n. 263 del 2014

La tipologia dell’intervento di bonifica dipende dalla destinazione d’uso

05 Mar 2014
5 Marzo 2014

Nella medesima sentenza n. 255/2014 il T.A.R. Veneto afferma che la tipologia di bonifica di un sito inquinato non dipende dalla destinazione d’uso di fatto dell’immobile su cui si dovrà intervenire, ma dalla destinazione urbanistica dell’area: “Con una seconda censura la parte ricorrente afferma che dovrebbe essere valorizzata la destinazione d’uso di fatto dell’immobile, e cita in proposito della giurisprudenza (cfr. Tar Umbria, 8 aprile 2004, n. 168) che ha affermato che la tipologia di bonifica da effettuare va individuata non con riferimento alla destinazione urbanistica, ma con riferimento alle caratteristiche dell’utilizzazione che delle aree verrà fatta in concreto.

Tali doglianze si rivelano infondate, in quanto la nozione di “destinazione d’uso” alla quale si richiama anche l’art. 17 del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, è quella tipicamente impressa, quale effetto conformativo, dalle previsioni dello strumento urbanistico (cfr. l’art. 7 della legge 17 agosto 1942, n. 1150), e la normativa è chiara nell’imporre il rispetto dei limiti previsti dalla destinazione d’uso prevista dagli strumenti urbanistici vigenti, come si evince indirettamente dalla circostanza che viene prevista la necessità di variare gli strumenti urbanistici qualora la destinazione da questi prevista imponga il rispetto di limiti di accettabilità che non possono essere raggiunti neppure con l’applicazione delle migliori tecnologie (infatti l’art. 17, comma 6, del Dlgs. 5 febbraio 2006, n. 22, prevede che qualora la destinazione d'uso prevista dagli strumenti urbanistici in vigore imponga il rispetto di limiti di accettabilità di contaminazione che non possono essere raggiunti neppure con l'applicazione delle migliori tecnologie disponibili a costi sopportabili, l'autorizzazione di cui al comma 4 può prescrivere l'adozione di misure di sicurezza volte ad impedire danni derivanti dall'inquinamento residuo, da attuarsi in via prioritaria con l'impiego di tecniche e di ingegneria ambientale, nonché limitazioni temporanee o permanenti all'utilizzo dell'area bonificata rispetto alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti, ovvero particolari modalità per l'utilizzo dell'area medesima. Tali prescrizioni comportano, ove occorra, variazione degli strumenti urbanistici e dei piani territoriali”).

Va soggiunto che la giurisprudenza citata dalla ricorrente (cfr. Tar Umbria, 8 aprile 2004, n. 168) è del tutto inconferente, perché riguarda la diversa e specifica questione dell’individuazione dei limiti di accettabilità dei terreni ad uso agricolo che, in assenza di una definizione normativa, è affidata all’interprete, e che la giurisprudenza ha inteso risolvere facendo riferimento alle caratteristiche dell’utilizzazione che delle aree verrà fatta in concreto, concludendo per l’applicabilità alle aree agricole dei limiti più cautelativi riferiti alle destinazioni a verde urbano, pubblico o privato”. 

dott. Matteo Acquasaliente 

L’effetto conformativo deriva già dal Piano Regolatore e non dal piano attuativo

05 Mar 2014
5 Marzo 2014

Ancora, nella stessa sentenza n. 255/2014, il T.A.R. Veneto chiarisce la portata delle norme contenute nel P.R.G. rispetto a quelle del Piano Attuativo chiarendo che: “3.2 La ricorrente prosegue sostenendo che non può farsi riferimento ai limiti di accettabilità previsti per le aree ad uso verde pubblico, privato e residenziale previsto dalla colonna A della tabella 1 dell’allegato 1 del DM 25 ottobre 1999, n. 471, perché tale destinazione pur essendo prevista dal piano regolatore vigente, non è ancora attuale essendo subordinata alla formazione di un piano urbanistico attuativo di iniziativa privata.

Anche tale doglianza deve essere respinta, perché la normativa del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, sopra citata fa riferimento alla destinazione d’uso prevista dal piano regolatore, al quale va direttamente ascritto l’effetto conformativo nell’uso dei suoli, mentre il piano attuativo ha solamente lo scopo di determinare nel dettaglio e in concreto l'organizzazione urbanistica, infrastrutturale ed architettonica degli insediamenti quale è prevista dal piano regolatore, senza poter modificare quest’ultimo.

Le previsioni del piano regolatore hanno pertanto valore prescrittivo immediatamente efficace, anche se per la realizzazione degli interventi è prevista la necessità della previa formazione di un piano attuativo, che ha il solo effetto di subordinare alla sua approvazione l’ottenimento dei titoli abilitativi necessari”.

dott. Matteo Acquasaliente

Anche le acque contaminate devono essere considerate rifiuti

05 Mar 2014
5 Marzo 2014

Infine, nella medesima sentenza n. 255/2014, il Collegio afferma che le acque contaminate presenti nella falda devono essere considerate alla stregua di rifiuti liquidi e, quindi, devono essere soggette alla relativa disciplina. Di conseguenza non possono essere assoggettate alla disciplina prevista per gli scarichi industriali: “7. Con le censure sopra rubricate come quindicesimo e venticinquesimo motivo la ricorrente lamenta il difetto di istruttoria e la carenza di motivazione relativamente alla prescrizione di gestire come rifiuti liquidi le acque contaminate di falda, anziché consentire il loro scarico in acque superficiali assoggettandole alla disciplina degli scarichi industriali, come prevede espressamente l’art. 243 del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152.

La doglianza deve essere respinta

La norma da ultimo citata nel testo vigente al momento dell’adozione degli atti impugnati, prevedeva che “le acque di falda emunte dalle falde sotterranee, nell’ambito degli interventi di bonifica di un sito, possono essere scaricate, direttamente o dopo essere state utilizzate in cicli produttivi in esercizio nel sito stesso, nel rispetto dei limiti di emissione di acque reflue industriali in acque superficiali di cui al presente decreto”.

Il Collegio non ignora che, basandosi su tale disposizione, sono state emesse alcune pronunce, sul cui richiamo sono imperniate le difese della parte ricorrente, secondo le quali la ratio legis è nel senso di porre una disciplina speciale per la gestione delle acque di falda emunte nelle operazioni di messa in sicurezza e di bonifica, riconducibile alla normativa sugli scarichi idrici e non a quella sui rifiuti, con la conseguente non applicabilità, per tali acque, della disciplina sui rifiuti (cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. V, 21 marzo 2012, n. 1398; Tar Sicilia, Catania, 29 gennaio 2008, n. 207; Tar Calabria, Catanzaro, Sez. I, 23 luglio 2008, n. 1068; Tar Friuli Venezia Giulia, 26 maggio 2008, n. 301).

Tuttavia appare più persuasivo e meritevole di condivisione il diverso e più recente orientamento giurisprudenziale (cfr. Tar Sicilia, Catania, sez. I, 11 settembre 2012, n. 2117; Tar Toscana, Sez. II, 6 ottobre 2011, n. 1452; id. 19 maggio 2010, n. 1523; Tar Sardegna Sez. II, 21 aprile 2009, n. 549; TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, 20 marzo 2009, n. 540) che ha chiarito che le acque emunte di regola devono essere ricondotte all’interno della categoria dei rifiuti liquidi, non potendosi in linea di principio ritenere che la norma di cui all’art 243 citato consenta una equiparazione tout court tra le acque di falda emunte nell’ambito di interventi di bonifica di siti inquinati e le acque reflue industriali.

Infatti il predetto art. 243, limitandosi a consentire la possibilità di autorizzare lo scarico nelle acque di superficie delle acque emunte dalle falde sotterranee, nell'ambito degli interventi di bonifica o messa in sicurezza di un sito, a condizione che siano rispettati gli stessi limiti di emissione delle acque reflue industriali, non è idoneo ad incidere sulla specialità e tassatività della disciplina, di diretta derivazione comunitaria, sui rifiuti, che esclude espressamente l'assimilabilità delle acque emunte in falda a quelle reflue industriali, alla luce dei codici CER contenuti nella decisione della Commissione Europea 3 maggio 2000, n. 532 - 00/532/CE ( codici CER 19.03.07 e 19.03.08, che individuano le acque di falda emunte nell'ambito di attività di disinquinamento quali rifiuti liquidi ).

In proposito va sottolineato che in tal senso si è espressa anche la recente sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 6 dicembre 2013, n. 5857, la quale ha affermato che “è quindi da disattendere l'assunto della società appellante tendente ad escludere a priori, ai sensi dell'art. 243 d.lgs. 152/06, la riconduzione delle acque emunte in attività di disinquinamento della falda dal regime dei proprio dei rifiuti liquidi: al contrario, l’individuazione del regime normativo concretamente applicabile non può non tenere conto della particolare natura dell'oggetto dell'attività posta in essere, siccome individuati dal legislatore quali rifiuti liquidi, come emerge dalla classificazione attraverso i codici CER allegati al decreto.

L’allegato D alla parte quarta del medesima d.lgs, nell’elencare i rifiuti conformemente all'articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE e all'articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE relativa ai rifiuti pericolosi di cui alla decisione della Commissione 2000/532/CE del 3 maggio 2000 e alla direttiva del Ministero dell'ambiente 9 aprile 2002, ha infatti espressamente previsto, sub 19.13.07 e 19.13.08, i <<rifiuti liquidi acquosi e concentrati acquosi prodotti dalle operazioni di risanamento delle acque di falda>>.

Anche per tale ragione, quindi, risulta smentita l’aprioristica omologazione, dedotta dalla società appellante, dei reflui derivanti da operazioni di bonifica alle acque reflue industriali, come definite chiaramente dall’art. 74, comma 1 lett. h) del d.lgs. citato (con ciò dovendosi discostare dalle conclusioni alle quali era pervenuto questo Consiglio di Stato nella sentenza di questa stessa sezione 8 settembre 2009, n. 5256)”. 

Per annullare un provvedimento di sanatoria illegittimo occorre dimostrare un interesse pubblico all’annullamento

04 Mar 2014
4 Marzo 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 261 del 2014.

Scrive il TAR: "Risulta invece fondato e meritevole di accoglimento il secondo motivo di ricorso per la riscontrata violazione dell'art. 21 novies della I. 241/1990 e la totale mancanza di menzione dell’esistenza di uno specifico interesse pubblico all'annullamento del titolo edilizio in sanatoria, che deve sussistere e non può essere ritenuto implicito e di per sé evidente nel mero ripristino della legalità violata. In particolare, va detto che, proprio dall’asserzione della difesa comunale, che afferma che tale interesse risulterebbe evidente dall'esame della complessa vicenda e dal complesso di atti e accertamenti che hanno riscontrato ulteriori abusi edilizi fin dal 2009, si rileva che, invece, tale interesse non è stato esplicitato e nemmeno considerato, dal momento che tutti gli ulteriori abusi dovevano e debbono portare all’adozione delle specifiche misure dettate dalle norme per l’eliminazione ed il ripristino degli stessi, indipendentemente e a prescindere dall’ eliminazione del foro porta e quindi dall’annullamento o meno del già rilasciato condono. Per le considerazioni che precedono il ricorso è fondato e deve essere accolto".

sentenza TAR Veneto n. 261 del 2014

Chi inquina (e chi è proprietario) paga

04 Mar 2014
4 Marzo 2014

Nella  sentenza n. 255/2014 il T.A.R. Veneto chiarisce che, se una società responsabile dell’inquinamento di un’area di sua proprietà viene incorporata per fusione in un’altra società, è quest’ultima – essendo proprietaria del terreno – che deve adempiere all’obbligo di bonifica e ciò a prescindere che la fusione sia avvenuta prima o dopo la modifica dell’art. 2504 bis c. 1, c.c. che attualmente prevede che: “la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione”.

A riguardo si legge che: “Infatti quanto al primo rilievo, va osservato che anche nel regime precedente alla modifica dell'art. 2504 bis c.c. ad opera del Dlgs. 17 gennaio 2003 n. 6, la fusione di una società determinava una situazione giuridica corrispondente alla successione universale con la contestuale sostituzione nella titolarità di tutti i rapporti giuridici attivi e passivi (ex pluribus cfr. Cass. Sez. lav., 22 marzo 2010, n. 6845; Cass. Sez. Un., 28 dicembre 2007, n. 27183; Cass. Sez. 3, 13 marzo 2009, n. 6167; Cass. 6 maggio 2005, n. 9432; Cass. 25 novembre 2004, n. 22236; Cass. 3 agosto 2005, n. 16194; Cass. 24 giugno 2005, n. 13695), come si evince dalla precedente formulazione dell'art. 2504 bis c.c., comma 1, la quale statuiva che "la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società estinte" (è proprio il riferimento testuale alle "società estinte" che ha indotto giurisprudenza e dottrina a ritenere che si tratti di successione a titolo universale).

Quanto al secondo rilievo, va osservato, aderendo alle conclusioni cui è giunta altra e più persuasiva giurisprudenza (cfr. con riguardo ad una fattispecie di fusione Tar Toscana, Sez. II, 1 aprile 2011, n. 573), che l’inquinamento è una situazione permanente, in quanto perdura fino a quando non ne siano rimosse le cause ed i parametri ambientali siano riportati entro limiti accettabili, con la conseguenza che le disposizioni di cui al Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, vanno applicate a qualunque sito risulti inquinato a prescindere dal momento nel quale possa essere avvenuto il fatto o i fatti generatori della contaminazione.

Infatti, secondo la ricostruzione effettuata dalla giurisprudenza amministrativa, anche le norme di carattere penale che sanzionano il mancato adempimento degli obblighi di bonifica, collegano la pena non al momento in cui viene cagionato l’inquinamento o il relativo pericolo, ma alla mancata realizzazione della bonifica, che è l’attività necessaria a far cessare gli effetti di una condotta omissiva a carattere permanente (cfr. ex pluribus Consiglio di Stato, Sez. VI, 9 ottobre 2007, n. 5283; Tar Lombardia, Brescia, Sez. I, 21 gennaio 2013, n. 50), e la sanzione colpisce non l’inquinamento prodotto in epoca precedente, ma la mancata eliminazione degli effetti che permangono nonostante il decorso del tempo (alle medesime conclusioni giunge quell’orientamento della giurisprudenza penale secondo il quale l’art. 51 bis del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, si configura quale reato omissivo di pericolo presunto, che si consuma ove il soggetto non proceda ad adempiere l’obbligo di bonifica secondo le cadenze procedimentali normativamente definite: cfr. Cass. pen., Sez. III, 28 aprile 2000, n. 1783; va dato atto che un diverso orientamento è stato espresso da Cass. civ. 21 ottobre 2011, n. 21887).

Poste tali premesse, deve pertanto concludersi che la Società ricorrente, essendo succeduta a titolo universale alla Società Cledca Spa a seguito della sua incorporazione per fusione, è subentrata in tutti gli obblighi a questa spettanti e quindi anche negli obblighi di facere che sono connessi alla posizione di garanzia dalla stessa assunta a causa della sua pregressa condotta commissiva, con la conseguenza che è pertanto riscontrabile in capo ad essa un obbligo di bonifica e ripristino ambientale di contenuto corrispondente a quello che sarebbe spettato alla Società incorporata se non si fosse estinta.

Infatti, seguendo la teoria dell'illecito permanente sulla quale concorda la giurisprudenza, rispetto agli inquinamenti che, come nel caso di specie, si siano verificati ed esauriti prima dell’entrata in vigore del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, non ha senso differenziare la posizione dell'autore materiale dell'inquinamento, sulla cui responsabilità concorda la giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 9 ottobre 2007, n. 5283), da quella del suo successore universale.

Altrimenti opinando, dato che rispetto alla normativa sopravvenuta successivamente all’evento generatore dell’inquinamento l’autore materiale dello stesso ed il suo successore versano entrambi nell’identica condizione (in ambedue i casi l’inquinamento è stato realizzato ed è cessato in data antecedente al Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22), in nome della preoccupazione di non rendere di fatto retroattive le disposizioni di cui al Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, si giungerebbe all’assurda conclusione di dover lasciare senza rimedio tutte le contaminazioni storiche che necessitano maggiormente di interventi di bonifica a causa del carattere diffuso ed esteso delle aree inquinate e della pericolosità degli inquinanti presenti, quando invece, secondo una corretta ricostruzione, non si pone il problema di riconoscere o meno alle norme sopravvenute una portata retroattiva, ma di applicarle ratione temporis alle situazioni che necessitino di interventi volti ad evitare pregiudizi ambientali derivanti da una condotta omissiva a carattere permanente che solo la bonifica può rimuovere.

Pertanto, così come l’ordine di bonifica può essere legittimamente rivolto all’autore dell’inquinamento per condotte che sono state poste in essere e sono cessate prima dell’entrata in vigore del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, allo stesso modo il medesimo ordine può essere rivolto al suo successore universale che sia subentrato a tutti gli obblighi a questo spettanti, e quindi anche agli obblighi di facere connessi alla posizione di garanzia assunta dall’autore dell’inquinamento a causa della sua pregressa condotta commissiva”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 255 del 2014

 

Ancora sulla mancanza di lesività degli atti endoprocedimentali nella conferenza di servizi

04 Mar 2014
4 Marzo 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 25 febbraio 2014 n. 255, torna ad affermare che - di regola - i verbali della conferenza di servizi no sono autonomamente impugnabili in quanto: “1. Preliminarmente deve essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso originario con il quale sono impugnati i verbali delle conferenze di servizi decisorie del 7 febbraio 2006 e del 5 aprile 2006, perché nel caso di specie questi non contengono ordini immediatamente efficaci in assenza del provvedimento finale di approvazione della conferenza di servizi e di attribuzione di esecutività alle prescrizioni impartite, che non è stato impugnato.
Vale pertanto il principio per il quale in casi come questi, diversamente dalle ipotesi nelle quali è possibile ipotizzare la facoltà di un’immediata impugnabilità laddove siano contenuti ordini e prescrizioni immediatamente efficaci perché così autoqualificatisi nella stessa conferenza di servizi e il cui adempimento decorre dalla comunicazione del relativo verbale (come nel caso esaminato da Consiglio di Stato, Sez. II, 29 dicembre 2011, 4974), il verbale della conferenza di servizi ha una valenza di atto endoprocedimentale ed è pertanto privo di efficacia esterna in assenza dell’adozione del provvedimento finale che è l’atto con valenza esoprocediementale (cfr. in merito alla procedura di bonifica Consiglio di Stato, Sez. VI, 18 giugno 2008, n. 3016; in generale, con riguardo all’istituto della conferenza di servizi, id. 6 maggio 2013, n. 2417)”.

 dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 255 del 2014

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