Spetta al Sindaco ordinare la rimozione dei rifiuti

08 Mag 2014
8 Maggio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 05 maggio 2014 n. 574, conferma il suo orientamento in materia di organo competente ad ordinare la rimozione dei rifiuti: spetta al Sindaco e non al Dirigente emanare questo provvedimento amministrativo.

A riguardo si legge che: “è vero quanto afferma la parte ricorrente con riguardo all’art. 107 del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267.

A decorrere dalla data di entrata in vigore del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, le disposizioni che conferivano agli organi politici atti di gestione e atti o provvedimenti amministrativi, devono intendersi nel senso che la relativa competenza è transitata in capo ai dirigenti, e tale principio vale anche per l’ordinanza contemplata dall’art. 14 del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22.

Tuttavia va considerato che nel caso all’ esame l’ordinanza è stata adottata successivamente all’entrata in vigore del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152 (pubblicato sula gazzetta ufficiale n. 88 del 14 aprile 2006), e che l’art. 192 di tale decreto legislativo, ha incardinato in capo al Sindaco e non al dirigente la competenza ad adottare le ordinanze di rimozione dei rifiuti.

Come ha chiarito la giurisprudenza, la disposizione da ultimo citata, in base al criterio cronologico e di specialità, prevale sulla disposizione di cui all’art. 107 del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, con la conseguenza che le ordinanze di rimozione dei rifiuti abbandonati adottate successivamente all’entrata in vigore del Dlgs. 3 aprile 2006, n. 152, rientrano nella competenza del Sindaco (ex pluribus cfr. Tar Calabria, Catanzaro, Sez. I, 7 maggio 2013, 514; Tar Veneto, Sez. III, 24 novembre 2009, n. 2968; id. 14 gennaio 2009, n. 40; Consiglio di Stato, Sez. V, 25 agosto 2008, n. 4061)”.

Pr quanta concerne il soggetto destinatario, il Collegio chiarisce che solo in via residuale tale ordine può essere rivolto nei confronti del c.d. proprietario incolpevole: “Come è noto l’art. 192 del Dlgs. 3 aprile 2006. n. 152, conformemente a quanto prima già prevedeva l’art. 14 del Dlgs. 5 febbraio 1997, n. 22, impone che l’ordine di rimozione sia rivolto nei confronti dell’autore dell’abbandono, e in caso di rinvenimento di rifiuti abbandonati da ignoti, il proprietario del terreno non può essere chiamato a rispondere se non viene individuato a suo carico l'elemento soggettivo del dolo o della colpa”.

 dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 574 del 2014

Il “mito” della semplificazione: convegno a Padova

08 Mag 2014
8 Maggio 2014

L'Università degli Studi di Padova - Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali e l'Associazione Veneta Avvocati Amministrativisti organizzano il Convegno di Studi, intitolato Il  “mito” della semplificazione, a Padova, 30 maggio 2014, ore 15.30 – 19.30.

Coordina il prof. Vittorio Domenichelli.

Ne discutono: Luigi Benvenuti, Giuseppe Caia, Marcello Clarich, Alfredo Corpaci, Rosario Ferrara, Erminio Ferrari, Enrico Follieri, Carlo Emanuele Gallo, Lucio Iannotta, Nino Longobardi, Enzo Maria Marenghi, Alfonso Masucci, Eugenio Picozza, Andrea Pubusa. 

 Convegno semplificazione 30 maggio 2014

 

Le distanze del D.M. del 1968 nel caso di parete finestrata con una porzione cieca

07 Mag 2014
7 Maggio 2014

Nel caso di una parete finestrata con una porzione cieca, il vicino può costruire senza rispettare le distanze di cui al DE.M. del 1968, limitatamente alla porzione cieca?

Il TAR Veneto, nella stessa sentenza n. 561 del 2014 dice di no: "4. E qui si giunge al secondo punto controverso, dove, mentre la ricorrente invoca il rispetto, da parte della nuova costruzione, della distanza di dieci metri dalla parete finestrata del condominio “La Palladietta”, ai sensi dell’art. 9 del D.M. 1444/1968, il Comune resistente e la società costruttrice controinteressata sostengono invece che la regola della distanza di dieci metri tra pareti di cui almeno una finestrata, posta dell’art. 9 del D.M. 1444/1968, possa essere derogata nell’ipotesi di costruzione in aderenza prevista dall’art. 877 c.c. . E ciò, in particolare, laddove, come nel caso di specie, l’ampliamento si va ad addossare ad una porzione cieca della parete. In tale ipotesi, essendo le pareti fronteggianti, nella parte in cui vengono in aderenza, entrambe non finestrate, non troverebbe applicazione il predetto art. 9 D.M. 1444/1968, bensì l’art. 877 c.c. . La tesi da ultimo illustrata appare priva di fondamento 

4.1. Ed infatti, va innanzitutto premesso che l’art. 9, primo comma, n. 2, del D.M. 1444/1968, laddove prescrive la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, essendo diretto alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, pone una disposizione tassativa ed inderogabile, anche rispetto alla disciplina – si badi di natura eccezionale – del criterio di prevenzione e dei suoi corollari (fra cui la possibilità di costruire in aderenza di cui all’art. 877 c.c.) prevista dal codice civile in tema di distanze tra costruzioni. Sul punto la giurisprudenza della Cassazione, condivisa peraltro dal Consiglio di Stato, è ferma nel ritenere che l’art. 9, primo comma, n. 2, del D.M. 1444/1968 “stante la sua assolutezza ed inderogabilità, risultante da fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali, comporta che, nel caso di esistenza sul confine tra due fondi di un fabbricato avente il muro perimetrale finestrato, il proprietario dell'area confinante che voglia, a sua volta, realizzare una costruzione sul suo terreno deve mantenere il proprio edificio ad almeno dieci metri dal muro altrui, con esclusione della possibilità di esercizio della facoltà di costruire in aderenza (esercitabile soltanto nell'ipotesi di inesistenza sul confine di finestre altrui) e senza
alcuna deroga neppure per il caso in cui la nuova costruzione realizzata nel mancato rispetto del menzionato d.m. sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma terzo, cod. civ.” (Cass. civ. Sez. II: 20 giugno 2011 n. 13547, 31  ottobre 2006, n. 23495, 10 gennaio 2006, n. 145; Cons. St., sez. IV, 12 febbraio 2013, n. 844). 

4.2. Ciò premesso, ne deriva che, nel caso di specie, essendo la parete est del condominio “La Palladietta” una parete finestrata, dotata di vedute e balconi in ciascuno dei suoi tre piani, trova piena applicazione l’art. 9 comma 1, n. 2 del D.M. n. 1444/1968, a nulla valendo il fatto che l’ampliamento interesserebbe una porzione non finestrata della parete, dovendo la predetta distanza essere rispettata con riferimento all’intera parete e non solo alle sue porzioni finestrate. In tal senso si è condivisibilmente espressa la Cassazione con la
sentenza n. 13547 del 20 giugno 2011, laddove, interpretando l’art. 9 comma 1, n. 2 del D.M. n. 1444/1968, ha precisato che sono le pareti, non le finestre aperte in esse, a costituire dati di riferimento per il calcolo della distanza, per cui, in relazione alla ratio della previsione  (finalizzata alla salvaguardia dell'interesse pubblico - sanitario a mantenere una determinata intercapedine degli edifici che si fronteggiano), il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestre".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto n. 561 del 2014

Demolizione e ricostruzione con ampliamento in sopraelevazione e distanze del D.M. del 1968

07 Mag 2014
7 Maggio 2014

La sentenza del TAR Veneto n.  561 del 2014 si occupa anche della questione della demolizione e ricostruzione di un edificio con  ampliamento in sopraelevazione di un edificio che originariamente non dista 10 metri da una parete finestrata, chiarendo come ci si regola in relazione alla distanza di 10 metri tra pareti finestrate.

Scrive il TAR: "il gravame non è fondato nella parte in cui censura il titolo abilitativo anche per ciò che attiene alla demolizione e ricostruzione del fabbricato preesistente. Ovvero, laddove la ricorrente pretende che anche tale porzione di edificio, una volta demolita, debba essere ricostruita, non sul medesimo sedime, bensì rispettando la distanza di dieci metri dalla parete del condominio “La Palladietta”. Ed infatti, l’ipotesi in esame, di demolizione e ricostruzione con ampliamento, ex lege n 14/2009, è puntualmente e chiaramente disciplinata da quest’ultima legge, all’art. 10, il quale, alla lettera b), prevede che: “gli interventi di ristrutturazione edilizia con ampliamento di cui all’articolo 10, comma 1, lettera c), del DPR n. 380/2001, qualora realizzati mediante integrale demolizione e ricostruzione dell’edificio esistente, per la parte in cui mantengono volumi e sagoma esistenti sono considerati, ai fini delle prescrizioni in materia di indici di edificabilità e di ogni ulteriore parametro di carattere  quantitativo, ristrutturazione edilizia, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera d), del DPR n. 380/2001 e non nuova costruzione, mentre è considerata nuova costruzione la sola parte relativa all’ampliamento che rimane soggetta alle normative previste per tale fattispecie”. Ne consegue che la riedificazione dei primi due piani dell’edificio può sicuramente avvenire mantenendo lo stesso sedime del fabbricato originario e dunque in aderenza al condominio “La Palladietta”, integrando la loro demolizione e ricostruzione un intervento di mera ristrutturazione e non di nuova costruzione. Viceversa, i nuovi due piani da realizzare in sopraelevazione della preesistenza, devono essere qualificati come nuova costruzione, e ciò anche ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto n. 561 del 2014

La doppia tutela in tema di distanze fra costruzioni o di queste con i confini

07 Mag 2014
7 Maggio 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 561 del 2014: "Costituisce principio consolidato e pacifico che in tema di distanze fra costruzioni o di queste con i confini vige il regime della c.d. "doppia tutela", per cui il soggetto che assume di essere stato danneggiato dalla violazione delle norme in materia è titolare, da un lato, del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in pristino nei confronti dell'autore dell'attività edilizia illecita (con competenza del  G.O.) e, dall'altra, dell'interesse legittimo alla rimozione del provvedimento invalido dell'amministrazione, quando tale attività sia stata autorizzata, consentita e permessa (conosciuto dal G.A.). Pertanto, la controversia derivante dall’impugnazione di un permesso di costruire da parte del vicino che lamenti la violazione delle distanze legali costituisce una disputa non già tra privati ma tra privato e pubblica amministrazione, nella quale la posizione del primo si atteggia a interesse legittimo, con conseguente spettanza della giurisdizione al giudice amministrativo (cfr. da ultimo T.A.R. Veneto sez. II, 25 gennaio 2012, n. 43; Cons. Stato, sez. IV, 28.1. 2011 , n. 678)".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto n. 561 del 2014

L’ultimazione di un edificio ai fini del condono edilizio

07 Mag 2014
7 Maggio 2014

Segnaliamo sulla questione la sentenza del Consiglio di Stato n.  2032 del 2014, dove si legge che: "il Collegio ritiene fondata e assorbente la censura di violazione dell’art. 32, comma 25, del d.-l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito dalla legge 24 novembre 2003, n. 326 (misure per la riqualificazione urbanistica, ambientale e paesaggistica, per l’incentivazione dell’attività di repressione dell’abusivismo edilizio, nonché per la definizione degli illeciti edilizi e delle occupazioni di aree demaniali). La norma sopra citata, infatti, rende esplicitamente applicabili a opere abusive, ultimate entro il 31 marzo 2003, “le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47”, come successivamente modificate ed integrate, entro determinati limiti di cubatura. Tra le disposizioni richiamate, al capo IV della citata legge n. 47 del 1985 (norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie) è rilevante nel caso di specie l’art. 31, comma 2, in cui è precisato il concetto di “ultimazione” delle opere ammesse al condono, nei seguenti termini: “si intendono ultimati gli edifici, nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente”. Nella situazione in esame, il Comune di Altamura contesta genericamente che l’immobile fosse completato, sul piano strutturale, entro il 31 marzo 2003 (termine ultimo per l’ammissione al condono), ma tali affermazioni non trovano conferma nella documentazione fotografica in atti, che reca il timbro dello stesso Comune come allegato  all’istanza di sanatoria e che mostra un edificio effettivamente allo stato di rustico, fornito di copertura, ma completamente privo di finiture interne, idonee a caratterizzarne le possibili destinazioni d’uso. Deve quindi ritenersi, in effetti, che l’immobile fosse non “già esistente” (locuzione la cui rilevanza in questi termini è riservata ai meri mutamenti di destinazione d’uso, con o senza opere), ma appunto in via di completamento, con un grado di avanzamento dei lavori che ne consentiva, nei termini riportati, la condonabilità sul piano strutturale, per quanto riguarda le variazioni essenziali, che si riconoscevano apportate al progetto originariamente assentito (incremento di volumi e superfici su ogni piano). In assenza di finiture, tali da consentire l’esplicitazione della destinazione d’uso compatibile con le caratteristiche funzionali dell’immobile, il solo utilizzo in effetti ipotizzabile era quello residenziale, evidentemente privilegiato dalla legge perché stimato meno grave di quello non residenziale e, quindi, riconosciuto condonabile per edifici ancora in grado di completamento alla data indicata. Le ragioni sopra illustrate appaiono sufficienti per evidenziare l’illegittimità dell’atto di diniego impugnato e delle relative misure consequenziali, con assorbimento di ogni altra argomentazione difensiva".

Dario Meneguzzo -  avvocato

sentenza CDS 2032 del 2014

Corso sugli appalti delle pubbliche amministrazioni

07 Mag 2014
7 Maggio 2014

Il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Verona organizza un Corso di Perfezionamento ed Aggiornamento Professionale per approfondire le problematiche concernenti i contratti di lavori, servizi e forniture conclusi dalle pubbliche amministrazioni.

La docenza è affidata a: Consiglieri di Stato, Consiglieri TAR, Professori universitari, avvocati amministrativisti e Dirigenti di enti pubblici. 

BROCHURE

PROGRAMMA

Piani di lottizzazione: standards urbanistici e monetizzazione

06 Mag 2014
6 Maggio 2014

Segnaliamo la sentenza del Consiglio di Stato n. 1820 del 2014, che ricostruisce il quadro normativo di riferimento della monetizzazione degli standars.

Si legge nella sentenza: "la disposizione regionale costituisce svolgimento della vicenda normativa relativa agli standards urbanistici come definiti dalla disposizione statale dell'art. 41-quinquies, commi 8 e 9, della legge 17 agosto 1942, n. 1150, come introdotto dall'art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765 (in relazione alla quale è stato poi emanato il d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, a seguito del trasferimento alle regioni delle relative competenze ex art. con l’art. 1 del d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8 e dei successivi artt. 79 e 80 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, attuativi della previsione dell'art. 118 Cost. relativo all'attribuzione alle regioni delle funzioni amministrative nelle materie di legislazione concorrente ex art. 117 (all'origine con riferimento alla "urbanistica", a seguito della novella di cui all'art.. 3 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 in relazione al "governo del territorio"). Peraltro assume rilievo anche l'art. 28 della legge n. 1150/1942, a sua volta modificato dall'art. 8 della legge 765/1967, che individua il contenuto minimo essenziale delle convenzioni di lottizzazione, tra cui la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria e della quota parte delle aree per le opere di urbanizzazione secondaria. In linea generale, è evidente che la regola è costituita dalla cessione gratuita delle aree, che consente di reperire le aree a standards in loco e quindi di assicurare uno sviluppo urbanistico equilibrato, costituendo la c.d. monetizzazione una eccezione e non risolvendosi la medesima in "...una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà l’opera...", poiché non può ammettersi separazione tra "...i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità di vita (dei residenti della zona)...", ciò che fonda il riconoscimento della legittimazione processuale di questi ultimi a dolersi della violazione della misura degli standards (in tal senso, tra le più recenti vedi Cons. Stato, Sez. IV, 4 febbraio 2013, n. 644). Peraltro, laddove la legislazione regionale autorizzi la monetizzazione è del tutto evidente che il vantaggio patrimoniale riveniente al privato -consistente nell'utilizzazione edilizia di aree altrimenti da cedere gratuitamente, con incremento dei volumi realizzabili e quindi anche dei  valori economici ritraibili-, possa trovare, proprio sul piano della corrispettività, un punto di equilibrio nella loro commisurazione al valore di mercato delle aree aggiuntive così rese edificabili, che in sostanza sono per dir così "cedute" (in termini planovolumetrici di diritti edificatori, altrimenti preclusi dall'obbligo di cessione) dalla comunità locale. Come è stato già chiarito da questa Sezione è affatto logico che "...il riferimento sia costituito dal valore delle aree che si sarebbero dovute cedere e che non sono state cedute, ed è ragionevole che le somme giungano ad importi anche molto consistenti, avuto riguardo all’elevato valore che le aree avrebbero in una libera contrattazione di mercato, del resto pari a quelle che il promotore lucrerà grazie allo sfruttamento edilizio ed alla commercializzazione degli immobili edificati sulle aree non cedute" (cfr. Sez. IV, 22 febbraio 2013, n. 1106, in fattispecie relativa all'art. 32 della legge regionale veneta 23 aprile 2004, n. 11, peraltro ben più generica della disposizione dell'art. 46 della legge regionale lombarda in esame, perché contenente mero riferimento generico alla "monetizzazione"). Né può sostenersi che la monetizzazione possa essere arbitrariamente imposta al privato -che invece preferisca cedere le aree a standards, e in disparte la circostanza che nel caso di specie essa è stata richiesta e consentita-, senza alcun limite posto che l'art. 46 precisa in modo del tutto chiaro i suoi presupposti, dovendo essa trovare giustificazione obiettiva, ovvero dovendo l'Amministrazione dar conto delle sue ragioni (nel senso che essa non risulti possibile -ad esempio per penuria degli spazi fisici- o non sia ritenuta opportuna dal comune in relazione  alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento), a cospetto delle quali l'interessato potrà tutelarsi in sede giurisdizionale, contestandole. In altri termini, nel caso di specie, né può sostenersi che l'istituto in se considerato, e/o anche in relazione al criterio della "commisurazione" ivi enunciato costituisca prestazione patrimoniale di natura tributaria e/o paratributaria imposta, in violazione degli artt. 23 e 53 Cost., né essa può ritenersi contrastante con gli altri parametri costituzionali invocati (art. 3 e 97 Cost., art. 117 Cost., art. 41 e 42 Cost.), non risolvendosi nell'attribuzione alle Amministrazioni comunali di poteri discrezionali irragionevoli, arbitrari e/o non delimitati, né in alcuna forma di "espropriazione" senza indennizzo o di limitazione arbitraria all'iniziativa economica privata, e non esulando affatto la disposizione dall'ambito dei poteri legislativi regionali, né ponendosi in contrasto con principi fondamentali rivenienti dalla legislazione statale (che non esclude affatto la c.d. monetizzazione)".

Dario Meneguzzo - avvocato

Le slides del convegno del 30 aprile sulle strade

06 Mag 2014
6 Maggio 2014

Pubblichiamo le slides commentate al convegno del 30 aprile dall'ing. Sandro D'Agostini (Responsabile della sezione operativa di Belluno di Veneto Strade spa) e dall'avv. Paolo Balzani (Dirigente della Avvocatura Provinciale di Vicenza), ringraziando sentitamente gli autori.

VICENZA 30.11.2014

Strade_Convegno Montecchio Maggiore DEF

Scadenza del termine per concludere un procedimento

06 Mag 2014
6 Maggio 2014

Nella sentenza del TAR Veneto n.  543 del 2014, il Collegio si sofferma anche sulla natura non perentoria dei termini di conclusione dl procedimento amministrativo: “Premesso, invero che costituisce principio generale quello secondo cui, qualora i termini del procedimento amministrativo non siano espressamente dichiarati perentori dalla legge, devono essere considerati ordinatori (cfr., ex multis, CdS, IV, 3.4.2009 n. 2110), il termine per la conclusione del provvedimento di cui agli artt. 2 della legge n. 241/1990 e 60 della LR n. 61/1985 sono sollecitatori, con la conseguenza che la loro mancata osservanza non può dare luogo alla illegittimità del provvedimento finale, nè esaurisce il potere dell'Amministrazione di provvedere (cfr., tra le tante, Consiglio di Stato, sez. IV, 10.6.2013, n. 3172; sez. VI, 27.2.2012, n. 1084)” sia sull’organo competente a verificare l’applicazione delle c.d. misure di salvaguardia: “l’infondatezza della censura con cui il ricorrente afferma l’illegittimità dell’impugnato provvedimento per incompetenza del soggetto che l’ha adottato è, invece, conseguente alla considerazione che – come correttamente osservato dall’Amministrazione – ai sensi dell’art. unico della legge n. 1902 del 1952 (abrogata dall’art. 24 del DL n. 11272008 e, per ciò, vigente all’epoca dei fatti) l’applicazione delle misure di salvaguardia spettava al Sindaco: con l’entrata in vigore della legge n. 142/1990, poi, tale competenza – inerendo all’attività gestoria del Comune - è pacificamente passata alla figura dirigenziale (cfr. CdS, IV, 6.3.1998 n. 382)”.

dott. Matteo Acquasaliente

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