Tag Archive for: Veneto

La approvazione di una variante al PRG non sana i vizi della adozione che si trasmettono invece alla approvazione

24 Lug 2014
24 Luglio 2014

Si legge nella sentenza del TAR Veneto n. 920 del 2014: "2. E’ altrettanto infondata l’eccezione di improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse nella parte in cui l’Amministrazione comunale rileva che la delibera n. 27/2013 consentirebbe di superare tutti i motivi proposti avverso la precedente delibera n. 21/2013. Sul punto va ricordato che il procedimento di “adozione e approvazione” delle varianti al Piano regolatore, così come richiamato dall’art. 9 del Dpr 327/2001, costituisce un unico procedimento che presuppone tuttavia, l’emanazione di atti distinti e autonomi, nell’ambito dei quali, peraltro, i vizi contenuti nella delibera di adozione hanno l’effetto di riverberarsi sulla successiva delibera di approvazione (in questo senso Cons. Stato Sez. IV, 15-02-2013, n. 921)".

Dario Meneguzzo - avvocato

Il termine di 60 giorni assegnato dall’art. 46 del codice alle parti intimate per la costituzione in giudizio non è perentorio

24 Lug 2014
24 Luglio 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 920 del 2014, precisando che per lo più "la parte intimata" è l'ente pubblico che ha emanato l'atto che viene impugnato.

Scrive il TAR: "1.1 Per quanto riguarda l’asserita violazione del termine dimezzato, e stabilito di cui all’art. 46 del Codice del Processo Amministrativo, va rilevato come costituisca espressione di un principio consolidato (Consiglio di Stato Sez. III, sent. n. 4601 del 02-08-2011) che “il termine di sessanta giorni dal perfezionamento della notificazione nei propri confronti, assegnato alle parti intimate per la costituzione in giudizio dall'art. 46 del codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010) non ha carattere perentorio in assenza di una puntuale comminatoria di legge. Il termine in parola, lungi dal rappresentare un onere per la parte resistente, ha invece una funzione garantistica in suo favore, nel senso che sino a che esso non è decorso non possono essere compiuti in suo pregiudizio atti che presuppongano la pienezza del contraddittorio (salva la specificità della fase cautelare, che prevede termini diversi). La parte resistente che non sfrutta la  possibilità di costituirsi entro l'apposito termine non perde il diritto di difendersi e, quindi, di costituirsi, ma semmai si espone al rischio che nelle more vengano presi provvedimenti pregiudizievoli senza averne potuto discutere (Conferma della sentenza del T.a.r. Marche - Ancona, sez. I, n. 2455/2010)”. 

1.2 Ne consegue che almeno sino allo spirare del termine di cui all’art. 73 del Codice del Processo Amministrativo la costituzione può avvenire con il deposito di memorie scritte".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto n. 920 del 2014

Quando cessano per il concessionario gli obblighi della gestione post operativa di una discarica?

24 Lug 2014
24 Luglio 2014

Se la Provincia proroga di 15 anni la fase della gestione post operativa di una discarica, gli obblighi di gestione gravano sul concessionario (con convenzione peraltro scaduta) o sul Comune proprietario della discarica?

Il TAR Veneto, nella sentenza n. 1050 del 2014, precisa che gli obblighi rimangono in capo al vecchio concessionario, in forza di alcune clausole della convenzione.

Scrive il TAR: "Premesso che la mancata impugnazione della delibera della Giunta Provinciale rende intangibile la determinazione di proroga della fase di gestione post chiusura per almeno ulteriori 15 anni, atteso il perdurare della produzione di percolato e di bio-gas, deve condividersi la difesa del Comune laddove richiama il disposto dell'articolo 9 della convenzione, in tema di esercizio della discarica, in particolare ove vien detto che la concessionaria si obbliga a esercitare la discarica in conformità alle prescrizioni limiti e disposizioni che potranno essere contenute nei provvedimenti regionali o provinciali adeguandosi in ogni tempo ed entro i termini stabiliti alle eventuali nuove normative o prescrizioni. Ma se anche potesse sostenersi che tale previsione sia sempre contenuta nel torno temporale regolato dall'articolo 3 della convenzione, la domanda va respinta in quanto l'articolo 13 del decreto legislativo 36 del 2003 prevede che il gestore della discarica sia responsabile della corretta attuazione delle disposizioni di cui ai commi 1,2 e3: nella gestione dopo la chiusura della discarica devono essere rispettati tempi modalità e criteri e le prescrizioni stabilite dall'autorizzazione e dai pieni di gestione operativa, post operativa e di ripristino ambientale… la manutenzione, la sorveglianza e i controlli della discarica devono essere assicurati anche nella fase della gestione successiva alla chiusura, fino a che l'ente territoriale competente accerti che la discarica non comporta rischi per la salute e l'ambiente. Il venir meno della convenzione non fa dunque cessare ex se la condizione di gestore della discarica in capo alla ricorrente, dato che alla  scadenza della convenzione l'obbligo della concessionaria stessa è quello della riconsegna dell'area, essendo ormai ultimata la ricomposizione ambientale, mentre, per effetto della disposta proroga, anche tale ricomposizione deve essere oggetto della proposta elaborata dal gestore e dal soggetto autorizzato all'esercizio della discarica. La mancata impugnazione della delibera della Giunta provinciale, infine impedisce anche la cognizione della legittimità della delibera di proroga sotto il profilo della eventuale mancata individuazione dei fondi per la gestione post operativa".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto n. 1050 del 2014

Farmacie rurali e fatturato annuo

24 Lug 2014
24 Luglio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 17.07.2014 n. 1045 si occupa del fatturato annuo delle farmacie rurali affermando che: “Ricorda il Collegio tuttavia come la recente giurisprudenza abbia interpretato (confronta Consiglio di Stato sezione terza numero 1683 del 2014) la disposizione nel senso contrario a quanto ritenuto dai ricorrenti.

Richiamando infatti le modifiche introdotte nel 2001 rileva il giudice d'appello che “due sono le innovazioni contenute: anche per le farmacie rurali sussidiate ai fini dell'applicazione della deroga all'ordinario regime di sconti a favore del servizio sanitario nazionale viene introdotto un limite di fatturato al di sopra del quale la deroga non è applicabile; al contempo i limiti di fatturato a tal fine previsti sia per le farmacie rurali sussidiate, sia per le altre farmacie vengono ridefiniti rispetto alle precedenti disposizioni, prendendo a riferimento non il fatturato complessivo annuo- espressione che poteva intendersi riferita non solo alle vendite di tutti i medicinali ivi compresi quelli pagati privatamente dei cittadini, ma anche tutti gli altri prodotti, anche a carattere non sanitario normalmente venduti in farmacia, come cosmetici, giocattoli per la prima infanzia ecc.-, ma solo il fatturato annuo in regime di servizio sanitario nazionale al netto dell'Iva.

L’espressione fatturato annuo in regime di servizio sanitario nazionale si riferisce, secondo il suo significato letterale, a tutte le prestazioni a carico del servizio sanitario nazionale, comprese quelle di assistenza integrativa.”

Prosegue la decisione richiamata affermando non essere condivisibile l'assunto dell'appellante secondo cui, poiché le quote di spettanza per i farmacisti sul prezzo di vendita al pubblico fanno riferimento alle sole specialità medicinali e le percentuali dello sconto si riferiscono alle stesse specialità medicinali, anche l'espressione fatturato annuo in regime di servizio sanitario nazionale non può che assumere il medesimo significato e il medesimo parametro di riferimento. È viceversa ragionevole e coerente la scelta del legislatore risultante dal significato letterale dell'espressione predetta ove si consideri la disciplina di ordine generale sul rapporto tra servizio sanitario nazionale e farmacie.

Infatti l'articolo otto, comma due del decreto legislativo numero 502 del 1992 stabilisce che detto rapporto è disciplinato con convenzioni di durata triennale conformi agli accordi collettivi nazionali che devono tener conto di specifici principi, fra i quali quello secondo cui le farmacie pubbliche e private erogano l'assistenza farmaceutica per conto delle unità sanitarie locali del territorio regionale dispensando, su presentazione della ricetta del medico, specialità medicinali, preparati galenici, prodotti dietetici, presidi medico chirurgici e altri prodotti sanitari erogabili dal servizio sanitario nazionale. Anche alla luce di questa disposizione, che configura in senso ampio e unitario l'assistenza fornita per il tramite delle farmacie nell'ambito del servizio sanitario nazionale e delle sue articolazioni regionali non vi è ragione per ritenere che quando si tratta di fatturato annuo in regime di servizio sanitario nazionale si intenda riferirsi al fatturato delle sole specialità medicinali, escludendo quello degli altri prodotti sanitari erogati agli assistiti, come pretende l'appellante.

Non è, poi, vero, conclude la sentenza del Consiglio di Stato, che la conclusione interpretativa a cui giunge il Ministero della salute, quando afferma che l’espressione predetta “abbraccia il fatturato riguardante tutte le prestazioni erogate con onere a carico del Servizio sanitario nazionale (comprese, quindi, le prestazioni di assistenza integrativa”), sia priva di motivazione, come sostenuto nell’atto di appello. La nota ministeriale, infatti, oltre a richiamare il dato testuale, svolge questa specifica considerazione, che il Collegio ritiene del tutto condivisibile: “E’ ragionevole supporre…che qualora il legislatore avesse voluto ulteriormente favorire i farmacisti che beneficiano dell’indennità di residenza prendendo in considerazione il solo fatturato farmaceutico, avrebbe utilizzato una specifica e appropriata formulazione, in luogo di quella generica, riferibile a tutte le erogazioni in regime di SSN, così come ha avuto cura di precisare che l’importo deve calcolarsi ‘al netto dell’IVA’””.

dott. Matteo Acquasaliente 

TAR Veneto n. 1045 del 2014

Richiesta di parere alla seconda commissione consiliare sull’atto di indirizzo relativo al dimensionamento dei piani e degli standard di aree per servizi”

23 Lug 2014
23 Luglio 2014

Pubblichiamo la deliberazione della Giunta regionale n.  99/CR  del 15 luglio 2014, contenente  la richiesta di parere alla seconda commissione consiliare (lr n. 11/2004 art. 46, comma 1), circa l'atto di indirizzo recante: ''Lr 23.4.2004 n. 11: Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio'', art. 46, comma 1, lett. b): ''Il dimensionamento dei piani e degli standard di aree per servizi''.

richiesta parere II Commissione CR 99]-attiindirizzo aree standard

Sanatoria paesaggistica: quale concetto di volume rileva?

23 Lug 2014
23 Luglio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. II, nella sentenza n. 761/2014 sembra avallare quella parte di giurisprudenza che, ai fini della compatibilità paesaggistica ex art. 167 del D. Lgs. n. 42/2004, ritiene rilevante una nozione di superficie e/o volume di carattere puramente paesaggistico-ambientale e non urbanistico-edilizio: “L’intervento “sanato” ai sensi dell’art. 181 d.lgs 42/04 consiste infatti nella mera diversa realizzazione del porta vivande, che non crea ovviamente superficie nè volume di cui all’art. 167, d.lgs 42/04.

Infatti il volume tecnico non può avere alcuna rilevanza e la superficie utile a cui fa riferimento l’art. 167, ad impedimento della regolarizzazione postuma degli interventi edilizi in zone sottoposte a vincolo paesaggistico, è soltanto quella che muta l'assetto dei luoghi o meglio, come afferma la stessa sentenza della Cassazione penale citata dalla ricorrente (sez. III, 29 novembre 2011, n. 889), quella che determina "l'impatto dell'intervento sull'originario assetto paesaggistico del territorio”, in modo che questo sia idoneo a determinare una compromissione ambientale”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 761 del 2014

Anche il cambio d’uso di una terrazza scoperta può comportare un aumento del carico urbanistico

23 Lug 2014
23 Luglio 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. II, nella sentenza del 06 giugno 2014 n. 761 chiarisce che anche la terrazza scoperta può comportare un aumento del carico urbanistico. Di conseguenza, ai fini della quantificazione degli oneri di urbanizzazione, il Comune non deve considerare la natura coperta o meno del manufatto, ma soltanto verificare se vi sia un concreto ed effettivo aumento del carico urbanistico: “Il capitolo III delle N.T.A., che comprende l’art. 16 ricordato, è dedicato alle “destinazioni d’uso degli edifici”. E’ del tutto evidente che la disciplina che esso reca vale indistintamente per gli interi edifici e le singole porzioni di essi, indipendentemente dalla loro consistenza volumetrica.

D’altra parte, se l’obiettivo specifico della nuova normativa è “un equilibrato rapporto di connessione fra residenza, lavoro ed attività produttive, al fine generale del più corretto utilizzo del patrimonio edilizio nel Centro Storico (art. 15, terzo comma, N.T.A.), non si vede davvero che differenza corra tra destinare a un’attività commerciale uno spazio coperto (dunque costituente volume) o uno spazio scoperto (quale la terrazza), quando è indiscutibile che il carico urbanistico deriva dall’attività in sé e non dalla concreta configurazione del luogo (esistenza o meno di elementi edilizi di copertura) in cui essa si svolge”.

Anche il Consiglio di Stato, sez. IV, nella sentenza del 19.11.2012 n. 5836 (che annulla la sentenza del T.A.R. Veneto n. 2327/2004) conferma pienamente quanto esposto: “D'altra parte, se l'obiettivo specifico della nuova normativa è "un equilibrato rapporto di connessione fra residenza, lavoro ed attività produttive, al fine generale del più corretto utilizzo del patrimonio edilizio nel Centro Storico (art. 15, terzo comma, N.T.A.), non si vede davvero che differenza corra tra destinare a un'attività commerciale uno spazio coperto (dunque costituente volume) o uno spazio scoperto (quale la terrazza), quando è indiscutibile che il carico urbanistico deriva dall'attività in sé e non dalla concreta configurazione del luogo (esistenza o meno di elementi edilizi di copertura) in cui essa si svolge”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 761 dsel 2014

CdS n. 5836 del 2012

Si può porre a base di gara di una prestazione professionale un compenso esiguo ?

23 Lug 2014
23 Luglio 2014

Il T.A.R. Puglia, Lecce, sez. III, nella sentenza del 16 luglio 2014 n. 1844, si occupa degli importi posti a base di gara per l’esercizio di un’attività professionale.

Dopo aver ricordato che l’art. 36 Cost. – in materia di proporzionalità della retribuzione – si applica solo al lavoro subordinato, i Giudici insistono comunque sulla natura congrua del compenso: soltanto una puntuale e specifica motivazione, infatti, può giustificare una retribuzione esigua.

Ecco il passo che interessa: “Il Collegio osserva che l’art. 2 comma 1 del d. lgs. n. 163/2006 dispone che “L'affidamento e l'esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture, ai sensi del presente codice, deve garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza; l'affidamento deve altresì rispettare i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché quello di pubblicità con le modalità indicate nel presente codice”. I suddetti principi sono ribaditi anche dal successivo art. 27, il quale stabilisce che anche i c.d. “contratti esclusi” sono affidati“nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità”.

A tutela della qualità delle prestazioni, poi, il legislatore nazionale ha posto specifiche norme volte a garantire che il corrispettivo offerto dall’appaltatore nelle gare pubbliche sia proporzionato e sufficiente rispetto all’oggetto dell’appalto. Ci si riferisce agli articoli 86 e seguenti del d. lgs. n. 163/2006 in materia di verifica dell’anomalia delle offerte, la cui finalità “è quella di evitare che offerte troppo basse espongano l'Amministrazione al rischio di esecuzione della prestazione in modo irregolare e qualitativamente inferiore a quella richiesta, o con modalità esecutive in violazione di norme, con la conseguenza di far sorgere contestazioni e ricorsi. L'appalto deve quindi essere aggiudicato a soggetti che abbiano prestato offerte che, avuto riguardo alle caratteristiche specifiche della prestazione richiesta, risultino complessivamente proporzionate sotto il profilo economico all'insieme dei costi, rischi ed oneri che l'esecuzione della prestazione comporta a carico dell'appaltatore…” (ex multis Consiglio di Stato, Sez. V, n. 2063 del 15 aprile 2013).

Ancora, “Il meccanismo previsto per l’eliminazione delle offerte ingiustificatamente anomale dal novero di quelle ammesse ad una gara è teso ad evitare che possa risultare aggiudicataria di una gara una ditta che, per l’esiguità del prezzo offerto, non sia poi in grado di assicurare una prestazione adeguata alle esigenze che l’amministrazione vuole soddisfare con l’appalto indetto”( TAR Sicilia, Palermo, Sentenza 07/09/2011 n. 1608).

La ratio del sub procedimento di verifica dell’anomalia è, pertanto, quella di accertare la serietà, la sostenibilità e la sostanziale affidabilità della proposta contrattuale, in maniera da evitare che l’appalto sia aggiudicato a prezzi eccessivamente bassi, tali da non garantire la qualità e la regolarità dell’esecuzione del contratto oggetto di affidamento.

Se tanto è vero “a valle” delle procedure di aggiudicazione, a maggior ragione, parallelamente, lo stesso principio deve fondare l’attività della Pubblica Amministrazione “a monte” della procedura stessa, e cioè nella fase dell’individuazione dell’importo determinato proprio dalla stazione appaltante quale corrispettivo del servizio da acquisire.

Nel caso specifico, a fronte della prestazione professionale complessa e specializzata richiesta (si veda l’articolo 2 del bando), l’Istituto scolastico ha previsto un compenso omnicomprensivo (articolo 7 del bando) di euro 1.500,00, manifestamente e palesemente incongruo e inadeguato.

Tanto è ancora più evidente se si considera che il predetto importo include anche le spese vive da sostenere per l’espletamento dell’incarico (spese di viaggio, assicurazione, materiale di consumo, disponibilità di specifici programmi) e, inoltre, che lo stesso incarico deve essere espletato su due plessi scolastici situati in Comuni diversi (Galatina e Galatone), distanti quasi 20 chilometri uno dall’altro.

Sicchè l’importo palesemente esiguo offerto potrebbe indurre il professionista ad una non corretta esecuzione dell’incarico ed essere foriera di probabili futuri contenziosi. Ciò è tanto più grave in relazione alla delicatezza dell’oggetto dell’incarico, che coinvolge la vita e la sicurezza degli operatori scolastici e degli alunni.

Il Collegio osserva, inoltre, che la stazione appaltante non ha motivato in ordine alle modalità seguite nella determinazione del compenso. Al riguardo, non è condivisibile il rilievo opposto dall’Istituto resistente relativo alla mancanza di parametri tabellari professionali minimi inderogabili.

Il Collegio non ignora che l’articolo 9 del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con legge 24 marzo 2012, n. 27, ha disposto, al comma 1, l’abrogazione delle tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico. E’ evidente, pertanto, che le stesse non possono essere più indicate nemmeno quale possibile riferimento per l’individuazione del valore della prestazione.

Tuttavia, lo stesso art. 9, al comma 4, pur con specifico riferimento al mercato privato, fornisce indicazioni utili anche per la determinazione dell’importo relativo ai compensi per l’espletamento di incarichi affidati dalle Pubbliche Amministrazioni, stabilendo che, in ogni caso, la misura del compenso “deve essere adeguata all'importanza dell'opera e va pattuita indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi”.

Da tale disposizione si ricava che la determinazione dell’importo dell’affidamento non può essere connotata da arbitrarietà: le stazioni appaltanti non possono, quindi, porre a base di gara un importo senza un minimo di analisi che consenta di comprendere le modalità esatte di determinazione dell’importo e senza motivare il percorso tecnico-logico seguito nella determinazione del valore stesso.

L’interpretazione di cui innanzi risulta, altresì, coerente con quanto prescritto dalla lettera d) del comma 1) dell’articolo 264 del d.P.R. n. 207 del 2010, nella parte in cui dispone che nel bando di gara devono essere indicate le modalità di calcolo del corrispettivo. Difatti, se il riferimento alla possibilità di utilizzo delle tariffe professionali è da ritenersi abrogato, è tuttavia da considerare ancora del tutto vigente l’obbligo di illustrare le predette modalità.

A questi fini le stazioni appaltanti non possono limitarsi ad una generica e sintetica indicazione del compenso, ma devono specificare con accuratezza ed analiticità i singoli elementi che compongono la prestazione, nonché dare conto del percorso motivazionale seguito per la determinazione del suo valore.

Tali principi sono stati espressi anche dall’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici con la deliberazione n. 49 del 3 maggio 2012.

Nel caso di specie, al contrario, nel bando di gara non vi è traccia alcuna dei criteri di calcolo specificamente utilizzati dall’Istituto per la quantificazione del corrispettivo.

Fermo restando quanto innanzi esposto, la Sezione osserva, infine, che, in extrema ratio, l’Amministrazione avrebbe potuto motivare l’esiguità del corrispettivo fissato anche ricorrendo a giustificazioni di natura diversa, inerenti, ad esempio, la necessità di conciliare l’esiguità delle risorse di bilancio disponibili con l’adempimento di obblighi di legge (quale, appunto, quello relativo alla prevenzione e protezione), o, ancora, la richiesta di collaborazione e disponibilità ai professionisti eventualmente interessati. Tanto avrebbe, altresì, consentito di evitare quella lesione della “dignità professionale”, in considerazione della quale l’ordine ricorrente si è determinato a respingere la richiesta della Stazione appaltante di pubblicazione sul proprio albo dell’avviso in questione.

Al riguardo, si richiama il condivisibile ed autorevole orientamento giurisprudenziale, secondo il quale è stata riconosciuta la possibilità della prestazione gratuita per l’attività professionale: in tal senso è la sentenza della Cassazione Civile, 17 agosto 2005, n. 16966, per la quale “Come più volte affermato da questa Corte (v. Cass. 7741/1999; Cass. 8787/2000), poichè l'onerosità costituisce un elemento normale del contratto d'opera intellettuale, ma non essenziale ai fini della sua validità, è consentita al professionista la prestazione gratuita della sua attività professionale per i motivi più vari che possono consistere nell'affectio o nella benevolentia, o in considerazioni di ordine sociale o di convenienza, anche con riguardo ad un personale ed indiretto vantaggio””.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Lecce n. 1844 del 2014

Anche le sanzioni pecuniarie in materia edilizia si prescrivono in 5 anni: ma da quando?

22 Lug 2014
22 Luglio 2014

Segnaliamo la interessante sentenza del TAR Veneto n. 1001 in materia di sanzioni amministrative pecuniarie in edilizia.

Scrive il TAR: "il Collegio ritiene fondata l’eccezione d’intervenuta prescrizione quinquennale del diritto del Comune alla riscossione della sanzione pecuniaria in discorso, ai sensi dell’art. 28 della legge 24 novembre 1981, n. 689. Orbene, secondo la prospettazione (in via subordinata) della ricorrente, siccome dal 22 febbraio 2000, data del primo atto interruttivo della prescrizione (primo atto irrogativo della sanzione pecuniaria), al 13 marzo 2009 (secondo atto irrogativo della sanzione pecuniaria), sono decorsi più di cinque anni, il diritto dell'amministrazione resistente a riscuotere la sanzione si sarebbe prescritto ai sensi dell'art. 28 della legge n. 689/1981. L'Amministrazione comunale ha controdedotto alla predetta eccezione di prescrizione affermando la natura imprescrittibile dell'illecito edilizio in considerazione della sua natura permanente e la conseguente possibilità di esercitare il potere repressivo senza limiti di tempo. Va innanzitutto ricordato come secondo il costante orientamento della giurisprudenza sia applicabile alle sanzioni edilizie il principio di cui all'art. 28 della legge n. 689/1981, a norma del quale "il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione".; trattandosi di disposizione applicabile, per espresso dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale (art. 12 legge n. 689/1981) e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria. Nell'applicare tale regola, tuttavia, con riguardo all'individuazione del dies a quo della decorrenza della prescrizione, occorre tener conto della particolare natura degli illeciti amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, di talché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni. Conseguentemente, per la decorrenza della prescrizione dell'illecito amministrativo permanente, trova applicazione il principio relativo al reato permanente, secondo cui il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui è cessata la permanenza (cfr. Cons. Stato, IV, 16.4.2010, n. 2160; Cons. Stato, V, 13.7. 2006, n. 4420; Cons. Stato, IV, 2.6.2000, n. 3184). Più in particolare, dal carattere permanente degli illeciti amministrativi in materia urbanistica edilizia e paesistica ne deriva che se l'Autorità emana un provvedimento repressivo (di demolizione, ovvero di irrogazione di una sanzione pecuniaria), non emana un atto "a distanza di tempo" dall'abuso, ma reprime una situazione antigiuridica ancora sussistente. Conseguentemente, nel campo dell'illecito amministrativo la permanenza cessa e il termine quinquennale di prescrizione comincia a decorrere o con l'irrogazione della sanzione pecuniaria o con il conseguimento dell'autorizzazione che, secondo pacifico orientamento, può essere rilasciata anche in via postuma (cfr. Cons. Stato, Ad. Gen., 11.4. 2002, n. 4; Cons. Stato, VI, 12.5. 2003, n. 2653). Alla luce dei richiamati principi deve, pertanto, essere accolta l'eccezione di prescrizione sollevata dalla ricorrente.  Ed infatti, nel caso di specie, la permanenza dell’illecito è cessata nel momento in cui il Comune, con l’ordinanza del 22 febbraio 2000, ha irrogato la sanzione pecuniaria (alternativa alla demolizione) in relazione agli abusi ritenuti non sanabili; dunque, da tale momento ha cominciato a decorrere il termine prescrizionale di cui all'art. 28 della legge n. 689/1981. In particolare, poi, l’ordinanza del 18 aprile 2000, con cui il Comune si è limitato a sospendere il termine di pagamento della sanzione pecuniaria  irrogata, non vale ad intaccare l’intervenuto perfezionamento della fattispecie legale complessa, costituita dall’accertamento dell’abuso nella sua materialità e dalla conclusione dello specifico subprocedimento che termina con l’irrogazione della sanzione, fattispecie alla quale, alla luce di quanto sopra esposto è riconnessa la cessazione dell’illecito e l’inizio della decorrenza della prescrizione. Ed infatti, una volta irrogata la sanzione con l’ordinanza del 22 febbraio 2000, spettava al Comune di procedere alla riscossione della somma così liquidata; tuttavia il Comune, per sua libera scelta, ha ritenuto di sospendere sine die il termine di pagamento essendo “necessario un aggiornamento di quanto precedentemente determinato”. A questo punto, tuttavia, l’omessa rideterminazione del credito costituisce un’inerzia dell’amministrazione di cui essa subisce gli effetti, senza che possa valere a sospendere il decorso della prescrizione nei confronti dell'odierna ricorrente. Tale inerzia, infatti, è collocabile nella fase della riscossione della somma dovuta, essendo conclusa la fase della irrogazione della sanzione, rimanendo quest’ultima, non emendata e sospesa solo quanto al termine di pagamento. Ne deriva che la seconda ordinanza di pagamento del 13 marzo 2009, con la quale è stata anche annullata l’ordinanza di pagamento del 22 febbraio 2000, è stata emessa ben oltre l’intervenuta estinzione del diritto dell’amministrazione a riscuotere la sanzione pecuniaria. Per tali ragioni il ricorso deve, quindi, essere accolto con conseguente annullamento del provvedimento impugnato".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto n. 1001 del 2014

Il Consiglio di Stato sembra aver posto fine alla querelle sugli oneri specifici

22 Lug 2014
22 Luglio 2014

Il Consiglio di Stato, sez. VI, nella sentenza del 18 luglio 2014 n. 3864, conferma quanto già ribadito nel post del 03 luglio 2014, ovvero che l’obbligo di indicare gli oneri specifici per la sicurezza a pena di esclusione c’è soltanto negli appalti di servizi e/o forniture e non negli appalti di lavori e/o nelle concessioni di servizi.

A tal proposito si legge che: “5.– L’art. 86-comma 3-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006 prevede che: «nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture».

L’art. 87 dello stesso decreto legislativo dispone, al comma 4, che: «nella valutazione dell’anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell’offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture».

La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha affermato che, alla luce di quanto disposto dalle norme sopra riportate, per gli appalti di lavori le stazioni appaltanti sono tenute a verificare gli oneri per la sicurezza nella sola fase di verifica dell’anomalia dell’offerta. Non è, pertanto, necessario indicare nell’offerta i costi per la sicurezza aziendale (in questo senso, da ultimo, Cons. Stato, V, 17 giugno 2014, n. 3056).

5.1.– L’art. 30 del d.lgs. n. 163 del 2006 prevede che le concessioni di servizi sono sottratte alla puntuale disciplina del diritto comunitario e del codice dei contratti pubblici e che ad esse si applicano i principi desumibili dal Trattato e i principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, i principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all’oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi.

I costi sostenuti per la sicurezza non possono farsi rientrare tra i principi generali a tutela della concorrenza, in quanto perseguono la diversa finalità di tutela dei lavoratori e vengono in rilievo, come sopra rilevato, nella fase di verifica dell’anomalia dell’offerta.

Del resto, se la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha escluso che sussiste finanche per i contratti di appalto di lavori disciplinati dal Codice l’obbligo di indicare nell’offerta gli oneri di sicurezza, non potrebbe sostenersi, come ha fatto il primo giudice, che tale obbligo trovi applicazione per le concessioni di servizi”.

dott. Matteo Acquasaliente

Cds n. 3864 del 2014

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