Le zone agricole possono essere trasformate dal punto di vista edilizio e urbanistico solamente per soddisfare esigenze legate all’agricoltura

23 Gen 2014
23 Gennaio 2014

Lo precisa il TAR Veneto nella sentenza n. 17 del 2014.

Scrive il TAR: "Ebbene, in esito ad un più approfondito esame, il Collegio ritiene di dover rivisitare la propria interpretazione delle citate norme del p.r.g. del Comune di Vigodarzene adottata nella fase cautelare. Ed infatti, considerato il tenore neutrale di tali norme, che non vietano né consentono espressamente l’insediamento di attività improprie in zona agricola, nonché la teorica compatibilità tra la destinazione “residuale” dell’area agricola e l’insediamento di un’attività artigianale  previo cambio di destinazione d’uso di un fabbricato preesistente, il Collegio si era inizialmente orientato nel senso della compatibilità degli interventi in oggetto con la destinazione di zona. Tuttavia, a ben vedere, ad essere di ostacolo ad una tale ricostruzione interpretativa è la nettezza delle scelte operate dal legislatore regionale in ordine alla disciplina dell’edificabilità delle aree agricole. L’art. 44 della L.R. n. 11/2004, infatti, si apre stabilendo chiaramente che “nella zona agricola sono ammessi…esclusivamente interventi edilizi in funzione dell’attività agricola, siano essi destinati alla residenza che a strutture agricolo-produttive..”. Tale rigorosa affermazione, già tale da non lasciar spazio ad integrazioni interpretative, trova poi rafforzamento nelle successive previsioni del medesimo articolo in esame, in base alle quali qualsiasi intervento edilizio deve essere, non solo, strettamente funzionale all’attività agricola, ma anche necessario allo sviluppo dell’azienda agricola, sulla base di un “piano aziendale” che appunto dimostri l’effettiva necessità dei nuovi interventi. Non v’è dubbio, pertanto, che secondo la legge regionale il territorio agricolo può essere modificato in senso urbanistico (cioè funzionalmente) ed edilizio (ossia con costruzioni: edifici e manufatti in genere) solamente per soddisfare esigenze legate all’agricoltura. In tal senso si è espresso anche il Consiglio di Stato (sent. n. 798 del 12 febbraio 2010) laddove, a proposito dell’art. 44 L.R. 11/2004, ha affermato che: “certamente il legislatore (regionale) abbraccia una concezione estremamente rigorosa delle costruzioni in zona agricola, tanto da impedire del tutto nuovi interventi che non siano funzionali all’attività agricola, e quindi vieta espressamente, a chi non abbia i  requisiti previsti, qualsiasi tipo di realizzazione che sia assimilabile al concetto di intervento edilizio”. Ne consegue che gli artt. 17 e 18 del p.r.g. del Comune di Vigodarzene, i quali si limitano a disciplinare gli interventi ammessi in zona agricola, senza accennare alla possibilità di realizzarvi manufatti diversi da quelli agricolo-produttivi, devono essere interpretati, alla luce della superiore disciplina regionale appena esaminata, nel senso che gli unici interventi edilizi ammessi sono quelli esclusivamente funzionali all’attività agricola. Pertanto, il provvedimento di diniego di sanatoria è legittimo, essendo, gli interventi edilizi in oggetto, funzionali alla realizzazione di un compendio a destinazione artigianale non compatibile con la zona agricola".

avv. Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto n. 17 del 2014

 

Il soggetto non proprietario e non autore dell’abuso ma che ha la disponibilità dell’immobile può essere destinatario dell’ordinanza di demolizione?

23 Gen 2014
23 Gennaio 2014

Dice di si il TAR Veneto nella sentenza n. 17 del 2014.

Scrive il TAR: "3. Quanto all’ordine di demolizione, i ricorrenti, con il secondo motivo di ricorso, contestano che lo stesso sia stato indirizzato e notificato anche a soggetti terzi (G. C. e B. D. L.) non titolari di alcun diritto sugli immobili oggetto dell’ordinanza, né responsabili degli abusi contestati. Tale doglianza è in parte infondata, risultando che B. D. L., in quanto titolare della G. G., trovandosi nella disponibilità delle opere in oggetto ed essendo in condizione di intervenire su di esse per reprimere gli abusi contestati, è responsabile degli stessi e quindi destinataria ex lege dell’ordine di demolizione. Quanto invece a G. C., l’eccezione in esame non è idonea a determinare l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione, in quanto, se la stessa non è proprietaria degli immobili oggetto dell’ordinanza, essa non  subirà alcun effetto pregiudizievole in caso d’inottemperanza, e dunque residuerà un adempimento superfluo da parte dell’amministrazione inidoneo a determinare un vizio del provvedimento in esame, che è stato comunque indirizzato e notificato anche ai soggetti direttamente interessati".

L’inedificabilità del vincolo cimiteriale riguarda anche le strutture non finalizzate alla stabile presenza di persone

22 Gen 2014
22 Gennaio 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 19 del 2014, che riguarda la demolizione di un edificio per il quale era stato negato il rilascio del condono edilizio, perchè ricadente all'interno del vincolo cimiteriale.  

Scrive il TAR: "..il condono è stato negato per l’esistenza di un vincolo d’inedificabilità (art. 33, I comma, lett. d l. 47/85) quale regolato dal precitato art. 338. .. Questo prevede anzitutto (I comma) che “I cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal entro abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge”(I comma): peraltro, il consiglio comunale può approvare, “la costruzione di nuovi cimiteri o l'ampliamento di quelli già esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal centro abitato, purché non oltre il limite di 50 metri” quando ricorrano determinate condizioni. Il contravventore deve “demolire l'edificio o la parte di nuova costruzione, salvi i provvedimenti di ufficio in caso di inadempienza” (III comma). ... La tesi del ricorrente è che tali previsioni non si applicherebbero alle strutture non finalizzate alla stabile presenza di persone, e tali sarebbero quelle per cui è stato richiesto il condono. ... La censura va senz’altro respinta. Anzitutto, la norma non pone alcuna distinzione: del resto, il vincolo di rispetto cimiteriale trova la sua giustificazione anche in ragioni di decoro (alla “peculiare sacralità che connota i luoghi destinati a cimitero”, si riferisce C.d.S., V, 8 settembre 2008, n. 4256), e di possibili successivi ampliamenti della struttura, oltre che in intuibili ragioni igienicosanitarie. È da aggiungere che sarebbe concretamente assai difficile stabilire quale  tipologia di manufatto sia compatibile con i predetti motivi di tutela igienico-sanitaria: certamente non quelli oggetto della domanda di condono, parte integrante della struttura alberghiera e destinati, dunque, ad essere utilizzati con continuità dal personale e dalla clientela”. Ciò premesso, il provvedimento di diniego qui impugnato, ha ribadito, anche per gli interventi di trasformazione proposti dal ricorrente (peraltro su manufatti già confermati come abusivi e quindi da demolire in toto), il contrasto della loro presenza con la destinazione impressa all’area sulla quale essi insistono dalle n.t.a. del vigente P.R.G., quale zona di rispetto cimiteriale, per la quale, in base al Testo Unico in materia sanitaria, n. 1265/34, è consentita la sola costruzione di chioschi provvisori con vincolo legale di precarietà per fiori ed arredi sacri, con specifiche dimensioni ivi parimenti indicate. E’ quindi evidente che, al di là dell’eventuale osservanza delle garanzie di igiene che parte ricorrente ritiene sufficienti per consentire ugualmente la realizzazione di manufatti aventi diversa destinazione e conformazione, lo spirito della norma è quello di limitare proprio la tipologia dei manufatti da realizzare nell’ambito della zona di rispetto cimiteriale, la quale , come noto, è di per sé inedificabile, salvo le sole  peculiari eccezioni di cui sopra, strettamente connesse al culto dei defunti. Il contrasto con la destinazione di zona è quindi evidente e non superabile, anche seguendo l’interpretazione più estensiva suggerita da parte ricorrente, in quanto tali manufatti, anche se trasformati secondo il progetto di recupero presentato, esorbitano in ogni caso dalle specifiche tipologie ammesse dalle n.t.a., in perfetta aderenza alle prescrizioni del Testo Unico. Oltre a tali considerazioni, di per sé comunque assorbenti ogni ulteriore motivazione del diniego opposto, va ribadita l’abusività dei manufatti sui quali il ricorrente intende realizzare gli interventi di trasformazione, con l’evidente conseguenza per cui trattasi di interventi non ammissibili in quanto aventi per oggetto immobili abusivi, di cui doveva già essere effettuata la demolizione. Per tutte le considerazioni sin qui espresse quindi il ricorso non è fondato e va respinto".

avv. Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto n. 19 del 2014

Il Consiglio di Stato promuove la norma della L.U. Toscana, simile a quella Veneta, che prevede la decadenza delle previsioni di trasformazione qualora entro cinque anni dall’approvazione del piano non sia stata stipulata la relativa convenzione

22 Gen 2014
22 Gennaio 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del Consiglio di Stato n. 44 del 2014.

Scrive il Consiglio di Stato: ""....Si evidenzia in particolare che l’art. 55 della L.R. Toscana 3-1-2005 n. 1 (Norme per il governo del territorio) così dispone:

1. Il regolamento urbanistico disciplina l'attività urbanistica ed edilizia per l'intero territorio comunale; esso si compone di due parti:

a) disciplina per la gestione degli insediamenti esistenti;

b) disciplina delle trasformazioni degli assetti insediativi, infrastrutturali ed edilizi del territorio.

omissis...

4. Mediante la disciplina di cui al comma 1 lettera b), il regolamento urbanistico individua e definisce:

a) gli interventi di addizione agli insediamenti esistenti consentiti anche all'esterno del perimetro dei centri abitati;

b) gli ambiti interessati da interventi di riorganizzazione del tessuto urbanistico;

c) gli interventi che, in ragione della loro complessità e rilevanza, si attuano mediante i piani di cui al presente titolo, capo IV, sezione I;

d) le aree destinate all'attuazione delle politiche di settore del comune;

e) le infrastrutture da realizzare e le relative aree;

f) il programma di intervento per l'abbattimento delle barriere architettoniche ed urbanistiche, contenente il censimento delle barriere architettoniche nell'ambito urbano e la determinazione degli interventi necessari al loro superamento, per garantire un'adeguata fruibilità delle strutture di uso pubblico e degli spazi comuni delle città;

g) la individuazione dei beni sottoposti a vincolo ai fini espropriativi ai sensi degli articoli 9 e 10 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità);

h) la disciplina della perequazione di cui all'articolo 60.

5. Le previsioni di cui al comma 4 ed i conseguenti vincoli preordinati alla espropriazione sono dimensionati sulla base del quadro previsionale strategico per i cinque anni successivi alla loro approvazione; perdono efficacia nel caso in cui, alla scadenza del quinquennio dall'approvazione del regolamento o dalla modifica che li contempla, non siano stati approvati i conseguenti piani attuativi o progetti esecutivi.

6. Nei casi in cui il regolamento urbanistico preveda la possibilità di piani attuativi di iniziativa privata, la perdita di efficacia di cui al comma 5 si verifica allorché entro cinque anni non sia stata stipulata la relativa convenzione ovvero i proponenti non abbiano formato un valido atto unilaterale d'obbligo a favore del comune.

7. Alla scadenza di ogni quinquennio dall'approvazione del regolamento urbanistico, il comune redige una relazione sul monitoraggio degli effetti di cui all'articolo 13.

 All’evidenza, la disposizione di cui al comma 6 detta una prescrizione specifica “dedicata” ai piani attuativi di iniziativa privata, che prescinde del tutto dalla natura della prescrizione vincolistica: costituisce illazione, infatti, non suffragata dalla portata testuale della norma, l’affermazione secondo la quale, per i piani attuativi privati, la disposizione vada restrittivamente intesa, nel senso che la perdita di efficacia operi soltanto allorchè i vincoli abbiano natura espropriativa e non conformativa.

2.3. Fermo il detto convincimento, aderente al dato letterale ivi contenuto, neppure persuade la ratio della necessità di una interpretazione restrittiva della detta disposizione, siccome postulato da parte appellante.

2.4. E’ ben vero che la legislazione nazionale è ancorata al binomio vincolo conformativo/durata indeterminata, vincolo espropriativo/scadenza prefissata.

Ma è altresì vero, che tale scissione concettuale “nasce” a tutela della posizione del privato e si rende necessaria alla stregua dei principi espressi dalla Corte costituzionale, con la “storica” sentenza 20 maggio 1999, n. 179 (dichiarativa dell'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 7, n. 2, 3 e 4 e 40 della L. 17 agosto 1942, n. 1150, e 2, primo comma, della L. 19 novembre 1968, n. 1187, nella parte in cui consente all'Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificabilità, senza la previsione di un indennizzo).

Il che ha portato la uniforme giurisprudenza amministrativa ad affermare (ex multis Cons. Stato Sez. V, 13-04-2012, n. 2116) che “i vincoli urbanistici non indennizzabili, che sfuggono alla previsione del predetto articolo 2 della L. 19 novembre 1968, n. 1187, sono quelli che riguardano intere categorie di beni, quelli di tipo conformativo e i vincoli paesistici, mentre i vincoli urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, che devono invece essere indennizzati, sono:

a) quelli preordinati all'espropriazione ovvero aventi carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà, se non discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore statale o regionale, attraverso l'imposizione a titolo particolare su beni determinati di condizioni di inedificabilità assoluta;

b) quelli che superano la durata non irragionevole e non arbitraria ove non si compia l'esproprio o non si avvii la procedura attuativa preordinata a tale esproprio con l'approvazione dei piani urbanistici esecutivi;

c) quelli che superano quantitativamente la normale tollerabilità, secondo una concezione della proprietà regolata dalla legge nell'ambito dell'art. 42 Cost..”.

 Non apparirebbe quindi contrario ad alcun principio, né collidente con la valutazione espressa dal Giudice delle leggi, una prescrizione contenuta in una legge regionale che prevedesse la perdita di efficacia anche dei vincoli conformativi (mentre, al contrario, lo sarebbe certamente, l’inversa ipotesi di una durata sine die di quelli espropriativi).

geom. Daniele Iselle

sentenza CDS n. 44 del 2014

Per il TAR Veneto è tramontata l’era dell”IPSE DIXIT” della Soprintendenza‏

21 Gen 2014
21 Gennaio 2014

Con una serie di recenti sentenze di costante orientamento, il TAR Veneto dice che la motivazione di taluni dinieghi in materia paesaggistica da parte delle Soprintendenza risulta: "...vaga ed inconsistente e denota una carente istruttoria...".

A leggere le sentenze del TAR Veneto sembrerebbe finita l'era dell'ipse dixit delle Soprintendenze quali "supreme autorità".

Anch'esse sembrerebbero oramai cadute dall'Olimpo e rientrate a pieno titolo nel novero delle normali comuni autorità amministrative; per sostenere i loro dinieghi non pare possano più pretendere di dire: "è così perchè lo dico io" (che finora era diventato anche: "è così perchè lo ha detto la Soprintendenza") .  Anche le Soprintendenze devono tenere in debito conto la legge 241/90 in materia di procedimento amministrativo ed eventualmente, se non concordano, motivare in fatto e controdedurre in modo analitico e puntuale rispetto alle posizioni espresse da altre autorità amministrative in corso di procedimento.

Il TAR Veneto restituisce così dignità ai comuni subdelegati dalla regione in materia paesaggistica ed alle commissioni del paesaggio, ove confermate.

Indico come esempi di questo orientamento le sentenze del TAR Veneto n.  44 e n. 51 del 2014.

 Peraltro segnalo, oltre a queste citate, anche altre recenti sentenze nelle quali il TAR Veneto esprime il proprio orientamento critico sui provvedimenti negativi della Soprintendenza:

 - TAR Veneto - sentenza n. 1407/2013: " 2. Per quanto concerne il ricorso 2151/11 è possibile disporne l’accoglimento, con conseguente annullamento dei provvedimenti impugnati, ritenendo sul punto fondato il primo motivo, nell’ambito del quale si censura il carattere apodittico e generico della motivazione.";

 - TAR Veneto - sentenza n. 1294/2013 - "che, invero, detta valutazione, pur espressione di un potere di discrezionalità tecnica, risulta del tutto apodittica e generica, in quanto prescinde dall’esprimere un giudizio riferito, in concreto, all’intervento di cui si tratta;"

 - TAR Veneto - sentenza n. 1104/2013 . " 1.2 La semplice lettura della motivazione sopra citata consente di rilevare come la valutazione, pur espressione di un potere di discrezionalità tecnica, sia del tutto apodittica e generica, in quanto prescinde dall’esprimere un giudizio riferito, in concreto e all’intervento di cui si tratta." ;

 - TAR Veneto - sentenza n. 48/2014 - "Il ricorso può essere accolto, risultando fondato il primo motivo del ricorso, mediante il quale si sostiene il carattere apodittico e generico della motivazione contenuta nel parere della Soprintendenza".

Confidiamo che il Consiglio di Stato confermi tale innovativo orientamento del TAR Veneto.

dott. David De Arena

sentenza TAR Veneto n. 44 del 2013

sentenza TAR veneto n. 51 del 2014

Anche i procedimenti per l’adozione degli atti amministrativi generali di pianificazione e di programmazione (es. PRAC) sono soggetti al dovere di conclusione del procedimento di cui all’art. 2 della legge n. 241/1990

21 Gen 2014
21 Gennaio 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 47 del 2014.

Scrive il TAR: "4. Ciò premesso è possibile accogliere il ricorso ritenendo illegittimo il silenzio serbato dalla Regione Veneto avverso le precedenti diffide e, più in generale, in conseguenza della violazione dell’obbligo di approvare il piano Regionale dell’attività di cava entro “dodici mesi dall'entrata in vigore della presente legge secondo le procedura stabilite dall'art. 7” ai sensi di quanto previsto dall’art. 42 della L. reg. 44/1982.

5. Sul punto è del tutto irrilevante, sostenere che il termine di cui all’art. 42 non ha carattere perentorio, bensì ordinatorio.

5.1 E’, al contrario, dirimente constatare la violazione di una puntuale e frazionata procedura, nell’ambito della quale le singole fasi procedimentali sono dettagliatamente disciplinate dall’art. 7 della disciplina sopra richiamata.

5.2 L'art. 2 della l. n. 241/1990, nella parte in cui ricomprende uno dei principi fondamentali dell'ordinamento in tema di azione amministrativa, sancisce l'obbligo per l'amministrazione di concludere ogni procedimento con un provvedimento espresso entro un termine certo e, ciò, a prescindere dal carattere perentorio o ordinatorio dello stesso.

5.3 E’ del pari confermato da un costante orientamento giurisprudenziale che anche i procedimenti per l'adozione degli atti amministrativi generali di pianificazione e di programmazione sono soggetti al dovere di conclusione del procedimento di cui all'art. 2 della legge n. 241/1990 (in questo senso si veda Cons. Stato Sez. V, 29-05-2006, n. 3265).

5.4 Nel caso di specie la mancata approvazione del Piano Regionale dell’attività di cava ha l’effetto di impedire lo svolgimento dell’attività estrattiva con inevitabili ripercussioni nel mercato di riferimento e, ciò, considerando come lo strumento pianificatorio costituisca un presupposto essenziale per le attività dell’intero settore.

5.5 Si consideri, ancora, come la violazione di detto termine sia stata riconosciuta illegittima già da due pronunce, in quanto riferite sia a questo Tribunale Amministrativo sia, ancora, al Consiglio di Stato e, ciò, senza che il comportamento inerte sia cessato.

6. Costituisce, altresì, carattere dirimente constatare come anche nell’atto di costituzione dell’Amministrazione non sia possibile evincere le ragioni di detta inerzia, protrattasi per un così considerevole periodo di tempo, risultando al contrario evidente i soli tentativi di approvazione, non conclusisi in un provvedimento definitivo.

6.1 Detta accertata inerzia non è suscettibile di venire meno con la semplice “adozione” del Piano sopra citato e, ciò, considerando come ne risulti comunque violata la procedura di cui all’art. 7 e, contestualmente, lo stesso termine di cui all’art. 42 nella parte in cui si richiede che il Piano di cui si tratta venga “approvato” entro i dodici mesi sopra citati.

7. Ne consegue che deve ritenersi illegittima l’inerzia della Regione Veneto protratta nell’approvazione del Piano sopra citato".

geom. Daniele Iselle 

sentenza TAR veneto n. 47 del 2014

Ingegnere impara l’arte e mettila da parte

21 Gen 2014
21 Gennaio 2014

Il Consiglio di Stato, sez. VI, nella sentenza del 09 gennaio 2014 n. 21, dichiara che gli ingegneri possono essere esclusi dall’attribuzione di incarichi professionali afferenti la direzione di lavori relativi ad immobili di interesse storico-artistico perché tali compiti spettano, almeno parzialmente, ai soli architetti ex art. 52 del R.D. 2537 del 1925 il quale prevede che: “1. Formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative. 2.Tuttavia le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla L. 20 giugno 1909, n. 364, per l'antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere”.

 A tal fine si riportano i passi salienti della sentenza:

  • in entrambi i ricorsi in appello che vengono all’esame di questo Consiglio di Stato viene riproposta, sia pure con prospettazione asimmetrica nelle distinte controversie, in ragione delle antitetiche posizioni processuali delle parti, la questione della compatibilità comunitaria della disciplina normativa italiana che riserva ai soli architetti le prestazioni principali sugli immobili di interesse culturale (art. 52 del R.D. del 22 ottobre 1925 n. 2537). Nel ricorso in appello RG n.6736/08, in particolare, è il Ministero dei beni e le attività culturali a censurare la sentenza di accoglimento del T.A.R. del Veneto, rilevando che dalla stessa ordinanza della Corte di Giustizia 5 aprile 2004 si ricaverebbe il principio secondo cui la diversificazione normativa nell’accesso ad alcune prestazioni particolari dell’architettura, oltre che essere una esclusiva prerogativa statuale, come tale estranea alla sfera di intervento del diritto comunitario, rappresenterebbe anche una soluzione coerente con la diversità dei percorsi formativi degli ingegneri e degli architetti. (...) Nel ricorso in appello RG n. 2527/09 sono gli ordini provinciali degli ingegneri del Veneto a censurare la sentenza di rigetto di primo grado ed a riproporre, sia pure in via subordinata, la stessa questione afferente la illegittimità de iure communitario dell’articolo 52 del R.D. 22 ottobre 1925 n. 2537, sostenendosi in via principale l’affidabilità (anche) agli ingegneri dell’incarico oggetto d’appalto, in ragione della natura delle attività oggetto di gara, in tesi estranee al campo applicativo delle prestazioni riservate agli architetti secondo la richiamata disposizione di diritto interno. Con la richiamata ordinanza 27 gennaio 2012, n. 386 questo Consiglio ha ritenuto che, al fine della definizione della controversia, fosse necessario investire la Corte di giustizia dell’UE di due quesiti pregiudiziali ai sensi dell’articolo 267 del TFUE”;
  • La Corte di giustizia ha definito il ricorso per rinvio pregiudiziale con la sentenza della Quinta Sezione 21 febbraio 2013 (in causa C-111/12). Con tale decisione, in particolare, la Corte ha statuito che gli articoli 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE del Consiglio, del 10 giugno 1985, concernente il reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli del settore dell’architettura e comportante misure destinate ad agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione di servizi, devono essere interpretati nel senso che essi ostano ad una normativa nazionale secondo cui persone in possesso di un titolo rilasciato da uno Stato membro diverso dallo Stato membro ospitante - titolo abilitante all’esercizio di attività nel settore dell’architettura ed espressamente menzionato al citato articolo 11 - possono svolgere, in quest’ultimo Stato, attività riguardanti immobili di interesse artistico solamente qualora dimostrino, eventualmente nell’ambito di una specifica verifica della loro idoneità professionale, di possedere particolari qualifiche nel settore dei beni culturali”;
  • Nel merito, il ricorso n. 6736/2008 – proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali – deve essere accolto, mentre deve essere respinto il ricorso n. 2527/2009 – proposto dagli Ordini degli Ingegneri delle Province del Veneto”;
  • Per quanto riguarda, in primo luogo, la delimitazione dell’ambito oggettivo della richiamata, parziale riserva, la giurisprudenza di questo Consiglio ha condivisibilmente osservato che, ai sensi dell’articolo 52, cit., non la totalità degli interventi concernenti gli immobili di interesse storico e artistico deve essere affidata alla specifica professionalità dell’architetto, ma solo “le parti di intervento di edilizia civile che riguardino scelte culturali connesse alla maggiore preparazione accademica conseguita dagli architetti nell’ambito del restauro e risanamento degli immobili di interesse storico e artistico”, restando invece nella competenza dell’ingegnere civile la cd. parte tecnica, ossia “le attività progettuali e di direzione dei lavori che riguardano l’edilizia civile vera e propria (…)” (in tal senso: Cons. Stato, VI, 11 settembre 2006, n. 5239)”;
  • Sempre con riferimento all’ambito di applicazione della parziale riserva di cui al più volte richiamato articolo 52, la giurisprudenza nazionale (ancora una volta, sulla scorta dei chiarimenti interpretativi forniti dalla Corte di giustizia dell’UE) ha ulteriormente chiarito che le disposizioni della direttiva 85/384/CEE (concernente il reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli del settore dell'architettura e comportante misure destinate ad agevolare l'esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione di servizi e da ultimo trasfusa nel corpus della direttiva 2005/37/CE) non hanno in alcun modo comportato la piena equiparazione dei titoli di architetto e di ingegnere civile ai fini dell’esercizio delle attività professionali nel campo dell’architettura”;
  • In definitiva, secondo la Corte di giustizia, la più volte richiamata direttiva non impone allo Stato membro di porre i diplomi di laurea in architettura e in ingegneria civile indicati all’articolo 11 su un piano di perfetta parità per quanto riguarda l’accesso alla professione di architetto in Italia; né tantomeno essa può essere di ostacolo ad una normativa nazionale che riservi ai soli architetti i lavori riguardanti gli immobili d’interesse storico-artistico sottoposti a vincolo (in tal senso: Cons. Stato, sent. 5239/06, cit.)”;
  • In definitiva la Corte ha ritenuto di non potersi pronunziare in modo espresso sul se la normativa italiana rilevante comporti o meno un fenomeno di ‘discriminazione alla rovescia’ in danno dei professionisti italiani (giacché ciò esula dalle sue competenze istituzionali, le quali non includono le ‘situazioni puramente interne’, al cui ambito sono pacificamente da ricondurre le controversie in esame – punto 34 della motivazione -). Tuttavia, la Corte ha ritenuto di dover comunque definire e chiarire ulteriormente i contorni applicativi della normativa comunitaria dinanzi richiamata (e segnatamente, degli obblighi di mutuo riconoscimento di cui agli articoli 7, 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE) al fine di consentire a questo Giudice del rinvio di disporre di una quadro conoscitivo più completo per definire il giudizio – ad esso solo demandato in via esclusiva – relativo alla sussistenza o meno del richiamato fenomeno di discriminazione alla rovescia”;
  • il Collegio ritiene che l’esame degli atti di causa e della pertinente normativa comunitaria e nazionale non palesino i paventati profili di discriminazione alla rovescia in danno dell’ingegnere civile italiano, al quale (nella tesi degli ordini degli Ingegneri appellanti nel ricorso n. 2527/2009, condivisa dal T.A.R. del Veneto con la sentenza n. 3630/2007) sarebbe indiscriminatamente e irrazionalmente vietato l’esercizio di alcune attività professionali (quelle inerenti gli interventi sui beni di interesse storico e artistico) le quali – al contrario – sarebbero altrettanto indiscriminatamente consentite agli Ingegneri di altri Paesi dell’Unione europea”;
  • nello stato attuale di evoluzione del diritto comunitario, la disciplina sostanziale dell’attività degli architetti e degli ingegneri non costituisce oggetto di armonizzazione, né di ravvicinamento delle legislazioni, così come risulta allo stato non armonizzata la disciplina delle condizioni di accesso a tali professioni, ragione per cui non risulta esatto affermare (contrariamente a quanto si legge a pag. 10 della sentenza n. 3630, cit.) che la direttiva 384, cit. avrebbe sancito la piena “equiordinazione sul piano comunitario dei titoli di ingegnere civile e di architetto”;
  • è del tutto determinante osservare che (contrariamente a quanto affermato nell’impugnata sentenza n. 3630/2007 e a quanto sembrano sostenere gli Ordini degli ingegneri appellanti nel ricorso n. 2527/2009) non tutti i diplomi, certificati e altri titoli di ingegnere civile rilasciati da altri Paesi dell’UE consentono l’indifferenziato svolgimento di tutte le attività proprie della professione di architetto.Al contrario, l’esame della pertinente normativa comunitaria (e, segnatamente, dell’articolo 7 della direttiva 85/384/CEE) rende chiaro che l’inclusione negli elenchi nazionali predisposti – per così dire – ‘a regìme’ ai sensi del medesimo articolo 7 è consentita solo ai professionisti i quali abbiano svolto un adeguato percorso di formazione tipico della professione di architetto”;
  • conclusivamente, non è possibile affermare che il sistema normativo nazionale di parziale riserva in favore degli architetti delle attività previste dall’articolo 52 del R.D. 2537 del 1925 sia idoneo a sortire in danno degli ingegneri italiani l’effetto di ‘discriminazione alla rovescia’ richiamato dalla sentenza del T.A.R. del Veneto n. 3630/2007 e la cui sussistenza in concreto la stessa Corte di giustizia ha demandato alla verifica in sede giudiziale da parte di questo Giudice del rinvio, trattandosi pur sempre – secondo quanto statuito dalla medesima Corte – di controversia nell’ambito della quale vengono pacificamente in rilievo ‘situazioni puramente interne’ (in tal senso: CGCE, sentenza in causa C-111/12, cit. punto 34).6.3. E il richiamato (e meramente paventato) effetto di ‘reverse discrimination’ quale effetto della previsione di cui all’articolo 52, cit. deve essere escluso sia per quanto riguarda il particolare sistema transitorio e derogatorio di cui agli articoli 10 e 11 della direttiva 85/384/CEE, sia per quanto riguarda il sistema ‘a regime’ di cui all’articolo 7 della medesima direttiva” (...) Al riguardo si osserva che, secondo un condiviso orientamento, la parziale riserva di cui al più volte richiamato articolo 52 non riguarda la totalità degli interventi concernenti immobili di interesse storico e artistico, ma inerisce alle sole parti di intervento di edilizia civile che implichino scelte culturali connesse alla maggiore preparazione accademica conseguita dagli architetti nell’ambito delle attività di restauro e risanamento di tale particolarissima tipologia di immobili (si richiama ancora una volta, al riguardo, la sentenza di questo Consiglio n. 5239 del 2006)”;
  • Infine, non può trovare accoglimento il terzo motivo di appello, con il quale (reiterando ancora una volta un motivo di doglianza già articolato in primo grado e disatteso dal T.A.R.) si è lamentata l’illegittimità della scelta di riservare agli architetti anche il ruolo di coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione”.

dott. Matteo Acquasaliente

Cons_Stato_VI_21-2014_riserva_architetti

Consiglio di Stato: è illegittimo suddividere artatamente un intervento di fatto unitario in cinque comparti e considerarlo in altrettanti procedimenti di verifica di assoggettabilità al posto di un unico procedimento di VIA

20 Gen 2014
20 Gennaio 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del Consiglio di Stato n. 36 del 2014, che conferma la sentenza T.A.R. Sardegna, sez. II, 6 febbraio 2012, n. 427  .

Scrive il Consiglio di Stato: "...Come si è già avuto modo di illustrare nella precedente esposizione in fatto, il I giudice ha, in sostanza, ritenuto illegittimi gli atti amministrativi (in specie, determinazioni regionali) con i quali si è esclusa la necessità di sottoposizione a VIA degli strumenti che, mediante idonea pianificazione, consentono un intervento di vaste dimensioni in loc. Capo Malfatano del Comune di Teulada, poiché la decisione di esclusione è il frutto di un “travisamento dei fatti”, ottenuto attraverso una analisi parcellizzata dell’intervento, effettuata valutando singolarmente ciascun sub-comparto, così perdendo di vista l’unitarietà (e dunque, l’aggressività per l’ambiente) dell’intervento che si andava a pianificare e, successivamente, ad autorizzare e realizzare.

La sentenza appellata ha innanzi tutto precisato che le considerazioni con le quali la Regione (con le determinazioni nn. 2205/2002 e 2218/2002) ha escluso di procedere a VIA sono “assai scarne e senza, comunque, prendere in considerazione il problema dell’unitarietà o frammentazione della verifica in relazione ai singoli sub comparti”. E ciò mentre “l’area oggetto dell’intervento proposto dalla SITAS costituisce un contesto ambientale di enorme pregio, in relazione al quale dovranno essere adeguatamente valutati, sotto il profilo motivazionale ed istruttorio, gli atti (impugnati) in virtù dei quali le amministrazioni interessate hanno ritenuto compatibile un intervento di enormi dimensioni (139.000 metri cubi complessivi, richiamando la cifra indicata dalla stessa difesa del Comune di Teulada. . . ), capace di interessare - in virtù di cinque piani di lottizzazione formalmente distinti - sei dei nove sub comparti in cui il vigente P.U.C. articola l’intera loc. Malfatano, mediante la realizzazione di insediamenti residenziali ed alberghieri posizionati a breve distanza dal mare”.

Secondo la sentenza:

“l’aver effettuato la cd. “verifica preliminare” di compatibilità in modo parcellizzato di per sé configura un gravissimo travisamento dei fatti, tale da compromettere in radice l’accertamento degli effetti ultimi sull’ambiente di un intervento di enorme entità, operato in una zona da tempo sottoposta a vincolo paesaggistico”, mentre era evidente che, “a prescindere dalla sua formale scomposizione in sub comparti, l’intervento proposto fosse sostanzialmente unitario”, trattandosi di “interventi connessi sotto il profilo soggettivo, territoriale ed ambientale”.

In conclusione, “in tale contesto l’assenza di una valutazione complessiva ai fini della (sola) V.I.A. si pone in radicale contrasto con la sua ontologica finalità, che è quella di accertare gli effetti ultimi dell’intero intervento sull’ambiente, nonché di valutarne la compatibilità e/o di suggerire sistemi ‘di minor impatto’, senza esclusione della cd. ‘opzione zero’ ”.

I motivi di appello proposti lamentano, in sostanza:

- una invasione, da parte del giudice, del cd. “merito” amministrativo, poiché si perverrebbe “a sovrapporre il proprio giudizio di merito a quello assunto dalle competenti amministrazioni nell’esercizio delle loro prerogative di discrezionalità tecnica” (così app. Comune, pag. 24) ed in ogni caso, la decisione, frutto di esercizio di discrezionalità tecnica, è assistita da sufficiente motivazione, in quanto quest’ultima va rapportata “a quanto richiesto ad una procedura che, per scelta legislativa, poteva validamente concludersi in senso positivo con un pronunciamento tacito” (app. SITAS, pag. 51);

- la congruità della assunta decisione di non sottoposizione a VIA, posto che l’area turistica, inserita all’interno del Piano urbanistico comunale, è da questo suddivisa in cinque sub comparti “anche in considerazione della loro non contiguità, appartenenza a versamenti differenti, separazione fisica e orografica”; ne consegue che “gli indici di valutazione unitaria sono da ritenersi errati visto che le parti di territorio non sono finitime, infatti i sub comparti sono posizionati in aree distanti 2,5 – 3 Km con discontinuità orografiche e territoriali, tali per cui sarebbe illogico procedere ad una valutazione unica. Inoltre gli stessi non sono funzionalmente connessi, in quanto alcuni hanno destinazione alberghiera ed altri residenziale” (app. SITAS, pag. 42-43). In definitiva, si tratta di “piani di lottizzazione autonomi, approvabili e realizzabili singolarmente e privi di un rapporto di interdipendenza funzionale” (app. Comune, pagg. 22-23); né rileva l’unicità della proprietà dell’area (app. SITAS, pag. 43; app. Comune, pagg. 22);

- infine, la riconducibilità dell’intervento al punto 8, lett. a), All. b) DPR 12 aprile 1996, posto che gli interventi di cui all’All. b) sono da sottoporre necessariamente a VIA, ai sensi dell’art. 1, co. 4, DPR cit., solo se “ricadono, anche parzialmente, all’interno di aree naturali protette come definite dalla legge 6 dicembre 1991 n. 394”; ebbene “nessuna di queste aree naturali protette è presente nella zona interessata dagli interventi SITAS”.

Orbene, come la giurisprudenza ha già avuto modo di osservare (Cons. Stato, sez. IV, 5 luglio 2010 n. 4246), con considerazioni da ribadire nella presente sede, la valutazione di impatto ambientale (VIA) è preordinata alla salvaguardia dell’habitat nel quale l’uomo vive, che assurge a valore primario ed assoluto, in quanto espressivo della personalità umana (Cons. St., sez. VI, 18 marzo 2008, n. 1109), attribuendo ad ogni singolo un autentico diritto fondamentale, di derivazione comunitaria (direttiva 27 luglio 1985 n. 85/337/CEE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati); diritto che obbliga l’amministrazione a giustificare, quantomeno ex post ed a richiesta dell’interessato, le ragioni del rifiuto di sottoporre un progetto a V.I.A. all’esito di verifica preliminare (Corte giust. 30 aprile 2009, C-75/08).

A tali fini, l’ambiente rileva non solo come paesaggio, ma anche come assetto del territorio, comprensivo di ogni suo profilo, e finanche degli aspetti scientifico–naturalistici (come quelli relativi alla protezione di una particolare flora e fauna), pur non afferenti specificamente ai profili estetici della zona.

A conferma di ciò, occorre ricordare che la Corte Costituzionale (sent. 7 novembre 2007 n. 367), ha affermato che “lo stesso aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e culturali che contiene, è di per sé un valore costituzionale”, da intendersi come valore “primario” (Corte Cost., sentt. nn. 151/1986; 182/2006), ed “assoluto” (sent. n. 641/1987).

A fronte di quanto esposto, la VIA non può essere, dunque, intesa come limitata alla verifica della astratta compatibilità ambientale dell’intervento, ma si sostanzia in una analisi comparata tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto rispetto all’utilità socio economica, tenuto conto delle alternative praticabili e dei riflessi della stessa “opzione zero”. In questo senso, la natura discrezionale della decisione finale (e della preliminare verifica di assoggettabilità), sul versante tecnico ed anche amministrativo, rende fisiologico - e coerente con la ratio dell’istituto innanzi evidenziata - che si pervenga ad una soluzione negativa tutte le volte in cui l’intervento proposto cagioni un sacrificio ambientale superiore a quello necessario per il soddisfacimento dell’interesse diverso sotteso all’iniziativa.

Ne discende la possibilità di bocciare progetti che arrechino un vulnus non giustificato da esigenze produttive, ma suscettibile di venir meno, per il tramite di soluzioni meno impattanti in conformità al criterio dello sviluppo sostenibile e alla logica della proporzionalità tra consumazione delle risorse naturali e benefici per la collettività che deve governare il bilanciamento di istanze antagoniste (Cons. St., sez. VI, 22 febbraio 2007, n. 933).

In questa direzione, la giurisprudenza comunitaria conferisce alla procedura di V.I.A., nel quadro dei mezzi e modelli positivi preordinati alla tutela dell’ambiente, un ruolo strategico, valorizzando le disposizioni della direttiva 85/337, che evidenziano come la politica comunitaria dell’ambiente consista, innanzi tutto, nell’evitare fin dall’inizio inquinamenti ed altri danni all’ambiente, anziché combatterne successivamente gli effetti; in pratica, la tutela preventiva dell’ambiente (Corte giust., sez. V, 21 settembre 1999, c-392/96; sez. VI, 16 settembre 1999, c-435/97).

Tanto premesso, occorre ricordare che il giudizio di valutazione di impatto ambientale e l’atto di verifica preliminare costituiscono esercizio di una ampia discrezionalità tecnica, censurabile, in sede di sindacato di legittimità, oltre che per incompetenza e violazione di legge, anche in relazione alle figure sintomatiche di eccesso di potere per difetto, insufficienza o contraddittorietà della motivazione, ovvero per illogicità o irragionevolezza della scelta operata, o anche per difetto di istruttoria, errore di fatto, travisamento dei presupposti (Cons. St., sez. IV, 5 luglio 2010, n. 4246; sez. VI, 19 febbraio 2008, n. 561; sez. VI, 30 gennaio 2004, n. 316; Trib. Sup. acque pubbliche, 11 marzo 2009, n. 35).

Tanto premesso in linea generale, nel caso di specie, la sentenza appellata non risulta avere sconfinato dai limiti propri del sindacato giurisdizionale di legittimità, procedendo anzi, in modo coerente con detti limiti:

- sia ad individuare la natura dell’intervento;

- sia la particolare valenza ambientale della località (Capo Malfatano), in cui l’intervento sarebbe venuto a collocarsi;

- sia, infine, le ragioni di “collegamento funzionale” tra sub comparti in vista del complessivo intervento pianificatorio, tali da rendere necessaria una valutazione unitaria dell’intervento, ai fini del decidere sulla sua sottoponibilità (o meno) a V.I.A..

Ovviamente, le considerazioni sviluppate in sentenza ben possono essere oggetto (come peraltro avvenuto nel caso di specie), di specifici motivi di impugnazione, volti a dimostrare gli “errores in iudicando” in cui la stessa sarebbe incorsa. Ma costituiscono aspetti ben differenti, da un lato, l’imputare al giudice di avere debordato dai limiti propri del suo potere di sindacato di legittimità e, dall’altro, censurare nel merito il percorso argomentativo della decisione o singoli aspetti di questa.

15. Il Collegio rileva che – come affermato dalla sentenza appellata – l’area oggetto dell’intervento proposto dalla SITAS costituisce un contesto ambientale di enorme pregio (alla luce degli specifici e plurimi riscontri indicati dal I giudice).

E’ in questa area che – secondo la sentenza – “le amministrazioni interessate hanno ritenuto compatibile un intervento di enormi dimensioni (139.000 metri cubi complessivi, richiamando la cifra indicata dalla stessa difesa del Comune di Teulada. . .) capace di interessare - in virtù di cinque piani di lottizzazione formalmente distinti - sei dei nove sub comparti in cui il vigente P.U.C. articola l’intera loc. Malfatano, mediante la realizzazione di insediamenti residenziali ed alberghieri posizionati a breve distanza dal mare”.

Orbene, la giurisprudenza comunitaria (Corte di giustizia, 25 luglio 2008 n. c-142/07), ha chiarito che:

- par. 33: “da una giurisprudenza ormai ben consolidata risulta che gli Stati membri devono attuare la direttiva modificata, così come la direttiva 85/337, in modo pienamente conforme ai precetti dalla stessa stabiliti, tenendo conto del suo obiettivo essenziale che, come si evince dal suo articolo 2, n. 1, consiste nel garantire che, prima della concessione di un'autorizzazione, i progetti idonei ad avere un impatto ambientale rilevante, segnatamente per la loro natura, le loro dimensioni o la loro ubicazione, siano sottoposti una valutazione del loro impatto (v. in tal senso, in particolare, sentenze 19 settembre 2000, causa C-287/98, Linster, Racc. pag. I-6917, punto 52, e 23 novembre 2006, causa C-486/04, Commissione/Italia, Racc. pag. I-11025, punto 36)”;

- par. 44: “va infine sottolineato che, come già rilevato dalla Corte in merito alla direttiva 85/337, l'obiettivo della direttiva modificata non può essere aggirato tramite il frazionamento di un progetto e che la mancata presa in considerazione dell'effetto cumulativo di più progetti non deve avere il risultato pratico di sottrarli nel loro insieme all'obbligo di valutazione laddove, presi insieme, essi possono avere un notevole impatto ambientale ai sensi dell'articolo 2, n. 1, della direttiva modificata (v., per quanto riguarda la direttiva 85/337, sentenze 21 settembre 1999, causa C-392/96, Commissione/Irlanda, Racc. pag. I-5901, punto 76, e Abraham e a., cit., punto 27).

Anche la giurisprudenza amministrativa, ha avuto modo di affermare che “per valutare se occorra o meno la VIA è necessario avere riguardo non solo alle dimensioni del progettato ampliamento di opera già esistente, bensì alle dimensioni dell'opera finale, risultante dalla somma di quella esistente con quella nuova, perché è l'opera finale nel suo complesso che, incidendo sull'ambiente, deve essere sottoposta a valutazione" (Cons. Stato, Sez. VI, 15 giugno 2004, n. 4163; Sez. IV, 2 ottobre 2006, n. 5760).

Orbene, nel caso di specie – trattandosi, peraltro, di procedimenti volti all’assetto urbanistico di una parte di territorio rilevante e di notevole pregio – l’amministrazione (in specie, regionale), avrebbe dovuto procedere ad una considerazione unitaria dell’intervento, sia in quanto si trattava di definire la pianificazione di un’area complessivamente indicata come turistica (ancorché suddivisa in una pluralità di sub comparti), e dunque già caratterizzata da unitarietà della destinazione, sia in quanto, per le proprie dimensioni – da valutarsi unitariamente, per le considerazioni esposte – l’intervento si poneva (almeno in sede di verifica preliminare, ai sensi dell’art. 10 DPR 12 aprile 1996), come potenzialmente aggressivo dell’ambiente, riguardato sotto i molteplici aspetti indicati innanzi tutto dalla giurisprudenza comunitaria e costituzionale.

Ed infatti, se la finalità della normativa di tutela dell’ambiente (e per essa, la valutazione di impatto ambientale) è quella di preservare il territorio (valore primario e assoluto, secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale) dalla compromissione derivante da un nuovo intervento, la verifica della sussistenza (o meno) di un possibile equilibrio tra nuova edificazione e ambiente preesistente, non può che essere effettuata unitariamente, con riferimento ad una zona che si caratterizza per una sua complessiva ed unitaria “comprensione”, in ragione di coordinate geografiche, paesaggistiche, culturali

In tal senso, non si rappresentano come elementi determinanti, al fine di negare il “carattere unitario” dell’intervento (come sostenuto dalle parti appellanti):

- né la suddivisione di un’area in cinque o più comparti (e ciò a maggior ragione nei casi in cui la destinazione dell’area complessivamente intesa risulti omogeneamente definita), poiché la decisione di “parcellizzazione”, variamente attuata, di un’area a fini di pianificazione, se risponde a possibili (e anche giustificabili) esigenze di chiarezza espositiva dello strumento, non può certo determinare una modificazione del carattere unitario del territorio materialmente considerato sotto gli aspetti geografici, paesaggistici, culturali;

- né la “non contiguità” degli interventi, non essendo indispensabile, ai fini della individuazione del carattere unitario del medesimo, una continuità di emersione “edilizia” degli interventi stessi, ben potendosi essi presentarsi separati, quanto ai complessi edilizi realizzandi (ad esempio, più insediamenti abitativi o turistici, separati tra loro, anche in modo netto), ma tuttavia costituenti, nel loro insieme, un intervento massiccio di edificazione di una valle, una collina, un promontorio, una costa;

- né la diversa classificazione degli interventi da realizzarsi, poiché ciò che rileva in sede di VIA non è la destinazione urbanistica della zona (e dunque la destinazione d’uso possibile e legittima dei nuovi immobili da realizzarsi), quanto l’impatto edilizio complessivo del “nuovo” da edificarsi;

- né l’autonoma realizzabilità dei piani di lottizzazione, poiché ciò costituisce un evento futuro, laddove la VIA deve essere effettuata in relazione a ciò che è comunque possibile realizzare (edificare) sulla base degli atti amministrativi e dei progetti tecnici ad essi inerenti, non già in relazione a ciò che potrà (o meno) essere realizzato, alla discontinuità temporale della realizzazione del nuovo intervento, alla eventuale pluralità di soggetti realizzatori.

A fronte di ciò, la sentenza appellata ha ampiamente e condivisibilmente indicato le ragioni che sorreggono la considerazione “unitaria” dell’intervento, e che rendono, dunque, illegittima la decisione dell’amministrazione di procedere a “verifica preliminare”, non già tenendo conto di quanto si andava ad individuare come complessivamente realizzabile, quanto singoli piani di lottizzazione in relazione a singoli sub comparti.

In tale contesto fattuale, la motivazione volta a sorreggere la decisione di non sottoporre a VIA la gran parte dell’intervento (complessivamente considerato), avrebbe dovuto, in ragione della natura del territorio e della rilevanza dimensionale dell’edificando, presentare argomentazioni e valutazioni ampie, perspicue e complesse, volte ad escludere sia la natura unitaria dell’intervento in loc. Capo Malfatano, sia la compatibilità di tale intervento unitariamente inteso con un territorio di particolare pregio e, come tale, meritevole di attenta considerazione e tutela.

D’altra parte, ove anche si volessero considerare – come è avvenuto – separatamente i singoli piani di lottizzazione, la singola valutazione effettuata per ciascuno di essi non avrebbe potuto comunque prescindere da una comparazione con altri singoli piani, che - nella medesima sede valutativa o comunque in un quadro di pianificazione complessivamente unitario – si proponevano all’attenzione del decidente.

Deve essere, dunque, condivisa la sentenza appellata, laddove essa afferma che “l’insufficienza del corredo motivazionale ed istruttorio acquista poi maggiore evidenza ove lo si rapporti alla particolare delicatezza delle scelte tecnico-discrezionali operate dalla Regione, che . . . hanno dato l’avvio ad un intervento edificatorio di grande rilevanza quantitativa e capace di interessare un territorio vastissimo e di indubbio valore ambientale e paesaggistico. In tale contesto la Regione avrebbe dovuto fondare la propria valutazione su rilievi specificamente riferibili alle caratteristiche concrete dell’ambiente coinvolto, mentre si è limitata ad osservazioni generiche e slegate dal contesto specifico di riferimento”.

In simile quadro, dunque, non assume alcun particolare rilievo che la sottoposizione a VIA sia obbligatoria (se gli interventi “ricadono, anche parzialmente, all’interno di aree naturali protette come definite dalla legge 6 dicembre 1991 n. 394” o meno), ovvero se essa debba essere comunque disposta, in ragione della natura ed entità dell’intervento, ovvero se difetta ogni motivazione atta a sorreggere una determinazione negativa circa la sottoponibilità dell’intervento a V.I.A, effettuata in sede di verifica preliminare.

Per tutte le ragioni sin qui esposte, anche i motivi sub g) dell’appello SITAS e sub n) dell’appello Comune devono essere respinti...".

sentenza CDS n. 36 del 2014

L’interesse richiesto per l’accesso agli atti

20 Gen 2014
20 Gennaio 2014

Segnaliamo sul punto la sentenza del TAR Veneto n. 1426 del 2013.

Scrive il TAR: "1. Costituisce attuazione di un principio generale che l'accesso ai documenti amministrativi è normativamente subordinato alla titolarità di un interesse alla visione degli atti, questi ultimi, strettamente correlati alla tutela di una determinata situazione giuridica. Detto principio ha come conseguenza che sia sempre consentito l'accesso a documenti la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridicamente tutelati.

1.1 Un costante orientamento giurisprudenziale (Cons. Stato Sez. VI, 19-01-2010, n. 189) ha, infatti, sancito che “terreno di elezione ell'accesso è proprio l'esigenza di conoscere gli atti per verificare se vi siano vizi tali da consentire la instaurazione di un contenzioso giudiziario. Sicché, l'accesso non è negato, ma al contrario rafforzato, quando sia necessario al fine di intraprendere un contenzioso giudiziario (Riforma della sentenza del T.a.r. Campania - Napoli, sez. V, n. 4077/2009)”. 

1.2 Applicando detti principi al caso di specie è del tutto evidente il fondamento delle richieste del ricorrente, in quanto dirette ad cquisire
conoscenza dei presupposti in relazione ai quali l’Amministrazione aveva determinato la somma a carico di quest’ultimo e, ciò, in
applicazione di una convenzione espressamente sottoscritta tra le parti in causa.
1.3 Si consideri, ancora, che l'art. 24 della n. 241/1990 e s.m..i. disciplina i casi in cui l’accesso è escluso, prevedendo che "Non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni" e, nel contempo, ha disciplinato specifiche fattispecie in cui detto esercizio non è consentito.
1.4 Va, inoltre, rilevato che il ricorrente con la propria istanza non ha chiesto l’accesso o la visione di documenti ben determinati, ma al
contrario ha proposto il presente ricorso in quanto diretto ad ottenere l’accesso ad un molteplicità di atti, riconducibili al fascicolo riguardante i lavori di realizzazione PIP del Comune di Cartura, alla procedura di esproprio e, ancora, al contenzioso con gli espropriati.
1.5 E’ del tutto evidente che l’accesso alla documentazione sopra richiesta è legittimo solo nei limiti dell’interesse del ricorrente e, quindi,
con l’esclusione di tutti quegli atti (es. pareri legali propedeutici allo svolgimento del contenzioso con i soggetti terzi, dati sensibili relativi a
soggetti estranei) che, in quanto tali, non siano necessari a consentire al ricorrente un’adeguata tutela dei propri interessi. Ne consegue che in accoglimento del proposto ricorso, il Collegio ordina al Comunedi Cartura di consentire il richiesto accesso di legge vigenti e nei limiti sopra precisati".

sentenza TAR Veneto 1426 del 2013

Un poggiolo esterno con un tamponamento in legno a destra e a sinistra è un volume?

20 Gen 2014
20 Gennaio 2014

Dice di no il TAR Veneto nella sentenza n. 16 del 2014.

Scrive il TAR: "dalle fotografie e dalle planimetrie depositate da entrambe le parti, risulta evidente che il poggiolo di cui si discute ostituisce una superficie aperta, mentre, la cassonatura in legno realizzata alle estremità destra e sinistra dello stesso costituisce un elemento meramente decorativo, ovvero un rivestimento ligneo ornamentale dell’edificio tipico dell’architettura locale, ma assolutamente inidoneo a delimitare un volume urbanistico aggiuntivo. Anche dall’analisi degli elaborati di progetto presentati dal ricorrente a supporto della D.I.A. emerge chiaramente che la parte di abitazione attualmente costituita dal poggiolo, e dunque da uno spazio per definizione aperto, verrebbe occupata dall’ampliamento del soggiorno e della camera antistanti, previa demolizione dei muri pe rimetrali esterni; con il risultato che il poggiolo, che corre lungo tutta la parete frontale del terzo piano dell’edificio, verrebbe trasformato in un piccolo balconcino centrale. E’ allora evidente che l’intervento comporta un inammissibile incremento volumetrico della porzione immobiliare in questione.

Peraltro, l’art. 3, richiamato dal Comune nel provvedimento impugnato, al comma 5, stabilisce che “per volume del fabbricato deve intendersi il volume  del solido emergente dal terreno…con esclusione dei poggioli aperti…dei cassoni di rivestimento dei timpani..”. Ebbene, l’ampliamento che il ricorrente intende realizzare andrebbe ad occupare, per una parte, il poggiolo esterno in due parti semicentrali in cui attualmente è sicuramente aperto (come si vede dalle fotografie), e, per altra parte, i cassoni laterali in legno presenti ai lati del poggiolo, i quali, essendo posti al disotto delle falde del tetto, possono sicuramente essere definiti come dei “cassoni di rivestimento del timpano”, non computabili nel volume dell’edificio ai sensi della norma appena citata".

sentenza TAR Veneto n. 16 del 2014

 

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