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Il decorso del tempo non trasforma automaticamente l’aggiudicazione provvisoria in definitiva

15 Feb 2013
15 Febbraio 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza del 08 febbraio 2013 n. 178, chiarisce alcuni aspetti concernenti l’aggiudicazione provvisoria.

Premesso che l’art. 11, c. 5 e 8, D. Lgs. 163/2006 recitano: “La stazione appaltante, previa verifica dell'aggiudicazione provvisoria ai sensi dell'articolo 12, comma 1, provvede all'aggiudicazione definitiva” e “L'aggiudicazione definitiva diventa efficace dopo la verifica del possesso dei prescritti requisiti”, mentre l’art. 12, c. 1, D. Lgs. 163/2006 stabilisce che: “L'aggiudicazione provvisoria è soggetta ad approvazione dell'organo competente secondo l'ordinamento delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori, ovvero degli altri soggetti aggiudicatori, nel rispetto dei termini previsti dai singoli ordinamenti, decorrenti dal ricevimento dell'aggiudicazione provvisoria da parte dell'organo competente. In mancanza, il termine è pari a trenta giorni. Il termine è interrotto dalla richiesta di chiarimenti o documenti, e inizia nuovamente a decorrere da quando i chiarimenti o documenti pervengono all'organo richiedente. Decorsi i termini previsti dai singoli ordinamenti o, in mancanza, quello di trenta giorni, l'aggiudicazione si intende approvata”, il Collegio afferma che: “l’inutile decorso del termine (di trenta giorni, qualora non diversamente previsto) indicato nell’art. 12, I comma del codice dei contratti comporta non già l’aggiudicazione definitiva, ma soltanto l’approvazione dell’aggiudicazione provvisoria della gara (adempimento, questo, che ai sensi del citato art. 11, V comma, è preliminare all’adozione del provvedimento finale di aggiudicazione definitiva): in altre parole, scaduto il termine di trenta giorni dall’aggiudicazione provvisoria, quest’ultima, in difetto di un provvedimento espresso, si ha per approvata tacitamente, e l’aggiudicatario provvisorio può esigere, chiedendola formalmente, l’emissione del provvedimento di aggiudicazione definitiva, quale atto conclusivo della procedura concorsuale (cfr. CdS, III, 16.10.2012 n. 5282; IV, 26.3.2012 n. 1766, citata dalla stessa ricorrente)”.

Con riferimento all’accertamento dei requisiti di ammissione in capo alle imprese partecipanti, il Collegio asserisce che: “anche qualora si aderisse alla tesi della ricorrente – e cioè che il silenzio serbato dall’Amministrazione avrebbe trasformato l’aggiudicazione provvisoria in definitiva -, la situazione non muterebbe, in quanto l’art. 11, VIII comma subordina comunque l’efficacia dell’aggiudicazione definitiva alla positiva verifica del possesso, in capo all’aggiudicataria, dei prescritti requisiti, che, se riscontrati assenti (come nel caso in esame), consentono l’esercizio dell’autotutela, ovvero, se non riscontrati per inerzia, consentono all’interessata di sciogliersi da ogni vincolo mediante atto notificato alla stazione appaltante (art. 11 cit, IX comma).

La verifica dei requisiti di ammissione è, dunque, in ogni caso un adempimento che la stazione appaltante deve espletare sia in sede di approvazione dell’aggiudicazione provvisoria, sia – in caso di inutile decorso del termine per provvedere all’approvazione – in sede di aggiudicazione definitiva, quale condizione di efficacia”.

Infine il T.A.R. Veneto chiarisce la natura dell’aggiudicazione provvisoria: “Non sussistono, infine, le dedotte violazioni degli artt. 7 e 10 bis della legge n. 241/90 atteso che l’aggiudicazione provvisoria è atto endoprocedimentale, sicché il suo annullamento è soggetto né a comunicazione di avvio del procedimento, né (non essendo, peraltro, procedimento di parte) a preavviso di rigetto”.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Venento n. 178 del 2013

Accesso agli atti: il fatto che le due proprietà non siano confinanti, ma separate da una strada, non esclude l’interesse

14 Feb 2013
14 Febbraio 2013

Un comune aveva negato un accesso agli atti relativi a pratiche edilizie, con la motivazione che il richiedente non confinava con la proprietà interessata agli interventi, essendo separata da quella da una strada pubblica.

IL TAR, con la sentenza n. 60 del 2013,  non ha ritenuto legittimo il diniego: "pur apparendo di fatto superato il problema degli scarichi a seguito dell’esecuzione da parte del controinteressato dei lavori di adeguamento ordinati con l’ordinanza contingibile ed urgente n. 3/2012 del 3.4.2012, possa profilarsi in ogni caso l’interesse della società ricorrente ad acquisire la conoscenza degli atti oggetto dell’istanza di accesso; premesso infatti che la circostanza per cui le due proprietà non sono confinanti, in quanto divise dalla strada, di per sé non è idonea ad escludere l’interesse alla richiesta di accesso, tenuto conto degli episodi pregressi che avevano interessato proprio versamenti sulla strada, coinvolgenti anche l’accesso alla proprietà della richiedente; rilevato dalla documentazione depositata in giudizio dalla stessa amministrazione intimata, che la pratica relativa alla DIA presentata dal controinteressato, sebbene diretta ad eseguire lavori di ampliamento dei locali interrati e consolidamento delle mura esistenti, nonché costruzione di una recinzione, è stata successivamente integrata con ulteriori documenti interessanti proprio lo stato del sistema fognario, essendo stata richiesta la relazione geologica ed idrogeologica a corredo della realizzazione dell’impianto fognario; che gli stessi lavori ordinati dal Sindaco testimoniano che il sistema fognario non era adeguato; che quindi tali elementi suffragano l’interesse di parte ricorrente ad accedere agli atti richiesti, non configurandosi detta richiesta quale strumento per un controllo generico sull’attività dell’amministrazione, bensì giustificano l’interesse qualificato al fine di poter valutare, sussistendone i presupposti, proprio in esito all’accesso, la proposizione di eventuali azioni di responsabilità conseguenti all’inadeguatezza degli scarichi fognari facenti capo al controinteressato; per detti motivi va accolto il ricorso e quindi, annullato il diniego opposto dall’amministrazione, si dispone che l’amministrazione provveda a rendere disponibile la documentazione richiesta dalla ricorrente, con facoltà di visione ed estrazione copia".

sentenza Tar Veneto 60 del 2013

Esercizi di somministrazione di alimenti e bevande: autorizzazione, scia e silenzio-assenso

13 Feb 2013
13 Febbraio 2013

La sentenza della terza sezione del T.A.R. Veneto n. 134 del 5 febbraio 2013 è già stata oggetto di segnalazione in questo sito, in relazione alla tematica della programmazione comunale dell’apertura di esercizi di somministrazione di alimenti e bevande (rif. art. 64 del D.Lgs. 59/2010)

La stessa merita attenzione anche in relazione alla tematica del regime autorizzatorio applicabile all’apertura di pubblici esercizi.

In un precedente post del blog venetoius, intitolato “All’apertura degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande si applica ancora il regime dell’autorizzazione espressa o si applica la scia?”, si era già affrontata la questione della necessità o meno dell’autorizzazione espressa, in conseguenza della introduzione della scia ad opera della legge 30 luglio 2010, n. 122.

Si segnalava, in proposito, la Circolare del Ministero dello Sviluppo economico n. 3637/C del 10 agosto 2010, la quale offriva la seguente indicazione, sulla scorta della lettura combinata del nuovo art. 19 della L. 241/1990 e dell’art. 64, cc. 1 e 3 del D.Lgs. 59/2010: occorre l’autorizzazione espressa (e non si può fare ricorso alla scia) se, ai fini dell’avvio di un’attività, la disciplina di settore disponga la necessità di strumenti di programmazione, come nel caso previsto dall’art. 64 c. 3 per l’apertura di nuovi esercizi di somministrazione di alimenti e bevande.

Questa conclusione è coerente con quanto affermato dagli arrt. 14 e ss. del D.Lgs. 59/2010, i quali, nei servizi c.d. liberalizzati, prevedono il mantenimento di regimi autorizzatori, ed in particolare l’adozione di un provvedimento autorizzatorio espresso (cfr. art. 17), soltanto “qualora sussista un motivo imperativo di interesse generale”. Abbiamo già rilevato, commentando l’art. 64 del medesimo decreto legislativo, che il fatto che sussista una programmazione delle aperture di esercizi di somministrazione presuppone l’esistenza di motivi imperativi di interesse generale.

Ritorna, quindi, anche per quanto riguarda la tematica del regime autorizzatorio delle aperture di pubblici esercizi, il concetto, sfumato e di difficile applicazione pratica, di “motivi imperativi di interesse generale”.

Questo concetto è dunque in grado di incidere sull’esercizio della libertà d’impresa sotto un duplice profilo:

-         può essere invocato in sede di programmazione per limitare le nuove aperture;

-     dilata i tempi per l’avvio dell’attività, dal momento che non consente di fare ricorso alla scia, ma richiede una autorizzazione espressa.

Sotto quest’ultimo profilo dei tempi dell’avvio dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande, la sentenza in esame disquisisce su quale sia il termine per la formazione del silenzio-assenso. I ricorrenti invocavano l’applicazione del termine generale di trenta giorni, stabilito per la conclusione del procedimento amministrativo dall’art. 2, comma 2 della L. 241/1990. Il TAR Veneto ha indicato, invece, il diverso termine di 60 giorni, rinvenuto al punto 49, della tabella C, di cui all’allegato 3, del DPR 26 aprile 1992, n. 300, come sostituito dall’allegato 1 del DPR 9 maggio 1994, n. 407 (“Elenco delle attività sottoposte alla disciplina dell'art. 20 della legge n. 241 del 1990 con indicazione del termine entro cui la relativa domanda si considera accolta”).

Preso atto che esiste un particolare termine per la conclusione di questa tipologia di procedimenti autorizzatori, ci si interroga se sia corretto dare per scontato, come fa il TAR, che si applichi ad essi l’istituto del silenzio-assenso, soprattutto alla luce del comma 4 dell’art. 20 della L. 241/1990, che ne esclude l’applicabilità “agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, l'immigrazione, l'asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità, ai casi in cui la normativa comunitaria impone l'adozione di provvedimenti amministrativi formali …”.

Se si raffronta questa elencazione di procedimenti esclusi con l’elencazione (esemplificativa) dei motivi imperativi di interesse generale che giustificano una programmazione delle aperture ai sensi all’art. 64 del D.Lgs. 59/2010 (“ragioni non altrimenti risolvibili di sostenibilità ambientale, sociale e di viabilità rendano impossibile consentire ulteriori flussi di pubblico nella zona senza incidere in modo gravemente negativo sui meccanismi dì controllo in particolare per il consumo di alcolici, e senza ledere il diritto dei residenti alla vivibilità del territorio e alla normale mobilità. ( … ) finalità di tutela e salvaguardia delle zone di pregio artistico, storico, architettonico e ambientale”), ci rende conto che questo tipo di procedimenti autorizzatori potrebbero involgere aspetti riguardanti “il patrimonio culturale e paesaggistico”, “l'ambiente”, “la pubblica sicurezza”, “la salute” e “la pubblica incolumità” e, quindi, potrebbero essere esclusi dall’applicazione del silenzio-assenso. Si deve anche considerare che i citati artt. 14 e ss. del D.Lgs. 59/2010 impongono, in applicazione delle corrispondenti disposizioni della direttiva 2006/123/CE, “l'adozione di provvedimenti amministrativi formali” nel caso in cui vengano in rilievo motivi imperativi di interesse generale, cosicchè, anche per questa via, potrebbe escludersi l’applicabilità del silenzio-assenso ex art. 20, c. 4 della L. 241/1990.

La tematica, per il vero, era già stata affrontata dal TAR per il Veneto nella sentenza n. 1799 del 18 giugno 2008, la quale, si sottolinea, aveva tuttavia come riferimento la disciplina nazionale e regionale sull’esercizio della somministrazione e non anche la nuova disciplina di cui al D.Lgs. 59/2010, comprensiva del concetto di “motivi imperativi di interesse generale”, con tutto il suo portato. Si riporta un passo della sentenza citata. “L'art. 20, comma 4, della l. n. 241 del 1990 stabilisce che la disciplina sul silenzio - assenso non si applica agli atti e ai procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza e l'immigrazione, la salute e la pubblica incolumità, ai casi in cui la normativa comunitaria impone l'adozione di provvedimenti amministrativi formali, ai casi in cui la legge qualifica il silenzio dell'amministrazione come rigetto dell'istanza, nonché agli atti e procedimenti individuati con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con i ministri competenti. I procedimenti che riguardano le autorizzazioni all'insediamento di pubblici esercizi di somministrazione di alimenti e bevande non rientrano in nessuna delle materie appena indicate. Neppure risulta che il Presidente del Consiglio dei ministri, con uno o più decreti, abbia stabilito che ai procedimenti suddetti non si applicano le disposizioni del citato art. 20. Il fatto che nel caso in esame si faccia questione di provvedimenti assoggettati a "contingentamento" o a "parametri numerici" o a "criteri di programmazione" non preclude certo l'applicazione della disciplina relativa al silenzio - assenso : sul piano letterale, perché l'art. 20 si riferisce ai "procedimenti a istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi; con un richiamo quindi alla macro categoria dei provvedimenti amministrativi che appare comprensivo di tutti gli atti di natura autorizzatoria (ad eccezione delle materie di cui all'art. 20, comma 4, e fatto salvo, ovviamente, il campo d'intervento dell'art. 19 sulla attività private sottoposte a regime di liberalizzazione); sul piano logico, perché non si spiegherebbe come mai l'art. 19 della l. n. 241 del 1990 consideri anche casi nei quali per il rilascio di un atto ampliativo della sfera giuridica del privato sono previsti limiti o contingenti complessivi, o specifici strumenti di programmazione settoriale, allo scopo di escludere esplicitamente detti casi dall'ambito di applicazione della disciplina in tema di d.i.a., e viceversa all'art. 20 il legislatore, ove intenzionato, a negare l'applicazione dell'istituto del silenzio assenso ai procedimenti soggetti a contingentamento, non abbia ritenuto di introdurre una previsione analoga menzionandola: il fatto è che se si raffrontano le formulazioni degli art. 19 e 20 della l. n. 241 del 1990, su questo aspetto specifico, non sembrano esservi ragioni per concludere che ai casi soggetti a contingentamento non si applica non solo la d.i.a. ma neppure il silenzio – assenso”.

avv. Marta Bassanese

sentenza 134_20013

sentenza tar ve 1799 _ 2008

Anche i volumi tecnici devono rispettare le distanze dai confini e dalle costruzioni

13 Feb 2013
13 Febbraio 2013

Scrive il TAR Veneto nella sentenza n. 57 del 2013: "ritenuto, concordemente con la giurisprudenza citata dalla difesa resistente, che anche per i volumi tecnici debbano essere rispettate le distanze da confini e costruzioni, attese le finalità sottese a tale osservanza, imposta dal codice civile ed eventualmente in termini più rigorosi dai regolamenti comunali".

In applicazione di tale affermazione è stato ritenuto legittimo il diniego di sanatoria ex art. 36 del DPR 380 del 2001, per mancanza della doppia conformità (tra l'altro per il mancato rispetto delle distanze daik confini), per quanto riguarda le seguenti opere:

- ampliamento senza titolo del complesso artigianale consistente nella costruzione di un locale nel quale sono stati alloggiati i quadri elettrici;

-  costruzione di una cabina elettrica con variazioni essenziali rispetto al titolo edilizio  (in quanto realizzata a circa 34 mt. di distanza dal luogo autorizzato).

D.M.

sentenza TAR Veneto 57 del 2013

 

Il principio di alternatività è reciproco e trova applicazione tutte le volte in cui fra gli atti impugnati con i diversi rimedi vi sia un nesso di stretta consequenzialità

12 Feb 2013
12 Febbraio 2013

La sentenza del TAR Veneto n. 56 del 2013 fa il punto su alcune rilevanti questioni in materia di alternatività tra ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e ricorso giurisdizionale.

Scrive il TAR: "il Collegio ritiene che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, per violazione del principio di alternatività tra ricorso straordinario e ricorsogiurisdizionale, come eccepito dalla difesa comunale. L'operatività del detto principio, previsto dall'art. 8, comma 2, del d. P. R. n. 1199/1971: "Quando l'atto sia stato impugnato con ricorso giurisdizionale, non è ammesso il ricorso straordinario da parte dello stesso interessato" (ma il principio ricomprende anche la regola reciproca: effetto preclusivo della pendenza del ricorso straordinario  sulla proposizione del ricorso giurisdizionale), testualmente riferito al caso di ricorsi proposti, nelle diverse sedi giurisdizionale e straordinaria, avverso gli stessi atti, è stata progressivamente estesa, in via d'interpretazione giurisprudenziale, all'ipotesi dell'impugnativa di atti distinti, purché legati tra loro da un nesso di presupposizione (cfr., T.A.R. Veneto n. 2376/2010). In particolare, è stato affermato che: "La regola dell'alternatività tra il ricorso straordinario al Capo dello Stato e quello giurisdizionale, sancita dall'art. 8 d. P. R. 24 novembre 1971 n. 1199, pur non essendo suscettibile di interpretazione analogica, allorché le due impugnative riguardino atti distinti, deve comunque ritenersi operante nel caso in cui dopo l'impugnativa in sede giurisdizionale dell'atto presupposto venga successivamente impugnato in sede straordinaria l'atto conseguente, al fine di dimostrarne l'illegittimità derivata dalla dedotta invalidità dell'atto presupposto; ciò per l'identità sostanziale delle due impugnative in relazione alla "ratio" della norma summenzionata, la quale appare volta ad impedire un possibile contrasto di giudizi in ordine al medesimo oggetto. Tale principio è da ritenersi ugualmente valido nella situazione inversa in cui come nella fattispecie l'atto presupposto sia stato precedentemente impugnato in sede straordinaria" (cfr. Cons. Stato, IV, 21.4.2005, n. 1852). Nella motivazione della suddetta sentenza si osserva, inoltre, che: "La correttezza di un simile orientamento appare altresì suffragata dalle sopravvenute disposizioni della legge 21 luglio 2000, n. 205, che all'art. 1, nel modificare l'art. 21 della citata legge n. 1034 del 1971, pongono in rapporto di stretta correlazione tutti i provvedimenti successivi che risultino connessi a quello originariamente impugnato, stabilendo che i predetti atti ulteriori sono impugnati mediante proposizione di motivi aggiunti, al fine evidente di favorire la trattazione congiunta di tutte le questioni afferenti ad un medesimo oggetto". In altri termini, il principio dell’alternatività trova applicazione anche nelle ipotesi in cui gli atti impugnati in sede giurisdizionale siano distinti da quelli impugnati in sede straordinaria, ma riguardino la medesima situazione sostanziale, dovendo tale principio di alternatività essere inteso in senso sostanziale, nel senso cioè di privilegiare le esigenze di economia dei giudizi e di escludere che possano intervenire più pronunce in presenza di provvedimenti che costituiscano manifestazione di una potestà sostanzialmente unitaria. Pertanto, deve ritenersi che la regola dell’alternatività trovi applicazione tutte le volte in cui fra gli atti impugnati con i diversi rimedi vi sia un nesso di stretta consequenzialità, come è nel caso di specie, dove la nota dirigenziale impugnata con il presente ricorso si pone, se non come mera conferma del contenuto e degli effetti dell’ordinanza di demolizione impugnata con il ricorso straordinario, comunque, come momento esecutivo di quest’ultima. E peraltro, poiché tale regola mira non solo ad evitare il conflitto di giudizi, ma anche a garantire l’economia processuale, la stessa deve trovare applicazione non solo laddove avverso l’atto conseguente vengano dedotti esclusivamente vizi derivati, ma anche quando, come nel caso di specie, vengano dedotte anche censure autonome, cioè distinte dall’invalidità derivata. Dovendosi ritenere in contrasto con la regola stessa che due distinti organi si occupino di una controversia che, grazie ai motivi aggiunti, può agevolmente concentrarsi innanzi ad uno solo di essi. Per le ragioni innanzi illustrate il ricorso deve essere dichiarato inammissibile".

sentenza Tar Veneto 56 del 2013

Project financing e pubblico interesse

12 Feb 2013
12 Febbraio 2013

Il project financing - ossia la finanza di progetto - è definito come una “operazione di finanziamento di una particolare unità economica, nella quale un finanziatore fa affidamento, sin dallo stadio iniziale, sul flusso di cassa e sugli utili dell’unità economica in oggetto come la sorgente di fondi che consentirà il rimborso del prestito ed in cui le attività dell’unità economica fungono da garanzia collaterale del prestito” (K. P. NEVITT, Project financing, trad. it. della 4^ ed. a cura di P. De Sury, Bari-Roma, 1987, p.13).

Fermo restando che l’attuale disciplina del project financing è dettata dagli artt. 153 e ss. D. Lgs. 163/2006, il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza del 29 gennaio 2013 n. 102, si sofferma sulla (previgente) disciplina del project financing prevista dagli artt. 37 bis e ss. l. 109/1994, dichiarando che: “Caratteristica essenziale del project financing è quella di porre a carico dei soggetti promotori o aggiudicatari, in tutto o in parte, i costi necessari alla progettazione ed esecuzione dei lavori assicurando loro come (unica) controprestazione il diritto di gestione e, quindi, lo sfruttamento economico delle opere realizzate.

Il predetto istituto è stato introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 37 bis e seguenti della legge n. 109 del 1994, prevedendo due fasi logicamente e cronologicamente distinte: la prima (art. 37 bis, ter e quater) ove l’Amministrazione, sulla base del progetto presentato da un soggetto promotore, valuta la fattibilità della proposta e il suo pubblico interesse; la seconda, del vero e proprio “project financing” (artt. da 37-quinquies a 37-nonies), in cui è analiticamente disciplinato il rapporto intercorrente tra la stessa Amministrazione e il soggetto aggiudicatario, in regime di concessione ai sensi dell'art. 19, II comma della stessa legge n. 109 del 1994.

Con specifico riguardo alla prima fase, dopo aver stabilito che le proposte di finanziamento presentate dai promotori possono riguardare soltanto lavori pubblici e di pubblica utilità inseriti nella programmazione triennale di cui all'art. 14, II comma della citata legge n. 109 del 1994, ovvero negli strumenti formalmente approvati dall'Amministrazione sulla base della normativa vigente (art. 37 bis), il legislatore ha analiticamente disciplinato i criteri e le modalità di valutazione delle proposte prevedendo che "le amministrazioni aggiudicatici valutano la fattibilità delle proposte presentate sotto il profilo costruttivo, urbanistico ed ambientale, nonché della qualità progettuale, della funzionalità, della fruibilità dell'opera, dell'accessibilità al pubblico, del rendimento, del costo di gestione e di manutenzione, della durata della concessione, dei tempi di ultimazione dei lavori della concessione, delle tariffe da applicare, della metodologia di aggiornamento delle stesse, del valore economico e finanziario del piano e del contenuto della bozza di convenzione, verificano l'assenza di elementi ostativi alla loro realizzazione e, esaminate le proposte stesse anche comparativamente, sentiti i promotori che ne facciano richiesta, provvedono ad individuare quelle che ritengono di pubblico interesse" (art. 37 ter, come modificato dalla legge n. 166 del 2002).

È dunque evidente che la valutazione dell'Amministrazione si articola a sua volta in una duplice fase: una valutazione di idoneità tecnica della proposta e, all'esito, una valutazione di rispondenza della stessa al pubblico interesse.

La giurisprudenza ha giustamente evidenziato come sia soprattutto in questa seconda fase che massimo è il margine di discrezionalità riservato all’Amministrazione, trattandosi di giudizio coinvolgente la valutazione comparativa degli interessi che essa assume rilevanti in un determinato momento storico e che è sindacabile in sede giurisdizionale solo sotto il profilo della manifesta illogicità, irrazionalità, contraddittorietà e degli errori di fatto (cfr. CdS, V, 23.3.2009 n. 1741; TAR Veneto, I, 14.9.2010 n. 4742; TAR Milano, I, 21.4.2010 n. 1111)”.

 Attualmente, tali considerazioni concernenti l’ampia discrezionalità dell’Amministrazione nel valutare il “pubblico interesse” della proposta, possono valere solamente per il project financing ad iniziativa privata (c.d. sistema del promotore additivo) delineato dall’art. 153, c. 16-18, D. Lgs. 163/2006: infatti nelle operazioni di project financing ad iniziativa pubblica, previste dall’art. 153 c. 1-14 (c.d. sistema del promotore monofase) e c. 15 (c.d. sistema del promotore bifase), D. Lgs. 163/2006, la valutazione d’interesse pubblico dell’intervento è già operata a priori dall’ente.

Nel c.d. sistema del promotore additivo, invece, il margine di libertà riconosciuto ai promotori nella predisposizione delle proposte è molto più ampio, sicché appare giustificata la riserva in capo all’Amministrazione di una verifica preventiva non solo sull’ammissibilità della proposta, ma soprattutto sulla rispondenza al pubblico interesse delle modalità realizzative ipotizzate dal proponente.

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 102 del 2013

“Imperativi motivi di interesse generale”: formula nuova per dire sempre la stessa cosa (che il Comune può ancora vietare nuovi bar e ristoranti)?

11 Feb 2013
11 Febbraio 2013

La sentenza della terza sezione del T.A.R. Veneto n. 134 del 5 febbraio 2013 risulta particolarmente interessante, perché affronta la tematica della programmazione comunale dell’insediamento degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 26 marzo 2010, n. 59, recante l’ “Attuazione della direttiva europea 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno”.

Premessa. Come sappiamo, prima dell’entrata in vigore del D.lgs. 59/2010, i comuni, nel predisporre la programmazione commerciale, dovevano fare riferimento agli artt. 33 e 34 della L.R. 21 settembre 2007, n. 29.

Si sottolinea che la citata normativa regionale era intervenuta quando già era stata adottata a livello comunitario la Direttiva 2006/123/CE (c.d. Direttiva Bolkenstein o Direttiva Servizi) e, nel disciplinare la programmazione commerciale, aveva tenuto conto dei principi in essa contenuti. In particolare, nella D.G.R.V. n. 3340 del 4.11.2008 - recante, sensi dell’art. 33 della L.R. n. 29/2007, i “Criteri cui i comuni si attengono nel determinare i parametri ed i criteri di programmazione per il rilascio delle autorizzazioni per l’esercizio dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande” -, si legge che la programmazione comunale si ispira a “un rinnovato concetto del servizio di somministrazione di alimenti e bevande che, superando l’originaria impostazione della pianificazione numerica, si apre a nuovi obiettivi di utilità sociale da rendere al consumatore e, in genere, all’intero sistema dell’economia urbana.”. La Regione ha in sostanza preso atto che si è passati da un regime programmatorio che potremmo definire lato sensu “protezionistico”, basato su parametri numerici, a un regime programmatorio inteso a liberalizzare il settore, al fine di rendere un migliore servizio all’utente.

Con l’entrata in vigore del D.Lgs. 59/2010 è sorto il problema del suo coordinamento con L.R. 29/2007, dal momento che pure esso detta specifiche norme sulla programmazione comunale delle aperture di esercizi di somministrazione di alimenti e bevande. Il riferimento è, in particolare, all’art. 64, comma 3.

La Regione Veneto, attraverso la D.G.R.V. n. 2026 del 3 agosto 2010 ha sostanzialmente fatto salvi i criteri di programmazione dettati dalla ricordata D.G.R.V. 3449/2008 (si precisa che, nel testo della deliberazione dell’agosto 2010, si fa riferimento alla D.G.R.V. 2982/2008, la quale è stata poi rettificata con la citata n. 3449/2008). Afferma la Giunta regionale: “ …  i criteri dettati dalla richiamata deliberazione n. 2982 del 2008 non sono fondati esclusivamente su parametri numerici legati alla mera logica dell’equilibrio tra domanda e offerta, bensì collocano i suddetti parametri nell’ambito di un più ampio quadro conoscitivo utile ai fini di una programmazione comunale fondata, in primis, su valutazioni concernenti la sostenibilità. In conformità, quindi, allo spirito della Direttiva comunitaria, il suddetto provvedimento regionale, ai fini dell’elaborazione dei prescritti criteri, impone che l’introduzione, in sede di programmazione comunale, di eventuali limiti all’accesso all’esercizio dell’attività commerciale debba fondarsi su valutazioni relative alla sussistenza dei motivi imperativi di interesse generale di cui all’articolo 4, comma 8 e al considerando n. 40 della Direttiva, quali, a titolo esemplificativo, i valori attinenti alla tutela del territorio, dell’ambiente, incluso l’ambiente urbano, all’ordine pubblico e alla sicurezza pubblica, alla sanità pubblica, agli obiettivi di politica sociale e di politica culturale, alla conservazione del patrimonio nazionale storico e artistico, alla tutela del consumatore, etc.

Il caso concreto. Nel caso concreto trattato dalla sentenza in commento, i ricorrenti          hanno impugnato la programmazione delle aperture degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande del Comune di Asiago (Deliberazione C.C. n. 22 del 31.05.2011, recante “parametri e criteri di programmazione per il rilascio delle autorizzazioni per l'esercizio delle attività di somministrazione di alimenti e bevande ai sensi della L.R. n. 29/2007 e del D. Lgs. n. 59/2010"), unitamente all’atto applicativo, costituito dal diniego all’apertura di un nuovo esercizio nella piazza principale di Asiago.

Il motivo del diniego è il seguente: la citata programmazione comunale ha stabilito la non rilasciabilità di autorizzazioni de quibus nell'area in cui si trova il locale dei ricorrenti.

Il TAR ha innanzitutto bocciato la tesi dei ricorrenti, i quali sostenevano la immediata applicabilità della Direttiva Servizi e la conseguente disapplicazione dell’art. 64 del D.Lgs. 59/2010 sulla programmazione comunale. I Giudici veneziani, dopo aver rilevato che la citata direttiva comunitaria costituisce atto non direttamente applicabile, affermano che: “ … le menzionate disposizioni nazionali appaiono aver dato corretta applicazione alla direttiva, in quanto la presenza o meno di esercizi commerciali, e ancor più di esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, produce rilevanti conseguenze di carattere urbanistico e sociale sul territorio che costituiscono motivi di interesse generale, e giustificano pertanto il mantenimento del regime autorizzatorio e una programmazione che ponga limitazioni giustificate, nel rispetto di principi di proporzionalità ed adeguatezza, dalla necessità di salvaguardare tali obiettivi di interesse generale.”

Il TAR ha poi respinto la pretesa dei ricorrenti di annullare la programmazione approvata dal Comune di Asiago con la deliberazione di C.C. 22/2011, ritenendo che le limitazioni alle nuove aperture da essa introdotte in una ben delimitata area del centro storico siano conformi alle previsioni del D.Lgs. 59/2010 e costituiscano esercizio di potere discrezionale ispirato ai canoni di ragionevolezza e logicità.

Il TAR è giunto a questa conclusione per il fatto che le limitazioni all’insediamento di nuovi esercizi pubblici nella piazza principale sono state adeguamente motivate dal Comune di Asiago, attraverso il riferimento ad una istruttoria (trasfusa in una relazione allegata ai parametri e criteri di programmazione), la quale ha messo in luce che, in quella particolare parte del centro storico, sussistono “problemi di sostenibilità ambientale e sociale per il traffico generato, per il disturbo arrecato dall’eccessivo addensamento degli avventori, e per il rischio di espulsione dal centro storico di attività commerciali di tipo diverso, funzionali alla residenza”. Sussistono, in altre parole, “motivi imperativi di interesse generale”, in presenza dei quali, sia la normativa comunitaria sia quella statale di recepimento, ammettono l’introduzione di limiti numerici alle nuove aperture e che l’art. 64 del d.lgs 59/2010 così esemplifica: “ … ragioni non altrimenti risolvibili di sostenibilità ambientale, sociale e di viabilità (che) rendano impossibile consentire ulteriori flussi di pubblico nella zona senza incidere in modo gravemente negativo sui meccanismi dì controllo in particolare per il consumo di alcolici, e senza ledere il diritto dei residenti alla vivibilità del territorio e alla normale mobilità.

A proposito di discrezionalità. Ma chi controlla che la discrezionalità sia esercitata in modo serio? Qual è il confine tra discrezionalità e arbitrio, non in astratto, ma in concreto?

avv. Marta Bassanese

sentenza TAR Veneto 134 del 2013

L’autocertificazione non si applica al certificato di qualità

11 Feb 2013
11 Febbraio 2013

Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza del 6 febbraio 2013 n. 167, dichiara che la “mera autocertificazione di osservare i canoni indicati nel certificato SA 8000, l’adozione del codice etico da parte della società, nonché l’avvenuto accordo negoziale con un organismo accertatore per il rilascio del certificato SA 8000”, non soddisfa il requisito della qualità richiesta dal bando di gara (ossia il certificato di qualità SA 8000/2008).

Dopo aver svolto un approfondito excursus sulla natura giuridica del certificato SA 8000 richiesto dalla lex specialis – avente lo scopo di “fornire un complesso standard di qualità basato sulle norme internazionali, sui diritti umani e sulle leggi nazionali in materia di lavoro, proprio per definire, in senso ampio, l’intera attività aziendale, investendo, come detto, oltre che i lavoratori, anche i terzi, in ogni modo coinvolti nell’attività sociale” -, il Collegio, accertato che nel caso di specie “la cogente previsione del bando, circa il possesso dei requisiti di qualità in capo alle aziende che intendono partecipare alla gara, nei termini individuati dalla certificazione SA 8000, non è punto illogica, né fonte alcuna di discriminazione ma, ritiene il Collegio, conforme al peculiare oggetto dell’appalto, così da impedire ogni intervento del giudice in seno a tali scelte (Cons. St., sez. V, 19 novembre 2009, n.7247), atteso, altresì, che tali rigorosi requisiti di partecipazione non hanno punto ristretto la platea dei partecipanti se ben quattro dei cinque partecipanti alla gara erano in possesso ed hanno prodotto il richiesto certificato”, afferma che: “non è sufficiente che la società concorrente dichiari di possedere i requisiti di qualità richiesti dal bando, è necessario, altresì, che lo dimostri, in via diretta con le attestazioni o con le certificazioni previste e richieste dalla stazione appaltante, ovvero, in via indiretta con adeguate documentazioni probatorie secondo il normale metodo deduttivo. E’ appena il caso di ricordare che i termini ed il contenuto del bando, segnatamente le certificazioni di qualità, rientrano tra i requisiti tecnici che l’Amministrazione può richiedere - e che il loro difetto giustifica l’esclusione del concorrente - e non possono essere sindacati in sede giudiziaria, se non per illogicità, incongruenza e discriminazione delle relative clausole, che, nel caso di specie, il Collegio non ravvisa ( Tar Lazio, sez. III, 2 marzo 2009, n. 2113). Non solo. La mancanza del certificato SA 8000 o la prova di analoghe evenienze qualitative, comporta la non conformità dell’offerta alla proposta negoziale, così come indicata nella lex specialis, e, pertanto, obbliga la stazione appaltante, proprio in ossequio dei principi di par condicio tra i soggetti gara, a procedere alla esclusione del concorrente ( Tar Piemonte, 9 febbraio 2012, n.197)”.

 Il T.A.R. Veneto, infatti, pur ammettendo che tali certificazioni possono essere sostituite da una diversa produzione documentale idonea a dimostrare il possesso dei requisiti previsti dal bando, ex art. 43 D. Lgs. 163/206 secondo cui: “Qualora richiedano la presentazione di certificati rilasciati da organismi indipendenti per attestare l'ottemperanza dell'operatore economico a determinate norme in materia di garanzia della qualità, le stazioni appaltanti fanno riferimento ai sistemi di assicurazione della qualità basati sulle serie di norme europee in materia e certificati da organismi conformi alle serie delle norme europee relative alla certificazione. Le stazioni appaltanti riconoscono i certificati equivalenti rilasciati da organismi stabiliti in altri Stati membri. Esse ammettono parimenti altre prove relative all'impiego di misure equivalenti di garanzia della qualità prodotte dagli operatori economici”, osserva che: “le autocertificazioni hanno valenza probatoria solo per le evenienze afferenti e riguardanti direttamente ed immediatamente il solo dichiarante. Nel caso in argomento, invece, l’autodichiarazione di osservare i canoni di cui al certificato SA 8000 involge ed attesta fenomeni e situazioni pertinenti anche a terzi, rispetto ai quali il dichiarante non ha, né la diretta responsabilità, né può avere, tanto meno, la certezza della loro sussistenza. Per tale evenienza, quindi, la società aggiudicataria avrebbe dovuto fornire un diverso supporto probatorio teso a dimostrare attraverso documenti, ovvero anche testimonianze, che la società, nei rapporti di lavoro interno e nella eventuale utilizzazione di soggetti ad essa estranei, ma coinvolti in qualche modo nel ciclo produttivo, utilizza sempre gli standard riassunti nella certificazione SA 8000, richiesta dalla stazione appaltante

Quanto esposto risulta essere conforme alla disposizione contenuta nell’art. 49 DPR 445/2000 (T.U. Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa), il quale prevede che: “I certificati medici, sanitari, veterinari, di origine, di conformità CE, di marchi o brevetti non possono essere sostituiti da altro documento, salvo diverse disposizioni della normativa di settore”.

Dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto 167 del 2013

Il ricorso in materia di silenzio non si applica al caso di inadempimento da parte dell’ente di obblighi di natura privatistica

11 Feb 2013
11 Febbraio 2013

Un Comune e una SPA avevano stipulato una convenzione urbanistica. All’art. 16 della convenzione, le parti avevano individuato nel fallimento della cessionaria del terreno, prima dell’integrale edificazione e urbanizzazione del lotto, una specifica ipotesi di risoluzione della convenzione, con conseguente obbligo per la cessionaria di restituire il terreno al Comune, il quale, da parte sua, avrebbe dovuto rimborsare alla società una somma pari al valore dell’area e di quanto sulla stessa edificato, ridotta del 20% a titolo di penale.

A fronte della richiesta della curatela fallimentare al Comune di pagare, questo era rimasto però inerte.

Il TAR, con la sentenza n. 55 del 2013, respinge il ricorso, perchè l'obbligazione del Comune ha natura privatistica e non è qualificabile come dovere di emanare un atto amministrativo.

Scrive il TAR: "Il ricorso deve essere giudicato infondato, in ragione dell’assenza in capo all’amministrazione di un dovere di provvedere che possa dirsi inadempiuto. Infatti, come correttamente eccepito dalla difesa dell’amministrazione, l’azione avverso il silenzio dell’amministrazione di cui agli artt. 31 e 117  c.p.a., postula la violazione del dovere di provvedere, inteso come dovere di dare formale definizione, con l’adozione di un provvedimento espresso, ad un procedimento di esercizio di un potere amministrativo. Esulano, pertanto, dall’applicazione degli artt. 31 e 117 c.p.a., le fattispecie in cui chi si duole dell’inerzia sia titolare di un diritto soggettivo. Nel caso di specie è evidente che la posizione fatta valere dal fallimento sia di diritto soggettivo essendo nella sostanza chiesto l’adempimento, da parte del Comune, degli obblighi restitutori previsti dalla convenzione del 22 dicembre 2008 nel caso di risoluzione della cessione. Peraltro, nel caso in esame, l’esistenza di una procedimentalizzazione nell’adempimento di tali obblighi, evidenziata dalla ricorrente, non ne muta la natura giuridica di obblighi di natura privatistica, ovvero, non li assimila al dovere di provvedere che presuppone un potere. Siamo dunque in presenza di posizioni di diritto soggettivo, correlate ad obblighi in capo alla pubblica amministrazione (devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133, comma 1, lett. a, n. 2, c.p.a.), suscettibili di ricevere tutela giurisdizionale tramite azioni di accertamento e di condanna, senza la necessaria mediazione di poteri e provvedimenti amministrativi. Pertanto, la fattispecie in esame si pone al di fuori dell’ambito applicativo degli artt. 31 e 117 del c.p.a., in quanto il procedimento iniziato dal Comune non è un procedimento di esercizio di un potere amministrativo, discrezionale o vincolato, destinato a concludersi con l’adozione di un provvedimento. Infine, va esclusa la possibilità di convertire, ai sensi dell’art. 32, comma  2, c.p.a., la proposta azione avverso il silenzio in azione di accertamento e di condanna, essendo a ciò di ostacolo la diversità dei riti (speciale e ordinario) ai quali sono sottoposte le due azioni, e mancando una disposizione codicistica che consenta al Collegio di convertire il rito. In conclusione, la proposta azione avverso il silenzio deve essere rigettata, non essendovi, in capo all’amministrazione, un dovere di provvedere di cui predicare l’inadempienza".

Dario Meneguzzo

sentenza TAR Veneto 55 del 2013

Consumo del suolo: qualcuno comincia ad accorgersi che così non va bene

08 Feb 2013
8 Febbraio 2013

La Regione Veneto sta chiacchierando  di un progetto di legge per limitare il preoccupante fenomeno della cementificazione e valorizzare, invece, la tutela del paesaggio e dell’ambiente. Tale progetto ha la finalità di rilanciare le attività commerciali all’interno dei centri urbani - semplificando altresì la relativa procedura - e di favorire la tutela del paesaggio circostante, incidendo sull’attuale l. r. Veneto 11/2004, contenente le “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”.

L’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) ha rilevato che in Italia vi è un consumo eccessivo dei suoli: negli ultimi anni il consumo di suolo è cresciuto ad una media di 8 metri quadrati al secondo, in constante incremento dal 1956: ciò significa che ogni 5 mesi viene cementificata una superficie pari a quella del comune di Napoli e ogni anno una superficie pari alla somma di quella di Milano e Firenze. In termini assoluti, l’Italia è passata da poco più di 8.000 kmq di consumo di suolo del 1956 ad oltre 20.500 kmq nel 2010, un aumento che non si può spiegare solo con la crescita demografica: se nel 1956 erano irreversibilmente persi 170 mq per ogni italiano, nel 2010 il valore raddoppia, passando a più di 340 mq.

In ambito nazionale recentemente è stata promulgata la legge 14 gennaio 2013 n. 10 pubblicata nella G.U. del 01.02.2013 n. 27 - la quale entrerà in vigore il 16 febbraio 2013 - concernente le “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani”, che ha l’obiettivo di favorire le politiche rigenerative del tessuto urbano attraverso incentivi al recupero delle aree residenziali e la minimizzazione degli impatti ambientali.

È ancora disperso nei corridoi romani, invece, il “Disegno di Legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo”, approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 16.11.2012. Il disegno di legge voleva fissare l’estensione massima di superficie agricola consumabile e stimolare il riutilizzo delle zone già urbanizzate, favorendo il recupero dei nuclei abitati rurali, attraverso la manutenzione, la ristrutturazione ed il restauro degli edifici nonché la valorizzazione del territorio agricolo.

Il disegno di legge prevedeva, inoltre, che i proventi derivanti dai titoli abilitativi edilizi e dalle sanzioni riscosse fossero destinati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, primaria e secondaria, nonché alla qualificazione dell’ambiente e del paesaggio, anche ai fini della messa in sicurezza delle aree esposte a rischio idrogeologico

Infine per limitare il consumo di suolo era previsto che i Comuni potessero introdurre incentivi per il riutilizzo e la riorganizzazione degli insediamenti residenziali e produttivi esistenti, mentre per il miglioramento del patrimonio edilizio ed urbano il testo prevedeva una serie di obblighi sia per i privati che realizzano interventi sia per le Pubbliche Amministrazioni.

dott. Matteo Acquasaliente

DDL_CEMENTIFICAZIONE

relazione illustrativa

analisi tecnico-normativa

analisi impatto

articolo del giornale di Vicenza

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