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Quando è possibile la ratifica dell’atto amministrativo?

03 Mag 2013
3 Maggio 2013

Premesso che la ratifica di un atto amministrativo èuna particolare ipotesi di convalida dell’atto annullabile, viziato dal vizio di incompetenza, diversamente dalla rinnovazione, presuppone la sussistenza di un provvedimento, sì viziato come detto (per incompetenza c.d. relativa), ma pur sempre valido ed efficace; la ratifica, come ogni forma di convalida, ha efficacia retroattiva, limitandosi a sanare il vizio di incompetenza (relativo) che inficia il provvedimento” (Consiglio di Stato, sez. IV, 27.04.2007, n. 2894), il T.A.R. Veneto, nella sentenza n. 593/2013 chiarisce che: “la ratifica di un atto amministrativo non richiede una specifica motivazione sull'interesse pubblico (cfr. Consiglio Stato Sez. V, 30 agosto 2005, n. 4419) in quanto l’interesse pubblico che lo sorregge è la perdurante persistenza di quello perseguito dall’atto da convalidare (cfr. Tar Lombardia, Brescia, 7 settembre 2001, n. 771; Consiglio di Stato , Sez. VI, 24 settembre 1983, n. 683)”.

Con riferimento alla censura secondo cui gli atti di ratifica sarebbero illegittimo poiché la convalida non sarebbe ammessa in corso di causa, il Collegio afferma che: “L’assunto è privo di fondamento in quanto la facoltà di ratificare gli atti viziati da incompetenza in pendenza di giudizio sanandone l’illegittimità ex tunc è espressamente prevista dal legislatore con l’art. 6 della legge n. 249 del 1986, ed è giustificata dalla necessità di coniugare il doveroso ripristino della legalità dell’azione amministrativa, con i principi di economicità, di efficacia, di imparzialità e buon andamento, nonché di economicità dei mezzi giuridici e processuali (cfr. Tar. Campania, Napoli, Sez. I, 11 luglio 2012, n. 3350)”.

 Mentre, per quanto riguarda la possibilità di applicare la ratifica anche alle amministrazioni locali, statuisce che: “ La tesi secondo la quale la ratifica di cui all’art. 6 della legge n. 249 del 1968 non è applicabile ad amministrazioni diverse da quelle statali, enunciata nell’ambito del venticinquesimo motivo, va invece respinta perché, come chiarito dalla giurisprudenza, tale norma ha portata generale (cfr. Tar Emilia Romagna, Bologna, 12 febbraio 1986, n. 83)”.

 dott. Matteo Acquasaliente

sentenza TAR Veneto 593 del 2013

Se il progettista è anche direttore dei lavori c’è la giurisdizione della Corte dei Conti e non del giudice ordinario

02 Mag 2013
2 Maggio 2013

La Corte D’appello di Venezia, sez. IV civile, nella sentenza n. 1915 del 18.05.2011, chiarisce che vi è la giurisdizione della Corte dei Conti laddove, nella realizzazione di un’opera pubblica, il progettista cumuli anche la funzione di direttore dei lavori.

Il Collegio, chiarito che la responsabilità del direttore dei lavori radica la giurisdizione della Corte dei Conti poiché “funzionalmente e temporaneamente inserito nell’apparato organizzativo della Pubblica Amministrazione che gli ha conferito l’incarico, quale organo tecnico e straordinario della stessa (Cass. 1377/2006; 340/2003; 515/2000; 188/1999)”, sottolinea che la responsabilità del progettista determina la giurisdizione del Giudice ordinario: “per quanto riguarda, invece, la figura del progettista, si evidenzia che esiste tra questi e l’amministrazione appaltante un rapporto di natura privatistica, al quale si applica la disciplina di diritto comune in materia di contratto d’opera professionale. Infatti, l’amministrazione deve sottoporre l’elaborato progettuale ad una specifica approvazione, e pertanto, non si verifica alcun inserimento del soggetto nell’organizzazione dell’amministrazione”.

Laddove il progettista è anche direttore dei lavori, la Corte chiarisce che: “La giurisprudenza (si veda Sezioni Unite della Corte di Cassazione Ordinanza 20 marzo 2008, n. 7446) ha affermato che, nelle ipotesi in cui le due figure si cumulano in un unico soggetto, la giurisdizione in punto domande risarcitorie sollevata dalla stazione appaltante pubblica, spetta al giudice contabile. Ha infatti affermato la Corte che nel caso di riunione degli incarichi, non si può giungere “alla scissione delle giurisdizioni, affermandosi quella del giudice ordinario per il danno causato nella qualità di progettista e quella del giudice contabile per il danno causato nella qualità di direttore dei lavori”. I due incarichi professionali determinano una complessiva attività professionale tale per cui l’attività di progettazione si pone come momento antecedente a quello di direttore, dando così vita ad un rapporto unitario. Ha infatti statuito la Corte che: “ I doveri di verifica del progetto, propri del direttore die lavori sussistono già durante la progettazione, che così continua ad avere una sua autonomia solo ideale ed astratta dalla direzione dei lavori”.

dott.  Matteo Acquasaliente

Corte Appello Venezia n. 1915 del 2011

La Corte dei Conti sulla inderogabilità delle disposizioni vincolistiche in tema di riduzione della spesa delle P.A. per l’acquisto e la manutenzione di autovetture

02 Mag 2013
2 Maggio 2013

Alla Corte dei Conti Sezione Veneto veniva sottoposta la questione circa la possibilità che le Regioni possano derogare all’applicazione delle norme vincolistiche in tema di riduzione della spesa delle pubbliche amministrazioni per l’acquisto, la manutenzione, il noleggio l’esercizio di autovetture di cui all’art. 5, co. 2, D.L. 6 luglio 2012 n. 95, convertito in L. 7 agosto 20120 n. 135, e dall’art. 1, co. 143, L. 24 dicembre 2012 n. 228, per fare fronte alle spese per autovetture destinate all’espletamento di alcuni servizi istituzionali ritenuti dalla Regione Veneto di fondamentale importanza.

Sul punto il Collegio, con il parere n. 96 del 16 aprile 2013, ha ritenuto di “poter condividere la posizione interpretativa recentemente assunta dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia la quale, pronunciandosi su un quesito analogo formulato da un ente locale lombardo in merito alla possibilità di derogare ai vincoli in oggetto, ha affermato che “la concreta applicabilità al caso di specie dei principi precettivi elaborati dalla Consulta, pare preclusa dal dato che l’invocato art. 5, nel disporre (secondo il testo dell’art. 5) “Riduzione di spese delle pubbliche amministrazioni” contiene una serie variegata di proposizioni normative tra cui non sono rinvenibili ulteriori tetti espressi secondo limiti quantitativi percentuali massimi. Né si ritiene possibile estendere il principio di compensazione a una serie eterogenea e di fonte non comune di obblighi di riduzione di spese del tutto differenziate” (deliberazione Sezione regionale di controllo per la Lombardia n. 114/2013/PAR). Questa Sezione, inoltre, ritiene che vi siano ulteriori elementi che inducono a propendere per una inderogabilità delle disposizioni di cui trattasi in materia di riduzione complessiva degli oneri, diretti o indiretti derivanti per le amministrazioni pubbliche dall’utilizzo delle autovetture nello svolgimento di compiti istituzionali: ciò soprattutto per quel che riguarda le disposizioni da ultimo introdotte con l’articolo 1, comma 143 della Legge 228/2012. Infatti, per la disposizione teste citta un primo ordine di considerazioni emerge dalla lettura della previsione contenuta nell’articolo 1, comma 145 della legge 228/2012. Detta norma recita “Per le Regioni l’applicazione dei commi da 141 a 144 costituisce condizione per l’erogazione da parte dello Stato dei trasferimenti erariali di cui all’articolo 2, comma 1, del decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174. La comunicazione del documentato rispetto della predetta condizione avviene ai sensi dell’articolo 2, comma 3, del decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174”.

La Sezione Veneto “alla luce delle complessive considerazioni sopra richiamate e delle conseguenze che il legislatore ricollega alla mancata osservanza delle norme limitative ritiene, allo stato degli atti prodotti nella richiesta di parere ove non vengono evidenziati chiaramente le fonti normative che a detta dell’ente richiedente renderebbero obbligatori i servizi il cui svolgimento si presume pregiudicato dai tagli di spesa, che le disposizioni di cui all’articolo 5 comma 2, del D.L. 95/2012 e 1, comma 144 della Legge 228/2012 in via generale non siano suscettibili di deroghe applicative da parte delle Regioni. Ciò, a maggior ragione laddove manchino specifiche modalità legislativamente determinate per poter individuare quando il servizio in questione, che impone l’utilizzo dell’autovettura, possa rientrare nel novero di quelli che, in base alle previsioni da ultimo richiamate, possano essere qualificati quali “….servizi istituzionali di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, per i servizi sociali e sanitari svolti per garantire i livelli essenziali di assistenza”.

dott.sa Giada Scuccato

Il cerchio della speranza: concerto in Duomo a Dueville sabato 4 maggio 2013

01 Mag 2013
1 Maggio 2013

Il Centro aiuto alla vita di Povolaro e Dueville organizza un concerto di musiche moderne per sabato 4 maggio 2013, presso il Duomo di Dueville, con inizio alle 20.30.

Il concerto sarà tenuto dal coro Voci del Pasubio con l'Ensamble Vocale The Singing Dreamers per beneficenza, con ingresso gratuito.

Il Cerchio della Speranza

Quando il PAT incide su aspettative assistite da una speciale tutela o da uno speciale affidamento è illegittimo se non è motivato

30 Apr 2013
30 Aprile 2013

La sentenza del TAR Veneto n. 621 del 2013, già allegata al post che precede, ha ritenuto illegittmo il PATi per difetto di motivazione.

Scrive il TAR: "In particolare risulta fondato il primo motivo di ricorso, laddove si lamenta il difetto di motivazione dell’art. 19.2.5, che imprime all’area della Meccanica Masi una disciplina eterogenea rispetto alla generalità della Z.I.P., disciplina volta alla riconversione ed al blocco di nuovi interventi, andando così ad incidere su di una aspettativa qualificata dell’odierna ricorrente.

2.1. Posto che, secondo la consolidata giurisprudenza, i Comuni godono di un ampio potere discrezionale in materia urbanistica, e che l'adozione di un atto di programmazione territoriale avente rilevanza generale non esige una specifica motivazione delle singole determinazioni assunte, in quanto le stesse trovano giustificazione nei criteri generali di impostazione del piano urbanistico. Posto ancora che, in sede di controllo di legittimità, non è consentito al giudice amministrativo di entrare nel merito delle scelte pianificatorie, salvo che siano inficiate da errori di fatto o da vizi evidenti di illogicità e contraddittorietà; sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico discrezionale, seguiti nell’impostazione del piano stesso.

Ciò premesso, la stessa giurisprudenza, ritiene necessaria un'apposita e specifica motivazione quando le classificazioni preesistenti siano assistite da specifiche aspettative, in capo ai rispettivi titolari, fondate su atti di contenuto concreto, come quelle che traggono origine da un piano di lottizzazione approvato, da accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, oppure da un giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia (Cfr., fra le tante, Cons. Stato, n. 133/2011; n. 7492/2010; n. 2545/2010; n. 4166/2005; n. 2386/2003).

Pertanto, va ricordato che, conformemente al consolidato orientamento giurisprudenziale, quando lo strumento urbanistico incide su aspettative assistite da una speciale tutela o da uno speciale affidamento, è necessaria una motivazione specifica sulla nuova destinazione conferita alle aree interessate

Ebbene, ritiene il Collegio che nel caso di specie sussisteva in capo alla Meccanica Masi una posizione di aspettativa qualificata, meritevole di specifica considerazione, al mantenimento della destinazione preesistente del lotto acquistato, cui occorreva corrispondere con una puntuale e specifica motivazione.

Ciò risulta evidente, ad avviso del Collegio, ove si consideri che la ditta ricorrente, nel 2002, non ha operato un semplice acquisto, dal Consorzio Z.I.P. (costituito dalla Provincia, dal Comune e dalla Camera di Commercio di Padova), di un lotto di terreno edificabile, bensì ha operato un acquisto mirato e vincolato all’edificazione di un complesso produttivo. Questa era infatti la causa concreta dell’atto di acquisto stipulato il 21 giugno 2002, come evincibile dal disciplinare per l’assegnazione delle aree nella zona industriale e portuale di Padova, adottato dal Consorzio e richiamato nell’atto di acquisto. Anzi, in tale disciplinare si prevede che l’area assegnata dovrà essere utilizzata esclusivamente per l’edificazione di stabilimenti industriali, ed addirittura, che le superfici rimaste inutilizzate entro il periodo di sei anni dalla data di stipulazione del contratto di vendita potranno essere rivendicate dal Consorzio. E d’altra parte tale previsione è coerente con la disciplina urbanistica dell’area Z.I.P. impressa dal legislatore del 1969, che ha inteso creare un’area formata da terreni espropriati ai proprietari privati, da destinare esclusivamente e necessariamente all’impianto di stabilimenti industriali. A ciò si aggiunga che il prezzo di vendita del lotto era comprensivo anche degli oneri di urbanizzazione, trattandosi di area già urbanizzata.

Pertanto, dal complesso degli elementi appena considerati emerge che la posizione della Meccanica Masi non è parificabile a quella di un qualsiasi cittadino proprietario di un’ area edificabile, avendo essa un preciso diritto – dovere, derivante dal contratto, dal disciplinare e dalla legge, a realizzare un insediamento produttivo. Piuttosto, la posizione della stessa appare assimilabile a quella del soggetto parte di una convenzione di lottizzazione.

In conclusione, la specificità del caso era tale da determinare un affidamento consolidato nel mantenimento della disciplina urbanistica esistente come impressa addirittura a livello legislativo nazionale, oltre che a livello regolamentare e di piano regolatore generale. Tale posizione di affidamento è confliggente con la scelta delle amministrazioni procedenti di escludere l’area di proprietà della Meccanica Masi dagli “Ambiti di urbanizzazione consolidata con destinazioni prevalentemente produttive – commerciali – direzionali” di cui all’art. 19.2.2, per inserirla, invece, nell’ “Ambito di riconversione e riqualificazione” di cui al successivo art. 19.2.5., con l’effetto di bloccare nuovi interventi di edilizia industriale.

Ne consegue che la scelta pianificatoria - di congelare lo sviluppo della zona Z.I.P., solo con riferimento all’ara residuale all’interno della quale ricade la proprietà della ricorrente, lasciando invece invariate, per la massima parte della zona Z.I.P., le facoltà edificatorie - doveva essere motivata, in maniera incisiva e singolare, con l’indicazione delle ragioni di pubblico interesse che avevano indotto le amministrazioni procedenti all’adozione di tale scelta.

Ritiene il Collegio che, sotto tale profilo, la motivazione addotta dal P.A.T.I. sia, invece, totalmente assente, pur in presenza di una consistente compressione delle aspettative, in questo caso della Meccanica Masi, assegnataria del lotto rimasto ancora inedificato e ricompreso nell’ambito di riconversione.

Né può dirsi, come sostengono le amministrazioni resistenti, che tale scelta pianificatoria sia stata giustificata dall’intenzione di formare, per mezzo delle aree della zona Z.I.P. più periferiche, come quella della ricorrente, una sorta di “zona cuscinetto” con la zona abitata. Posto che tale finalità non risulta espressa nel piano ed in ogni caso, dall’esame della “carta della trasformabilità” allegata al P.A.T.I., risulta che insediamenti residenziali sono presenti anche in prossimità di altre parti periferiche dell’area Z.I.P. (v. quelle finitime poste a sud di Corso Stati Uniti) le quali, diversamente, mantengono intatte la loro concreta destinazione industriale e le facoltà connesse, ricadendo nell’ ambito di urbanizzazione consolidata di cui all’art. 19.2.2.

3. In conclusione, il ricorso deve essere accolto essendo fondato il primo motivo di gravame".

Il PATI può contenere disposizioni operative e di dettaglio (anche senza avere individuato gli ATO?)

30 Apr 2013
30 Aprile 2013

La sentenza del TAR Veneto n. 621 del 2013 esamina alcune questioni in materia di PAT e PATI.

La ricorrente è proprietaria di un compendio immobiliare sito nella zona industriale del Comune di Padova, dotato di una superficie complessiva di 2.605 mq sulla quale insiste uno stabilimento industriale.

In particolare, tale area si trova all’interno del perimetro della Zona Industriale e Porto Fluviale di Padova (Z.I.P.), istituita direttamente dal legislatore nazionale con L. n. 158/1958, attualmente disciplinata dalla L. n. 739/1969, e gestita dal Consorzio Zona Industriale e Porto Fluviale di Padova (di cui sono soci il Comune, la Provincia e la Camera di Commercio di Padova).

A livello comunale l’area è disciplinata dall’art. 21 delle N.T.A. del P.R.G., che, oltre a dettare disposizioni per la “zona industriale”, detta anche disposizioni specifiche per le aree incluse nel perimetro della Zona Industriale e Porto Fluviale.

Con la delibera impugnata la Giunta della Provincia di Padova ha approvato, ai sensi degli artt. 15 e 16 della legge regionale n.11/2004, il piano di assetto del territorio intercomunale (P.A.T.I.) della Comunità Metropolitana di Padova.

Con tale strumento, l’area ricompresa all’interno della Z.I.P. è stata prevalentemente assoggettata alla disciplina di cui all’art. 19.2.2 delle Norme tecniche, rubricato “Ambiti di urbanizzazione consolidata con destinazioni prevalentemente produttive – commerciali – direzionali”, sostanzialmente confermativa della regolamentazione esistente.

Invece, l’area della ricorrente è stata assoggettata alla disciplina prevista dall’art. 19.2.5, avente ad oggetto gli “Ambiti di riqualificazione e conversione”, per cui, in vista di una possibile riconversione dell’area volta ad eliminare l’attuale uso industriale, fino all’adozione del piano degli interventi, è stata ivi, sin da subito, impedita la realizzazione di nuove unità immobiliari.

La ricorrente lamentava l’illegittimità della delibera impugnata, tra gli altri motivi, anche perchè avrebbe violato gli  artt. 13, lett. k) 16 e 17 della L.R.V. n. 11/2004, perchè il P.A.T.I. non  contenere disposizioni operative e di dettaglio (come invece contenute nell’art. 19.2.5, laddove si introducono limiti specifici all’attività edilizia) se non prima di aver individuato gli Ambiti Territoriali Omogenei.

Su questo punto il ricorso non è stato accolto dal TAR.

Scrive, infatti, il TAR: "Infatti, come affermato da questa sezione (sent. n. 2954/2010), relativamente ad un caso analogo, in base all’art. 13 lett. k) della L.R. n. 11/2004, il P.A.T. può inserire anche disposizioni di dettaglio o comunque immediatamente conformative della proprietà, com’è quella impugnata in questa sede. La ricorrente sostiene tuttavia, che nel caso di specie tale possibilità sarebbe preclusa dalla mancata individuazione dei singoli Ambiti Territoriali Omogenei. Il Collegio rileva come tale affermazione non corrisponda al vero, in quanto il P.A.T.I. detta una disciplina differenziata per singoli ambiti, che vengono poi specificamente raffigurati con diverse colorazioni nella carta della trasformabilità".

sentenza TAR Veneto 621 del 2013

Non è l’eccessiva onerosità della demolizione il presupposto per applicare l’art. 34 del D.P.R. 380/2001

30 Apr 2013
30 Aprile 2013

Il Consiglio di Stato, sez. V, nella sentenza del 9 aprile 2013 n. 1912, si occupa degli interventi realizzati in parziali difformità dal permesso di costruire, precisando che: “L’art. 34 del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), prevede, al primo comma, che «gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell’abuso» entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio, con l’aggiunta che «decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del Comune e a spese dei medesimi responsabili dell’abuso».

Il secondo comma dispone che «quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, (…), della parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale».

La norma, da ultimo riportata, deve essere interpretata – in conformità alla natura di illecito posto in essere e alla sua valenza derogatoria rispetto alla regola generale posta dal primo comma – nel senso che si applica la sanzione pecuniaria soltanto nel caso in cui sia “oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione. Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso (cfr., con riferimento a fattispecie analoghe, Cons. Stato, V, 29 novembre 2012, n. 6071; Cons. Stato, V, 5 settembre 2011, n. 4982).

Non possono, pertanto, venire in rilievo aspetti relativi alla “eccessiva onerosità” dell’intervento.

Se si potessero prendere in esame anche questi profili si rischierebbe di trasformare l’istituto in esame in una sorta di “condono mascherato” con incidenza negativa grave sul complessivo assetto del territorio e in contrasto con la chiara determinazione del legislatore, che ha imposto che abbia luogo la demolizione parziale, tranne il caso in cui la relativa attività materiale incida sulla stabilità dell’intero edificio, e dunque anche nell’ipotesi in cui nella parte da demolire siano stati realizzati strumenti o impianti più o meno costosi”.

dott. Matteo Acquasaliente

CdS n. 1912 del 2013

Il direttore della stazione appaltante può essere presidente della gara e della commissione giudicatrice

30 Apr 2013
30 Aprile 2013

Il T.A.R. Veneto, nella sentenza n. 593/2013, si sofferma sull’art. 84, c. 4 , D. Lgs. 163/2006 secondo cui: “I commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”, per chiarire che non vi incompatibilità se il direttore della stazione appaltante assomma anche le funzioni di presidente della gara e della commissione giudicatrice, perché “l’art. 84, comma 4, del Dlgs. n. 163 del 2006, sancisce l’incompatibilità tra componente della commissione giudicatrice e lo svolgimento di funzioni relativamente al contratto, solo per i commissari diversi dal presidente, e il cumulo delle funzioni nella stessa persona non comporta una violazione dei principi di imparzialità e buona amministrazione, in quanto è conforme alla normativa applicabile all’ente (cfr. il Dlgs. n. 207 del 2001 e l’art. 13 dello statuto) la quale, mutuata da quella degli enti locali (cfr. l’art. 107 del Dlgs. n. 267 del 2000 per il quale al dirigente è attribuita la presidenza delle commissioni di gara e di concorso, la responsabilità delle procedure d'appalto e di concorso e la stipulazione dei contratti) e del codice degli appalti (cfr. art. 84, comma 3, del Dlgs. n. 163 del 2006), demanda al dirigente la presidenza della commissione e l’esercizio delle funzioni inerenti al procedimento (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 12 novembre 2012, n. 5703; Tar Puglia, Bari, Sez. I, 14 giugno 2012, n. 1183; Consiglio di Stato, Sez. V, 27 aprile 2012, n. 2445; Consiglio di Stato, Sez. VI, 28 settembre 2011 n. 5406; Consiglio di Stato, Sez. V, 22 giungo 2010, n. 3890), con l’ulteriore precisazione che l’assegnazione della responsabilità delle singole fasi procedimentali e dell’unitario procedimento di gara in capo al dirigente non confligge con il principio di separazione delle funzioni tra controllato e controllore perché l’approvazione degli atti di gara non è tecnicamente riconducibile alla nozione di controllo (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 12 giugno 2009, n. 3716; id. 18 settembre 2003, n. 5322)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 593 del 2013

Nelle aree private gravate da una servitù di uso pubblico i proprietari non possono collocare fioriere, panchine e vasi

30 Apr 2013
30 Aprile 2013

 Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 22 aprile 2013 n. 595, si occupa delle aree private gravate da una servitù di uso pubblico, chiarendo che il Comune può legittimamente ordinare la rimozione di fioriere, panchine e vasi prospicienti “il muro di cinta del giardino dell’edificio di proprietà”, qualora impediscano la libera circolazione dei veicoli ed il libero transito dei pedoni e siano forieri di problematiche igienico-sanitarie: “è pacifico che l'Amministrazione comunale, sulle aree gravate da una servitù di passaggio su un'area privata, debba esercitare il potere diretto a garantire ed a disciplinare l'uso generale del bene da parte della collettività, nell'ambito del pubblico interesse giustificativo della servitù medesima, concedendo l’uso particolare (cfr. l’art. 38, comma 3, del Dlgs. 15 novembre 1993, n. 507, che infatti assoggetta ad autorizzazione e al pagamento della relativa tassa l’occupazione di suolo privato ad uso pubblico);

 

- che nel caso di specie tali poteri sussistono in quanto, quand’anche la striscia di terreno fosse da qualificare come privata, quell’area è sicuramente assoggettata all’uso pubblico, in quanto gravata da lunghissimo tempo da una servitù di pubblico passaggio pedonale costante ed indiscriminato a favore della generalità di persone;

 

- che pertanto va respinta la censura di cui al secondo motivo, in quanto l’abusività dell’installazione delle fioriere e delle panchine è sufficiente a sorreggere l’ordine di rimozione e, come dedotto dal Comune nelle proprie difese, la presenza di tali manufatti è oggettivamente idonea a costituire un intralcio alla manutenzione del ciglio della strada, con conseguente degrado della stessa, ed intralcio alla circolazione dei veicoli e dei pedoni”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Venento 595 del 2013

Sulla legittimazione dei Consiglieri Comunali ad impugnare le deliberazioni consiliari

29 Apr 2013
29 Aprile 2013

Sulla legittimazione dei Consiglieri Comunali ad impugnare le deliberazioni dell’organo di cui fanno parte appare interessate riportare un insieme di pronunce giurisprudenziali:

-          “la legittimazione dei consiglieri dissenzienti ad impugnare le delibere dell’organo di cui fanno parte ha carattere eccezionale, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive, per cui esso rimane circoscritto alle ipotesi di lesione della loro sfera giuridica, quale ad esempio lo scioglimento e la nomina di un commissario ad acta, in cui detto effetto lesivo discenda ab externo rispetto all’organo di cui fa parte” (così la sentenza 31 gennaio 2001, n. 358);

-          “la legittimazione ad agire dei consiglieri non risiede nella deviazione dell’atto impugnato rispetto allo schema normativamente previsto, quando da essa non derivi la compressione di una prerogativa del loro ufficio protetta dall’ordinamento generale, occorrendo in ogni caso avere riguardo, a questo fine, “alla natura ed al contenuto della delibera impugnata” e non già delle norme interne relative al funzionamento dell’organo” (sentenza 15 dicembre 2005, n. 7122);

-          “conseguentemente, la contestazione dei consiglieri dissenzienti non può quindi limitarsi a censurare l'oggetto o le modalità di formazione della deliberazione senza dedurre che da esse ne sia derivata una lesione dalle loro prerogative, giacché questa non discende automaticamente da violazione di forma o di sostanza nell'adozione di un atto deliberativo” (sentenza 29 aprile 2010, n. 2457).

-          “l’omissione o il ritardo nel fornire ai consiglieri dell’ente locale gli atti presupposti ad una proposta di delibera non costituisce lesione delle prerogative inerenti l’ufficio di consigliere comunale, rimanendo la sua tutela circoscritta in un ambito esclusivamente politico, all’interno dell’organo di cui fanno parte affidata all’espressione a verbale del proprio dissenso” (sentenza 21 marzo 2012, n. 1610).

-          “la legittimazione dei consiglieri comunali ad impugnare la delibera di modificazione statutaria che attribuisce alla giunta poteri di disposizione delle partecipazioni nelle società controllate dall’ente comunale, sul rilievo che la sottrazione di tale oggetto alla competenza consiliare (art. 42, comma 2, lett. “e”, t.u.e.l.) sia conseguentemente lesiva delle prerogative dei componenti di tale organo” (sentenza 3 marzo 2005, n. 832);

-          parimenti affermativa della legittimazione del singolo consigliere nel caso “di deliberazioni collegiali che investano la sua sfera giuridica o siano state adottate con violazione delle norme attinenti al relativo procedimento formativo, in modo che egli non sia posto in condizione di potere svolgere regolarmente il suo ufficio” (sentenza 9 settembre 2007, n. 5280).

Sul punto è ritornato di recente il Consiglio di Stato, sez. V, che con la sentenza n. 2213 del 19 aprile 2013, ove ci si lamentava che, per effetto di illegittimità procedimentali, non era stato consentito un consapevole esercizio del voto da parte dei consiglieri sugli oggetti della delibera di variazione del bilancio, essendo mancata la necessaria attività istruttoria e di acquisizione documentale, con il risultato di impedire un dibattito effettivo e l’attivazione degli strumenti di sollecitazione del dissenso all’interno dell’organo consiliare. Sul punto ha stabilito che: “in base all’art. 42 t.u.e.l. il consiglio è l’organo di indirizzo politico-amministrativo, competente in ordine agli atti fondamentali per l’ente. Ad esso sono attribuite tutte le decisioni che ineriscono la definizione della politica generale e la realizzazione dei fini istituzionali del governo comunale. I singoli componenti, investiti di legittimazione popolare, “hanno diritto di iniziativa su ogni questione sottoposta alla deliberazione del consiglio”, nonché di ottenere dai competenti uffici dell’amministrazione “tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato” (art. 43, commi 1 e 2). L’ampia formulazione delle norme in esame si pone in stretta derivazione del principio di partecipazione democratica alle istituzioni rappresentative della sovranità popolare, a partire dal livello di governo più vicino ai cittadini, sostanziandosi nell’esigenza della collettività rappresentata, da cui tale sovranità promana, di venire a conoscenza di tutte le notizie utili sull’attività amministrativa dell’ente esponenziale, grazie alla pubblicità assicurata del dibattito consiliare. In stretta correlazione si colloca la composizione collegiale dell’organo, preordinata allo svolgimento di un dibattito sulle questioni poste all’ordine del giorno, la quale è inoltre quella idonea ad assicurare la necessaria ponderazione e confronto in ordine alle scelte fondamentali da adottare, oltre che di verifica democratica circa la posizione assunta dai gruppi politici e dai singoli componenti in relazione ed esse”.

Per questi motivi il Consiglio di  Stato condivide la scelta fatta, in precedenza dal TAR Piemonte (nella sentenza qui impugnata) di risolvere in senso positivo la questione della legittimazione ad agire dei consiglieri comunali appellanti.

dott.sa Giada Scuccato

sentenza CDS 2213 del 2013

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