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DIA: è perentorio il termine per esercitare il potere inibitorio; dopo la sua scadenza, la p.a. conserva poteri di autotutela

24 Apr 2013
24 Aprile 2013

La sentenza del TAR Veneto n. 535 del 2013 contiene una interessante disamina delle questioni più rilevanti che si agitano in tema di DIA.

Scrive il TAR: "parte ricorrente, richiedendo una pronuncia di annullamento delle DIA, nei termini sopra precisati, non considera le innovazioni giurisprudenziali introdotte dall’Adunanza Plenaria n.15/2011 – limitatamente alla parte in cui ha sancito la natura perentoria del termine per l’esercizio del potere inibitorio - e, ancor di più, non tiene conto di quanto disposto dal comma 6 ter dell'art. 19 della L. n. 241/1990 (introdotto dall'art. 6 del D.L. n. 138/2011) laddove, ha di fatto, determinato il superamento, quanto meno parziale, proprio delle conclusioni cui era giunta l’Adunanza Plenaria n.15/2011.
3.1 La natura perentoria del termine per l’esercizio del potere inibitorio è stata confermata, anche di recente, da quella Giurisprudenza (Consiglio di Stato sez. VI 14 novembre 2012 n. 5751) laddove si è affermato che “il termine per l'esercizio del potere inibitorio doveroso, nel caso di d.i.a., è perentorio; comunque, anche dopo il decorso di tale spazio temporale, la p.a. conserva un potere residuale di autotutela. Tale potere, con cui l'amministrazione è chiamata a porre rimedio al mancato esercizio del doveroso potere inibitorio, condivide i principi regolatori sanciti, in materia di autotutela, dalle norme vigenti, con particolare riguardo alla necessità dell'avvio di un apposito procedimento in contraddittorio, al rispetto del limite del termine ragionevole, e soprattutto, alla necessità di una valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli interessi in rilievo, idonea a
giustificare la frustrazione dell'affidamento incolpevole maturato in capo al denunciante a seguito del decorso del tempo e della conseguente consumazione del potere inibitorio”.
3.2 In detto contesto giurisprudenziale si è inserito, dapprima il D.L. 138/2011 e, in seguito, la legge n. 148/2011 di conversione dello stesso decreto legge che, in particolare, ha soppresso le parole "si riferiscono ad attività liberalizzate" contenute nel primo periodo e, ancora, ha inserito la parola "esclusivamente", dopo la parola "esperire". Ne è derivato il vigente tenore letterale in base al quale "La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'articolo 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104".
2.2 Detta ultima disciplina legislativa ha, pertanto, previsto che la tutela della posizione giuridica soggettiva del terzo, a seguito del deposito di una DIA (ora SCIA) ritenuta lesiva, debba comportare l’esperimento “in via esclusiva”, dell’azione in materia di silenzio e di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3, D.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, determinando il venir meno del dibattito giurisprudenziale e dottrinario diretto a rilevare se, a seguito del decorso del termine per l’esercizio del potere inibitorio si produceva un atto tacito o, al contrario, se risultava in essere un titolo idoneo a legittimare l’esercizio di un’attività privata.
2.3 L’arresto legislativo sopra citato, determinante ai fini della pronuncia di inammissibilità di cui tratta, ha determinato il venire in essere di successivi orientamenti giurisprudenziali nell’ambito dei quali si è sancito, tra l’altro, il superamento della nozione di atto tacito a seguito del decorso del termine inibitorio e, ciò, laddove si è affermato che “la dichiarazione di inizio attività oggi, sostituita dalla segnalazione certificata di inizio attività (s.c.i.a.) per effetto dell'entrata in vigore del d.l. 31 maggio 2010 n. 78, convertito dalla l. 30 luglio 2010 n. 122 non dà vita ad una fattispecie provvedimentale di assenso tacito, bensì riflette un atto del privato volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge (T.A.R. Napoli Campania sez. VIII 06 novembre 2012 n. 4431)”.
3. L’innovazione legislativa sopra ricordata ha, così, determinato il contestuale superamento delle forme di tutela tradizionalmente attribuite al terzo, leso dagli effetti del proponimento di una segnalazione certificata di inizio di attività, determinando, nel concreto, il superamento delle conclusioni cui era giunta l’Adunanza Plenaria sopra citata e, ciò, per quanto attiene l’ammissibilità, rispettivamente, sia dell’azione di annullamento (nell’ipotesi in cui fosse spirato il termine per l’esercizio del potere inibitorio) sia, nel contempo dell’azione di accertamento nell’eventualità in cui il termine di cui sopra non sia ancora spirato.
4. In questo senso non può non ricordarsi come tra le correzioni ed integrazioni del Codice del processo amministrativo introdotte dal D.lgs. 15 novembre 2011, entrato in vigore il 9 dicembre 2011, vi è l’introduzione, all’art. 31 comma 1, dopo le parole “decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo”, della frase “e negli altri casi previsti dalla legge” cui segue il periodo, rimasto immutato “chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere”.
4.1 Detta circostanza, ed in particolare il riferimento agli “altri casi previsti dalla legge” nei quali è possibile esperire il giudizio per “silentium”, ha l’effetto di estendere l’esperimento di detto procedimento anche nell’ipotesi in cui i termini relativi al potere inibitorio non siano ancora trascorsi (T.a.r. Veneto, Sez. II, 5 marzo 2012, n. 298).
5. Detta disciplina e dette conclusioni sono pienamente applicabili al caso di spese".

Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 535 del 2013

Quando spetta alla Giunta comunale fissare i criteri per l’occupazione del suolo pubblico?

24 Apr 2013
24 Aprile 2013

La Giunta comunale del Comune di Venezia, recependo i criteri previsti dal regolamento comunale disciplinate il “Canone di occupazione spazi ed aree pubbliche” approvato con delibera del Consiglio comunale del 08.09.199 n. 35, procedeva - con la deliberazione del 03.04.2009 n. 132 - alla revoca delle concessioni comportanti le occupazioni del suolo pubblico ed alla conseguente gara pubblica per la loro riassegnazione.

Il T.A.R. Veneto, sez. III, con la sentenza del 16 aprile 2013 n. 581, giunge ad affermare che le determinazioni de qua spettano alla Giunta comunale laddove a monte vi sia una determinazione consiliare che fissa i criteri: “Quanto alla prima doglianza, attinente alla incompetenza della giunta comunale, il Collegio non può che richiamare la giurisprudenza in base alla quale ai sensi dell’art. 42, comma 1, del T.U. n. 267/2000 “il Consiglio comunale, organo di indirizzo e di controllo politico – amministrativo, ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali ad emanare: “a) statuti dell'ente e delle aziende speciali, regolamenti salva l'ipotesi di cui all'articolo 48 comma 3, criteri generali in materia di ordinamento degli uffici e dei servizi”.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa dal quale il Collegio non ravvisa valide ragioni per discostarsi se è vero che in base al combinato disposto dei richiamati artt. 42 e 48 del T.U. Enti Locali la competenza regolamentare spetta all’organo consiliare, mentre alla Giunta tale competenza è attribuita solo per la limitata materia dell’ordinamento degli uffici e dei servizi, è altrettanto vero che quest’ultima può approvare atti che siano espressione di autonomia normativa laddove a monte vi sia un provvedimento consiliare che abbia prefissato in modo preciso e chiaro i principi da seguire.

Allora sulla scorta delle predette argomentazioni non sussiste, nella fattispecie in esame, come già affermato da questo stesso Tribunale nella sentenza n. 1754/2007, la dedotta incompetenza in quanto l’art. 5 del Regolamento C.O.S.A.P., approvato con delibera del Consiglio Comunale, demanda espressamente ai Consigli di Quartiere la formulazione dei “criteri in base ai quali concedere le occupazioni permanenti di pubblici esercizi legate al commercio” per individuare “i luoghi ove si intende favorire, limitare o escludere l’occupazione di suolo pubblico e le attività da incentivare o da disincentivare attraverso lo strumento dell’occupazione di suolo pubblico”. E del resto tale scelta, a differenza di quanto affermato dalla società ricorrente, non risponde tanto alla logica della delega, quanto piuttosto a quella della sussidiarietà verticale secondo la quale la regolamentazione dell’interesse pubblico è tendenzialmente affidata all’organo più vicino allo stesso.”(cfr. questa sezione, n.597/09)”.

Il Collegio sottolinea altresì l’importanza della partecipazione dei soggetti interessati atteso che: “La partecipazione alla procedura si configura dunque quale opzione necessaria ai fini della conservazione del bene della vita già in godimento, una volta che la cessazione anticipata sia stata disposta da un atto di pianificazione volto alla riassegnazione delle concessioni mediante procedure di evidenza pubblica.( Sent. n. 1356/2013 Cons.St.sez V)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 581 del 2013

Le piazze sono beni culturali a prescindere dalla specifica dichiarazione di interesse culturale

23 Apr 2013
23 Aprile 2013

Come emerge dal combinato disposto dell’art. 10, c. 1 e 3, D. Lgs. 42/2004 (secondo cui: “1. Sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici  territoriali, nonché' ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro , ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico” e “3. Sono altresì beni culturali, quando sia  intervenuta la dichiarazione prevista dall'articolo 13:

    a) le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante, appartenenti a soggetti diversi da quelli indicati al comma 1;

    b) gli archivi e i singoli documenti, appartenenti a privati, che rivestono interesse storico particolarmente importante;

    c) le raccolte librarie, appartenenti a privati, di eccezionale interesse culturale;

    d) le cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell'arte, della scienza, della tecnica, dell'industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose;

    e) le collezioni o serie di oggetti, a chiunque appartenenti, che non siano ricomprese fra quelle  indicate al comma 2 e che, per tradizione, fama e particolari caratteristiche ambientali, ovvero per rilevanza artistica, storica, archeologica, numismatica o etnoantropologica, rivestano come complesso un eccezionale interesse”) e dall’art. 10, c. 4, lett. g), D. Lgs. 42/2004 secondo cui: “4. Sono comprese tra le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettera a) (...) g) le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti  urbani di interesse artistico o storico”, appare chiaro ed incontrovertibile che anche le piazze sono da considerarsi ex lege beni culturali.

Quanto esposto è altresì confermato dalla Direttiva 11.10.2012 del Ministro per i Beni e le Attività Culturali, concernente “l’esercizio di attività commerciali e artigianali su aree pubbliche in forma ambulante o su posteggio, nonché di qualsiasi altra attività non compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio culturale” la quale chiaramente afferma che: “in ogni caso, anche tutte le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi urbani per i quali non sia stato emanato un puntuale provvedimento di vincolo, ma appartenenti a soggetti pubblici e realizzate da oltre settanta anni, sono comunque sottoposte interinalmente all’applicazione del regime di tutela della Parte Seconda del Codice”.

La recente giurisprudenza amministrativa e costituzionale, infatti, correttamente riconduce le piazze pubbliche (realizzate da oltre settant’anni) alla categoria dei beni culturali, indipendentemente dall’avvio del procedimento di verifica e dalla specifica dichiarazione di interesse culturale prevista dall’art. 13 del D. Lgs. 42/2004 (a tal fine si veda: Cons. Stato, sez. VI, 24.01.2011, n. 482 secondo cui: “Ai sensi del comma 1 dell'art. 10, d.lg. n. 42 del 2004 le piazze pubbliche sono " beni culturali " in quanto complesso appartenente ad un ente pubblico territoriale, onde non è richiesto che siano fatte oggetto di apposita dichiarazione di interesse storico-artistico, al fine di rientrare nella sfera di applicazione della relativa legislazione”; T.A.R. Puglia, Bari, sez. II, 01.03.2013, n. 307 secondo cui: “Dall'art. 10 comma 4, lett. g), Codice dei beni culturali e del paesaggio discende la riconduzione ex lege alla categoria dei beni culturali delle piazze pubbliche, appartenenti all'ente territoriale e realizzate da oltre settant'anni, che presentano interesse artistico e storico, indipendentemente dall'avvio del procedimento di verifica e dalla specifica dichiarazione di interesse culturale prevista dal successivo art. 13 del Codice, con la conseguente immediata applicazione del regime di tutela disciplinato dalla parte seconda del Codice”; Corte cost., 08.07.2010, n. 247).

 dott. Matteo Acquasaliente

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TAR_Puglia Bari 307 del 2013

Una strada vicinale inserita nei pubblici elenchi ma non individuabile nella realtà esiste ancora?

23 Apr 2013
23 Aprile 2013

Il Consiglio di Stato ha pronunciato una interessante sentenza in materia di strade vicinali, la n. 1940 del 9.3.2013.

Alcuni cittadini avevano sottoscritto una petizione, chiedendo al Comune la riapertura di quattro strade vicinali di uso pubblico risalenti ai primi del ‘900, insistenti sui fondi degli appellanti.

Il Comune, sul presupposto che le strade vicinali esistessero da tempo immemorabile e fossero ancora percorribili da parte del pubblico e segnatamente da una serie di residenti nell’agro adiacente, accoglieva la richiesta ed emetteva un’ordinanza sindacale di rimozione delle recinzioni dei predetti fondi e di riapertura al pubblico transito delle strade vicinali, con ripristino della larghezza originaria.

Il Giudice di primo grado, dopo aver disposto una consulenza tecnica d’ufficio che evidenziava la pressoché totale scomparsa degli antichi percorsi viari (la sentenza parla di “superamento dell’antica situazione viaria”), ad eccezione di uno, ha deciso tuttavia di disattendere le risultanze della perizia, respingendo il ricorso e confermando la legittimità dell’ordinanza.

Il Consiglio di Stato ha invece ritenuto la parziale fondatezza dei motivi di appello, sulla base della consulenza tecnica di ufficio svolta nel giudizio di primo grado e in ragione del principio, pacifico in giurisprudenza, che l’inserimento di strade nei pubblici elenchi non può costituire un diritto della collettività al loro utilizzo ove le strade non siano più realmente individuabili nella loro consistenza.

In particolare il Giudice d’appello ha statuito che l’ordinanza fosse illegittima in relazione alla riapertura di tre delle quattro strade vicinali in argomento: la citata perizia, infatti, aveva concluso che, per riaprirle, si sarebbero dovute sostenere difficili e costose opere di bonifica del tracciato ed opere infrastrutturali e che, comunque, esse non sarebbero state percorribili da automezzi ed ancor più non vi sarebbe una reale utilità pubblica.

L’ordinanza è stata invece confermata per quanto concerne la quarta strada vicinale di cui era stata ordinata l’apertura, in considerazione del fatto che “ … è sì caratterizzata da inerbimento e numerosi arbusti, ma potrebbe essere facilmente aperta tramite la bonifica del terreno e costituire un tragitto di scorciatoia anche per gli automezzi.

Insomma, considerato che anche per le altre tre strade il tecnico aveva rilevato le stese difficoltà di ripristinare l’antico percorso viario (per inerbimento, necessità di opere di bonifica ed infrastrutturali), parrebbe che a connotare la pubblica utilità sarebbe soltanto la possibilità di percorrimento con gli automezzi, che potrebbero così giovarsi di un percorso di “scorciatoia”.

avv. Marta Bassanese

Sentenza CDS 1940 del 2013

I comuni non possono pianificare le sole gioco e scommesse ex art. 110 TULPS se non nell’ambito della pianificazione nazionale

23 Apr 2013
23 Aprile 2013

Con le sentenze n. 577 e n. 578 del 16 aprile 2013, la Terza sezione del TAR per il Veneto ha annullato il Regolamento comunale di Vicenza per l’apertura di sale giochi, approvato con delibera del consiglio comunale n. 62/86323 del 19 Dicembre 2011, e l’art. 13-bis delle N.T.A. del P.R.G. di Vicenza, introdotto dalla variante alle N.T.A. di P.R.G., adottata con delibera del Consiglio comunale di Vicenza n. 5 in data 16 Febbraio 2012 ed approvata con delibera del Consiglio comunale di Vicenza n. 37 del 3 Luglio 2012.

L’art. 7 del sopra richiamato regolamento comunale prevede, in particolare, che le strutture in cui viene esercitata l’attività di scommessa rispettino le seguenti distanze:

- 500 metri da istituti scolastici, centri giovanili o altri istituti frequentati principalmente da giovani o strutture residenziali o semiresidenziali operanti in ambito sanitario o socio-assistenziale, luoghi di culto e caserme;

- 300 metri dal perimetro iscritto nella lista del patrimonio mondiale UNESCO relativo al centro storico di Vicenza con relativa Buffer zone c delle aree monumentali delle tre ville palladiane (La Rotonda – Trissino – villa Gazzotti Grimani detta villa Marcello o Bertesina) in considerazione dei primari obiettivi di tutela e valorizzazione del patrimonio storico e dell’impatto dell’attività di sala gioco su un contesto urbano caratterizzato da elevata fragilità;

- metri 100 dalle intersezioni stradali, riducibile a metri 50 se trattasi di intersezione tra strade locali in base alla classificazione viaria ai fini della salvaguardia dei livelli di servizio delle intersezioni.

L’art. 13-bis delle N.T.A. del P.R.G. del comune di Vicenza recepisce, per quanto attiene alla realizzazione, trasformazione ed utilizzo di locali da destinare alla pratica del gioco, le prescrizioni contenute nel regolamento comunale per l’apertura di sale giochi sopra richiamato.

Secondo i Giudici del TAR, tali norme comunali vanno annullate per il fatto che esse, mirando a combattere la ludopatia, invadono la competenza legislativa statale in materia di tutela della salute e dell’ordine pubblico.

Tale competenza è stata esercitata dallo Stato con l’art. 1, comma settantesimo, della legge n° 20 del 2010 e con l’art. 7, decimo comma, del D. L. n° 158 del 2012, convertito nella legge n° 214 del 2012, dai quali si ricava “il principio che gli strumenti pianificatori di contrasto alla ludopatia devono essere decisi a livello nazionale o comunque essere inseriti nel sistema della pianificazione nazionale. Tale principio è coerente rispetto alle esigenze tutelate, che sono le medesime nell’intero territorio nazionale.

IL TAR esclude che la norma regolamentare e quella pianificatoria impugnate costituiscano esercizio dei poteri spettanti ai comuni ai sensi dell’art. 13 del Testo Unico degli Enti Locali, secondo cui spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, per i seguenti due motivi:

- lo stesso art. 13 esclude da tali funzioni le competenze attribuite ad altri soggetti dalla legge statale o regionale e, nel caso di specie, esistono le richiamate le disposizioni di legge che attribuiscono all’amministrazione nazionale le competenze in materia e non ai comuni;

- la potestà amministrativa, per essere esercitata, necessita di una specifica attribuzione legislativa ai sensi degli artt. 2, 23, 41, 42 e 97 della Costituzione. Tale specifica attribuzione legislativa difetta.

Il TAR precisa, inoltre, quali sono gli ambiti di intervento dei Comuni in materia:

-          i comuni possono intervenire nell’ambito della sopra richiamata pianificazione in sede di conferenza unificata ai sensi dell’art. 7 del D. L. n° 158 del 2012;

-          i sindaci, in caso di situazioni di effettiva emergenza, possono adottare ordinanze contingibili ed urgenti, come previsto dal Testo Unico degli Enti Locali.

A sostegno della competenza statale in materia, il TAR cita anche l’art. 88 del T.U.L.P.S., il quale  non prevede che il questore, nel rilasciare la licenza per l’esercizio dell’attività di scommessa, sia tenuto ad applicare prescrizioni stabilite dai comuni.

avv. Marta Bassanese

TAR Veneto n. 577 del 2013

TAR Veneto n. 578 del 2013

Le gravi inadempienze della ditta partecipante

23 Apr 2013
23 Aprile 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza n. 565 del 15 aprile 2013, chiarisce la portata dell’art. 38, lett. f), D. Lgs. 163/2006 secondo cui: “1. Sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti (...) f) che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante”, affermando che: “in tema di procedure di evidenza pubblica la regola contenuta nell’art. 38, comma 1, lett. f) del d. lgs. 163/06, in quanto significativa dell’esigenza di un rapporto di fiducia tra la parte pubblica che indice la gara e quella privata affidataria dello specifico servizio, nell’ambito di ogni singolo e concreto appalto, non ha introdotto nell’ordinamento una sorta di generale incapacità a contrattare con le pubbliche amministrazioni, ma vale unicamente se il grave errore o la negligenza siano stati commessi nei rapporti intercorsi con la stessa amministrazione aggiudicatrice.

 Ne consegue che l’esclusione dalle gare pubbliche per inaffidabilità delle imprese concorrenti a causa di grave negligenza o mala fede commessa nel corso dell’esecuzione di precedenti contratti pubblici può essere pronunciata, in termini di automaticità, soltanto quando il comportamento negligente sia stato posto in essere, ma non è il caso di specie, in occasione di un pregresso rapporto negoziale intercorso con la medesima stazione appaltante che ha indetto la gara (cfr., ex multis, T.A.R. Piemonte, sez. I, 08.03.2012, n. 331)”.

 Inoltre, fermo restando che l’art. 8, c. 2, lett. p), D.P.R. 207/2010 stabilisce che: “Nella subsezione del casellario relativa alle imprese qualificate SOA esecutrici di lavori pubblici sono inseriti, i seguenti dati: (...) p) episodi di grave negligenza o errore grave nell'esecuzione dei contratti ovvero gravi inadempienze contrattuali, anche in riferimento all'osservanza delle norme in materia di sicurezza e degli obblighi derivanti da rapporto di lavoro, comunicate dai soggetti di cui all'articolo 3, comma 1, lettera b)”, il Collegio ritiene che: “solo con l’annotazione nel Casellario informatico – consequenziale alla definizione del giudizio con cui l’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici valuta, in contraddittorio con la ditta, la rilevanza dell’inadempimento segnalato dalla stazione appaltante - si determina la perdita della legittimazione a partecipare ad altre gare (cfr., Cons. St., sez. V, 25.01.2011, n. 517)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 565 del 2013

 

Nuovo scontro tra il Governo e la Regione Veneto sulla VAS (L.R. 50/2012 sul commercio e L.R. 55/2012 sullo sportello unico)

22 Apr 2013
22 Aprile 2013

Sul BUR n. 35 del 19 aprile 2013 sono stati pubblicati due nuovi ricorsi del Governo contro le leggi regionali venete in materia di VAS.

In particolare, col ricorso n. 36 il Governo chiede che la Corte Costituzionale voglia dichiarare costituzionalmente illegittimi gli artt. 17, 18, 19, 22 e 26 della legge della Regione Veneto 28 dicembre 2012, n. 50, intitolata "Politiche per lo sviluppo del sistema commerciale nella Regione del Veneto", pubblicata nel B.U. Veneto 31 dicembre 2012, n. 110, per contrasto con l’art. 117, comma 2, lett. s) della Costituzione.

Col ricorso n. 39 il Governo chiede che la Corte Costituzionale voglia dichiarare l’illegittimità dell’art. 4 e 16 della Legge Regionale 31.12.2012, n. 55, recante "Procedure urbanistiche semplificate di sportello unico per le attività produttive", per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lett. e) ed s) della Costituzione.

Non sarebbe il caso che la Regione Veneto si mettesse una mano sulla coscienza e intervenisse immediatamente con una modifica legislativa, senza bisogno di farsi annullare anche queste leggi, visto il caos in cui si trovano gli operatori?

Dario Meneguzzo

Ricorsi VAS

 

Il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in materia pagamento dell’indennità di occupazione “sine titulo”

22 Apr 2013
22 Aprile 2013

Premesso che: “la giurisdizione, come noto, si determina in base alla domanda e, ai fini del riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il "petitum" sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della "causa petendi", ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione (cfr., ex pluribus, SS.UU. 16.11.2010 n. 23109; CdS, IV, 2.3.2011 n. 1360)”, il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza del 15 aprile 2013 n. 571 - concernente il pagamento dei canoni per l’occupazione “sine titulo” di alcuni beni demaniali a causa della scadenza/mancanza della relativa concessione –, si sofferma sul possibile difetto di giurisdizione del giudice adito: “Nel caso di specie il difetto di giurisdizione va dichiarato non già in relazione alla circostanza che viene in questione la determinazione e la corresponsione di canoni di concessione di beni pubblici, riservate alla giurisdizione ordinaria ai sensi dell’art. 5, II comma della legge 1034/71, ed ora dell’art. 133, I comma, lett. “b” del c.p.a. (è noto, a tal proposito, che le controversie concernenti indennità, canoni o altri corrispettivi, riservate, in materia di concessioni amministrative, alla giurisdizione del giudice ordinario sono solo quelle con un contenuto meramente patrimoniale: quando, invece, la controversia coinvolge la verifica dell'azione autoritativa della PA sull'intera economia del rapporto concessorio, la medesima è attratta nella sfera di competenza del giudice amministrativo in quanto la controversia ha come oggetto principale la qualificazione giuridica dell'atto concessorio, sicché le conseguenze patrimoniali - e cioè la misura del canone - sono meramente accessorie: cfr, per tutte, CdS, VI, 12.1.2011, n.99), ma per il preliminare ed assorbente rilievo che la pretesa di pagamento dell’Amministrazione finanziaria, oggetto del ricorso, non può essere ricondotta all’originario rapporto concessorio, ma deve qualificarsi come richiesta di pagamento dell’indennità di occupazione “sine titulo”.

 Scaduta la concessione demaniale, il concessionario che rimanga nella detenzione del bene è un occupante abusivo: il mancato spossessamento o la mancata diffida a restituire il bene, così come la riscossione dei canoni, non comportano, infatti, un rinnovo tacito della concessione, essendo sempre e comunque necessario, per il rinnovo, un espresso atto formale di concessione (cfr. CdS, IV, 12.6.2012 n. 3456), atteso che “la demanialità è indisponibile e non si può rinunciare ad essa in via di fatto” (CdS, VI, 17.3.2010 n. 1566).

 Conclusivamente, dunque, i provvedimenti con cui, non sussistendo un rapporto concessorio, l'Amministrazione ingiunge il pagamento delle somme dovute per l’occupazione abusiva di beni demaniali riguardano esclusivamente questioni di diritto soggettivo che, non comportando apprezzamenti discrezionali, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario (CdS, VI, 16.2.2010 n. 874)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 571 del 2013

Spetta al Dirigente e non al Sindaco la competenza in materia di circolazione dei veicoli

22 Apr 2013
22 Aprile 2013

 Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza del 03 aprile 2013 n. 494, ritiene che la competenza in materia di provvedimenti regolanti la circolazione e la sosta dei veicoli nei centri abitati sia del dirigente e non del Sindaco: “Spetta, invero, al dirigente comunale il potere di emanare provvedimenti diretti a regolare la circolazione e la sosta dei veicoli nel centro abitato, a nulla rilevando in contrario che il combinato disposto di cui agli artt. 6 e 7 del Codice della Strada, attribuisca al sindaco la regolamentazione della circolazione nei centri abitati.

 Tale combinato disposto deve essere, infatti, letto in coordinamento con il T.U.E.L. che attribuisce ai dirigenti comunali la competenza ad adottare tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno e non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell’ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale.

Devono, quindi, ritenersi ricompresi nell’ambito delle competenze dei dirigenti anche i provvedimenti che gli artt. 6 e 7 del Codice della Strada attribuiscono espressamente al sindaco, trattandosi di atti che per un verso non implicano l’esercizio di funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo ma di gestione ordinaria, e per altro verso non rientrano nelle deroghe di cui agli artt. 50 e 54 del T.U.E.L. (Cass. civ., sez. II, 09.06.2010, n. 13885).

Sotto altro profilo, occorre osservare che la mancata specificazione nell’ordinanza impugnata, del decreto con cui sono state conferite in favore del Responsabile dell’Area Vigilanza del Comune di Asiago le mansioni superiori corrispondenti alla categoria dei dirigenti, non è sufficiente a inficiarne la validità, dovendosi, infatti, escludere che ogni atto amministrativo debba necessariamente contenere specifica indicazione della fonte attributiva del potere di volta in volta esercitato (cfr., ex multis, T.A.R. Puglia, Lecce, sez. III, 26.09.2006, n. 4667)”.

 dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 494 del 2013

Questioni in materia di condanne penali ed esclusione dalle gare

22 Apr 2013
22 Aprile 2013

 Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza del 03 aprile 2013 n. 493, riconosce che la stazione appaltante può prevedere - a pena di esclusione - anche requisiti ulteriori rispetto a quanto previsto dall’art. 38, c. 1 ter, 2 e 3, D. Lgs. 163/2006 in materia di condanne penali.

Nel caso di specie, nella lettera d’invito inviata ai partecipanti, la stazione appaltante aveva chiesto di dichiarare l’esistenza di tutti i precedenti penali, specificando che avrebbero dovuto essere indicate “non solo le condanne che a giudizio del concorrente possono considerarsi ‘reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale’, perché tale valutazione spetta esclusivamente alla stazione appaltante”.

Il T.A.R. Veneto a riguardo ritiene che: il bando di gara ha quindi imposto ai partecipanti alla gara una dichiarazione dal contenuto più ampio e più puntuale rispetto a quanto prescritto dall’art. 38 del codice dei contratti pubblici, all’evidente fine di riservare alla stazione appaltante la valutazione di gravità o meno dell’illecito, al fine dell’esclusione.

Ad avviso del Collegio, in siffatte ipotesi la causa di esclusione non è soltanto quella, sostanziale, dell’essere stata commessa una grave violazione, ma anche quella, formale, di aver omesso una prescrizione prescritta dal bando, sicché nella fattispecie in esame l’omessa dichiarazione relativa alle condanne penali riscontrate dalla stazione appaltante in capo agli amministratori dell’odierna ricorrente, rappresenta una legittima causa di esclusione in quanto viene violata una puntuale clausola del bando posta a pena di esclusione (cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 4 agosto 2009, n. 4905)”.

 Con riferimento alla censura secondo cui, nella lettera d’invito, non era chiaro che il mero decorso del tempo non estingue il reato c.d. patteggiato, il Collegio afferma che: “Quanto alla necessità che l’estinzione debba essere dichiarata dal competente giudice penale, non essendo sufficiente a tal fine il mero decorso del tempo, basta richiamare il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui “la riabilitazione (combinato disposto dalgi artt. 683 cpp e 178 cp) e l’estinzione del reato (combinato disposto dagli artt. 676 cpp e 151 seg. cp) per decorso del termine di legge devono essere giudizialmente dichiarate, giacché il giudice di sorveglianza nel primo caso e il giudice dell’esecuzione nel secondo caso sono gli unici due soggetti ai quali l’ordinamento conferisce la competenza a verificare che siano venuti in essere tutti i presupposti e sussistano tutte le condizioni per la relativa declaratoria, con la conseguenza che, in mancanza, la dichiarazione di assenze di condanne penali equivale a dichiarazione mendace e giustifica l’esclusione del concorrente che l’abbia resa” (Cons. St., sez. V,20.10.2010, n. 7581)”.

Infine, il motivo di gravame secondo cui le sanzioni accessorie irrogate dalla stazione appaltante (escussione della cauzione, segnalazione alla A.V.L.P. e cancellazione temporanea dall’Albo fornitori) non dovrebbero essere applicate laddove “l’omissione da parte del concorrente derivi da un errore circa l’interpretazione del bando di gara ed il requisito mancante sia nondimeno posseduto”, è smentito dal T.A.R. Veneto il quale asserisce che: “Anche la suesposta questa doglianza è insuscettibile di essere accolta avendo, al riguardo, la giurisprudenza, anche di questo Collegio, definitivamente chiarito che in tema di gare d’appalto, allorché sia stata omessa la dichiarazione circa la condanna subita dal rappresentante del concorrente, condanna che, rientrando fra quelle individuate dall’art. 38 d.lgs. 163/06, non riguardi un reato nelle more estinto ai sensi e per gli effetti dell’art. 676 c.p.p., non rileva l’ignoranza o la buona fede del soggetto tenuto alla dichiarazione, ed è pertanto legittimo, oltre che il provvedimento di esclusione, anche l’irrogazione delle sanzioni accessorie (cfr., T.A.R. Veneto, sez. I, 10.09.2010, n. 4681)”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 493 del 2013

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