Note sulla riforma degli enti locali

15 Apr 2014
15 Aprile 2014

Approda in Gazzetta ufficiale la Legge 7 aprile 2014 n. 56, meglio nota come Legge Del Rio.

Nelle more dell'approvazione della riforma costituzionale , viene dettata un'ampia riforma in tema di Enti locali. Si norma, infatti, l'istituzione e la disciplina delle Città metropolitane, si ridefinisce il sistema delle Province e si dettano nuove norme in tema di unioni e fusioni di comuni. Concludono il quadro alcune disposizioni sugli organi dei Comuni.

Il testo si compone di un articolo unico suddiviso in 151 commi.

Le città metropolitane sono individuate quali Enti territoriali di area vasta a cui sono attribuite specifiche finalità istituzionali quali la cura dello sviluppo strategico del territorio metropolitano, la promozione e gestione integrata dei servizi, delle infrastrutture e delle reti di comunicazione di interesse della medesima città metropolitana, cura delle relazioni istituzionali afferenti il proprio livello, comprese quelle con le città metropolitane europee.

Le città meropolitane individuate sono 9: Torino , Milano , Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria.

Il territorio di ciascuna città metropolitana coincide con quello della Provincia omonima, fatto salvo il procedimento ordinario per il passaggio di singoli comuni da una provincia limitrofa alla città metropolitana e viceversa sulla base dell'art. 133 primo comma della Costituzione, con il rafforzamento, rispetto al procedimento disciplinato dalla Costituzione, del ruolo della Regione.

Organi della città metropolitana sono il Sindaco metropolitano, il consiglio metropolitano e la conferenza metropolitana; tutti gli incarichi sono svolti a titolo gratuito.

Il Sindaco metropolitano, che rappresenta l'Ente e sovrintende al funzionamento degli uffici e servizi,  è di diritto il Sindaco del comune capoluogo: si prevede anche la figura di un vicesindaco scelto tra i consiglieri metropolitani e la delegabilità di funzioni ai consiglieri, nel rispetto, però, del principio della "collegialità".

Il Consiglio metropolitano, con competenze di indirizzo e di controllo,  è un organo elettivo di secondo grado a composizione variabile in base alla popolazione: il diritto di elettorato attivo e passivo è, infatti, attribuito ai Sindaci e ai Consiglieri dei Comuni della città metropolitana.

La conferenza metropolitana, composta dai Sindaci dei comuni appartenenti, ha competenze limitate all'adozione dello Statuto e al parere sul bilancio oltre che ad altri poteri propositivi e consuntivi eventualmente previsti nello statuto.

Alla città metropolitana sono attribuite sia le funzioni fondamentali delle province che funzioni specifiche proprie come la pianificazione territoriale generale, il piano strategico del territorio metropolitano, strutturazione di sistemi coordinati di servizi pubblici,  organizzazione di servizi pubblici di interesse generale di ambito metropolitano, mobilità e viabilità, promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale e dei sistemi di informatizzazione e di digitalizzazione ed eventuali ulterio funzioni attribuibili dallo stato e dalle Regioni.

In sede di prima applicazione la città metropolitana è costituita nel territorio dell'omonima provincia e la Legge disciplina un articolato procedimento per l'istituzione, che prevede , nelle more delle elezioni del consiglio metropolitano, la proroga delle funzioni del Presidente della Privincia , che assume anche le funzioni del consiglio provinciale, e delle giunta provinciale per l'ordinaria amministrazione fino al 31 dicembre 2014. Analogamente sono prorogati i commissariamenti in atto. L'effettivo passaggio dalla Provincia alla città metropolitana è, quindi, fissato al primo gennaio 2015 con il trasferimento del patrimonio , del personale e delle risorse della provincia e con il subentro in tutti i rapporti attivi e passivi.

Una disciplina, dichiarata espressamente,  con norma meramente dichiarativa,  di natura transitoria, introduce, altresì,  la riforma delle province, che diventano organi rappresentativi di secondo livello, con un Presidente eletto tra i  Sindaci dei comuni della provincia stessa e un consiglio provinciale scelto tra i consiglieri e i sindaci dei comuni della provincia. Il diritto di elettorato attivo spetta, in entrambi i casi, ai medesimi Sindaci e ai consiglieri della provincia. Anche in questo caso le cariche previste sono gratuite.

Il riparto di competenze ricalca quello previsto per le città metropolitane. In modo analogo, alcuni poteri specifici e limitati sono attribuiti all'Assemblea dei Sindaci dei Comuni della provincia.

Specifiche norme disciplinano la prima costituzione dei nuovi organi provinciali che riguardano le Province attualmente commissariate e quelle i cui organi scadono per fine mandato nel 2014. La completa operatività dovrebbe aversi al primo gennaio 2015.

Relativamente alle funzioni, la Legge, che definisce le province, in modo generico, come enti con "funzioni di area vasta",  elenca al comma 85 quelle fondamentali, tra cui si segnalano, in particolare, la pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, la gestione dell'edilizia scolastica, la tutela ambientale.

Al fine di rafforzare il ruolo di supporto della Provincia a favore dei Comuni , d'intesa con questi, possono, tra l'altro,  esserle attribuite funzioni di stazione appaltante e di organizzazione dei concorsi.

In attuazione dell'art. 118 della Costituzione, ulteriori funzioni possono essere attribuite dallo Stato e dalle Regioni, sulla base di uno specifico procedimento e nel perseguimento di particolari finalità come garantire che determinati compiti siano esercitati in ambiti territoriali ottimali, che funzioni fondamentali dei comuni siano garantite con la massima efficacia o per riconosciute esigenze di unitarietà.

I commi da 104 a 115  e da 131 a 134 dettano disposizioni in materia di unioni di Comuni introducendo alcune modifiche all'art. 32 del TUEL sulla composizione numerica del Consiglio dell'unione, determinazione rimessa allo Statuto senza predeterminazione di un numero massimo ex lege,  sull'attribuzione di potestà stauttaria oltre che regolamentare,  sulla previsione obbligatoria che il presidente dell'Unione si avvalga del segretario comunale di uno dei Comuni. E' confermata, anche per questi organi, la gratuità delle cariche.

Di particolare rilevanza il comma 110 che introduce alcune significative precisazioni in merito alla possibilità che, tramite le Unioni, possano essere svolte in forma associata per i comuni che le costituiscono le attività di responsabile anticorruzione, responsabile per la trasparenza e quelle proprie del nucleo di valutazione.

Misure agevolative  e accelerative sono introdotte, nei commi successivi,  in materia di fusioni di comuni, oltre che essere definite disposizioni organizzative di tipo procedurale per regolamentare il passaggio dalla vecchia ala nuova gestione.

Le ultime disposizioni , che precedono quelle finali, introducono, ad invarianza della spesa, l'aumento del numero massimo di consiglieri e di assessori nei comuni fino a 10000 abitanti.

Al fine di garantire che non vi sia incremento di spesa, ogni Comune interessato, deve rideterminare gli oneri connessi con le attività in materia di status degli amministratori, prima di applicare la disposizione . Tale ultimo inciso richiederà sicuramente un intervento di chiarimento in merito alle modalità da seguire.

Il principio della parità di genere, già vigente in via generale anche per le giunte comunali, è ulteriormente rafforzato con la previsione che nessuno dei due sessi, in questi organi,  può essere rappresentato in misura inferiore  al  40% , eccetto che nei Comuni con meno di 3000 abitanti. L'applicazione di tale norma rischia di avere dei problemi applicativi nei Comuni, al di sotto dei 15000 abitanti, in cui è possibile la nomina ad Assessori di cittadini non facerti parte del Consiglio solo se previsto dallo Statuto; non è detto, infatti che a seguito delle elezioni nel consiglio sia garantita la parità di genere, ancora di più nei Comuni con meno di 5000 abitanti dove  sussiste il generico obblico di assicurare la rappresentanza di entrambi i sessi nella presentazione delle liste di candidati, ma non la previsione di una percentuale minima o massima.

Per i Sindaci dei Comuni con meno di 3000 abitanti il limite dei mandati consecutivi passa da due a tre e per i Comuni fino a 15000 viene meno l'incompatibilità tra la carica di parlamentare nazionale o europeo o di membro di Governo con quella di Sindaco.

La riforma introdotta , anche se, per la gran parte, "transitoria" , risulta particolarmente corposa; va sottolineato, però, che, sebbene alcune disposizioni incidano in modo significativo sull'ambito materiale del decreto legislativo 267/2000, non ne introducono una diretta modifica, con la conseguenza che rischiano di essere compromessi i caratteri di unitarietà e omnicomprensività che in materia di ordinamento degli enti locali ha il predetto testo unico, con i conseguenti rischi in sede interpretativa e applicativa.

 Dott.sa  Stefania Di Cindio - Segretario comunale

Circa l’omessa comunicazione di avvio del procedimento per l’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio ai sensi dell’art. 11 del Dpr 327/2001

15 Apr 2014
15 Aprile 2014

Nella sentenza del TAR Veneto n. 503 del 2014 si precisa che rispondono a finalità diverse gli avvisi di avvio del procedimento previsti dagli artt. 11 e 16 del DPR 327 del 2001 (l'apposizione del vincolo preordinato all'esproprio, il primo, e l’approvazione del progetto definitivo ai fini della dichiarazione di pubblica utilità, il secondo) e, quindi devono essere inviati entrambi.

Tuttavia l'omissione del primo in taluni casi può essere "sanata", ai sensi dell'articolo  21 octies della legge n. 241/1990.

Scrive il TAR: "2.1 L’Amministrazione ha, infatti, depositato in giudizio prova dell’avvenuta ricezione della raccomandata del 25 Marzo 2013 mediante la quale si era inteso comunicare l’avvio del procedimento espropriativo finalizzato all’approvazione del progetto definitivo ai fini della dichiarazione di pubblica utilità.

2.2 Non è stata, al contrario, esibita prova per quanto attiene l’avvenuta ricezione, da parte della ricorrente, della comunicazione di avvio del procedimento, diretta all’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio ai sensi dell’art. 11 del Dpr 380/2001.

3. Sul punto va ricordato che per un costante orientamento giurisprudenziale (per tutti si veda T.A.R. Calabria Catanzaro Sez. I, 15-11-2011, n. 1370) le previsioni di cui agli art. 11 e 16 rispondono a funzioni e finalità del tutto differenti, circostanza quest’ultima che impone l’obbligo che l’Amministrazione espropriante proceda all’invio di entrambe le comunicazioni di avvio sopra citate.

3.1 Si è infatti sostenuto che “in forza di quanto previsto dagli articoli 11 e 16 del D.P.R. n. 327/2001 (T.U. Espropriazione per p.u.), al proprietario del bene sul quale si intende apporre il vincolo preordinato all'esproprio deve essere inviato l'avviso dell'avvio del procedimento e del deposito degli atti di cui al comma 1 (ossia  quelli volti a promuovere l'adozione dell'atto dichiarativo di pubblica utilità), con l'indicazione del nominativo del responsabile del procedimento. In sostanza, deve ritenersi sussistente un duplice obbligo di comunicazione, il cui mancato assolvimento implica illegittimità dell'atto dichiarativo della pubblica utilità e degli altri atti successivi, a nulla rilevando che l'interessato abbia avuto comunque conoscenza del procedimento, dato che le esigenze partecipative alla base dell'obbligo di comunicazione non possono essere ritenute soddisfatte da una generica conoscenza dell'esistenza di un procedimento espropriativo, essendo necessario, per escludere la rilevanza dell'omissione della comunicazione di avvio, una precisa conoscenza dell'andamento del procedimento e dell'oggetto di esso”.

3.2 Pur considerando l’esistenza di detto orientamento, i cui contenuti questo Collegio ritiene di condividere, va evidenziato come la fattispecie di cui si tratta risulti caratterizzata da un serie di circostanze del tutto peculiari che, in quanto tali, fanno ritenere prevalente l’applicazione dell’art. 21 octies, rispetto all’orientamento sopra citato. Sul punto risulta, infatti, dirimente constatare come il Comune di Rovigo abbia dato prova, negli atti in causa, che l’area di cui si tratta non avrebbe potuto essere destinata ad una diversa finalità o funzione.

3.3 A dette conclusioni è presumibile che sia pervenuta anche parte ricorrente nel momento in cui ha ritenuto di non presentare osservazioni, o rilievi di sorta, a seguito dell’avvenuto ricevimento della prima comunicazione, diretta a sancire l’avvio del procedimento espropriativo. Nemmeno in sede di giudizio, ed a seguito delle argomentazioni in questo senso dedotte dall’Amministrazione resistente, si è dato conto circa l’ammissibilità di un uso diverso per le aree di cui si tratta o, ancora, circa l’esistenza di elementi tali da rendere illegittimo l’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio.

3.4 Deve ritenersi, inoltre, come costituisse circostanza nota quella relativa all’incidenza nell’area di cui si tratta di un vincolo di inedificabilità assoluta, la cui esistenza era stata peraltro confermata dalla stessa Soprintendenza nel momento in cui aveva sancito, con appositi provvedimenti, la necessità di rispettare nell’area specifiche, e puntuali, prescrizioni.

4. Dette circostanze sono, altresì, desumibili dalla documentazione contenuta nei precedenti ricorsi che, in quanto tali, avevano avuto ad oggetto la restituzione dell’area al Comune di Rovigo e che sono stati decisi da questo Tribunale.

5. In presenza di detti elementi oggettivi è evidente che l’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio costituisse il risultato di una destinazione urbanistica dell’area già in precedenza espressa dall’Amministrazione comunale, destinazione urbanistica che era stata confermata anche dal provvedimento della Soprintendenza nella parte in cui aveva sancito la necessità che venissero rispettate alcune prescrizioni finalizzate a salvaguardare la consistenza vegetativa, escludendo ogni attività edificatoria.

5.1 E’, allora, evidente come nessun elemento ulteriore avrebbe potuto essere eccepito dalla ricorrente e, ciò, nell’eventualità in cui quest’ultima fosse risultata destinataria anche della comunicazione di avvio del procedimento preordinato all’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio.

5.2 Deve ritenersi, pertanto, che il Comune di Rovigo, nel costituirsi in giudizio, abbia dato prova circa l’esistenza di quei presupposti in base ai quali “alla luce del disposto dell'art. 21 octies della legge n. 241/1990 il giudice non può annullare il provvedimento amministrativi per vizi formali che non abbiano inciso sulla sua legittimità sostanziale, quando il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato ((in questo senso si veda Consiglio di Stato Sez. VI, Sent. n. 4614 del 04-09-2007 e Cons. Stato Sez. IV, 29- 01-2014, n. 449)”. L’applicabilità dell’art. 21 octies al caso di specie consente di respingere la censura sopra citata".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto n. 503 del 2014

Non è necessario che l’autorizzazione paesaggistica preceda l’approvazione del progetto preliminare

15 Apr 2014
15 Aprile 2014

Segnaliamo sul punto un passaggio della sentenza del TAR Veneto n. 503 del 2014, dove si legge che: "6. Deve essere respinta, altresì, la seconda censura mediante la quale si evidenzia come la progettazione di un intervento su area vincolata non sarebbe stata preceduta dall’autorizzazione di cui all’art. 146 del Codice dei beni culturali.

6.1 Sul punto va ricordato come costituisca principio consolidato quello diretto a sancire il carattere di atto autonomo e presupposto
dell'autorizzazione paesaggistica, rispetto al permesso di costruire. E’, infatti, noto che il rapporto tra autorizzazione paesaggistica e
permesso di costruire è un rapporto di presupposizione, necessitato e strumentale tra valutazioni paesistiche e urbanistiche, diretto com’è a subordinare l’esecuzione dei lavori all’emanazione del provvedimento di compatibilità.

6.2 Ne consegue che la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica non ha l’effetto di incidere sul procedimento diretto all’approvazione del progetto preliminare (provvedimento ora impugnato) e, ciò, considerando che il rapporto di presupposizione sopra citato consente  all’Amministrazione di acquisire i pareri in un momento successivo e, comunque, antecedente alla predisposizione del progetto definitivo e della stessa realizzazione dei lavori. La censura è, pertanto, infondata e va respinta".

Dario Meneguzzo - avvocato

A proposito di prestazioni sanitarie

15 Apr 2014
15 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. III, nella sentenza del 31 marzo 2014 n. 433, con riguardo alla DGRV n. 2719/2012 che ha assegnato a ciascuna struttura accreditata un tetto massimo non superabile di prestazioni sanitarie erogabili con oneri a carico del servizio sanitario regionale - in modo separato per l’assistenza ospedaliera e quella ambulatoriale - ha chiarito che il termine fissato nella DGRV ha natura ordinatoria e non perentoria perché: “Con il primo motivo la ricorrente lamenta il ritardo con il quale la Regione si è determinata in ordine all’istanza presentata.

Sul punto va osservato che è vero che la deliberazione della Giunta regionale n. 832 del 15 maggio 2012, contiene l’indicazione che il meccanismo del trasferimento del budget va attuato entro il mese di settembre 2012, e che rispetto a questo termine la deliberazione del 24 dicembre è tardiva.

Tuttavia va osservato che nel contesto del procedimento il termine non ha carattere perentorio ma ordinatorio, e la sua violazione comporta pertanto un’irregolarità della procedura, ma non determina di per sé l’illegittimità del provvedimento tardivamente adottato (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato sez. IV, 26 giugno 2013, n. 3519; Consiglio di Stato sez. VI 20 giugno 2012 n. 3592), ferma restando la sanzionabilità del ritardo, ove ne ricorrano i presupposti, sotto altri profili (mediante i rimedi contro il silenzio prima dell’adozione dell’atto finale o sotto il profilo di eventuali responsabilità di carattere risarcitorio per eventuali danni da ritardo)”.

 Nella stessa sentenza il Collegio si sofferma anche sugli accordi regionali in materia di scambi di prestazioni sanitarie: “Con il secondo motivo la ricorrente lamenta l’erroneità delle motivazioni contenute nel parere del Direttore generale poste a sostegno del diniego di trasferimento di una quota del budget per l’attività ospedaliera in favore dei pazienti veneti, al budget per l’attività ambulatoriale rivolta in favore dei pazienti dell’Emilia Romagna.

In particolare tale parere motiva il diniego di trasferimento sul rilievo che tale fattispecie non è prevista dalla disciplina di settore.

La ricorrente confuta la correttezza di tale affermazione ricordando che al contrario la deliberazione della Giunta regionale n. 1180 del 25 giugno 2012, la quale ha dato attuazione all’accordo quadro tra le Regioni interessate per gli scambi di prestazioni sanitarie rivolte ai rispettivi cittadini residenti, ha stabilito che per quanto riguarda i trasferimenti dell’attività tra il tetto ospedaliero ed il tetto ambulatoriale si fa riferimento alla deliberazione n. 832 del 15 maggio 2012, e che a tale dato non può essere attribuito altro significato di ammettere anche tale tipologia di trasferimento del budget.

La censura è infondata e deve essere respinta, perché si basa su una lettura parziale della deliberazione della Giunta regionale n. 1180 del 25 giugno 2012, e non tiene conto delle modalità di funzionamento dell’accordo quadro tra le Regioni interessate per gli scambi di prestazioni sanitarie rivolte ai rispettivi pazienti residenti (cfr. Tar Veneto, Sez. III, 22 aprile 2009, n.1229).

2.1 Sul punto va osservato che, come è noto, l’organizzazione ed il finanziamento del servizio sanitario nazionale da parte dello Stato a ciascuna Regione avviene mediante l’attribuzione di quote pro-capite per ciascun cittadino residente.

Per svariati motivi e anche per libera scelta un cittadino residente in una Regione può decidere di fruire di prestazioni sanitarie in una Regione diversa.

La Regione di residenza sopporta i costi finanziari della prestazione sanitaria di cui fruiscono i propri cittadini in altra Regione (l’art. 12, comma 3, lett. c, del Dlgs. 30 dicembre 1992, n. 502, dispone infatti che il fondo sanitario nazionale è ripartito anche tenendo conto della “mobilità sanitaria per tipologia di prestazioni, da compensare, in sede di riparto, sulla base di contabilità analitiche per singolo caso fornite dalle unità sanitarie locali e dalle aziende ospedaliere attraverso le regioni e le province autonome”).

Tuttavia la Regione che ne sopporta i costi, non può esercitare alcuna forma di controllo sulle prestazioni erogate da strutture ubicate in altra Regione, che finiscono per costituire una variabile all’offerta dei propri servizi su cui la programmazione politico - istituzionale di carattere territoriale non riesce ad influire, dato che tali forme di programmazione, verifica e controllo presuppongono che le strutture siano ubicate nel territorio della Regione che esercita i poteri autoritativi, e non possono invece essere esercitate nei confronti di strutture ubicate in altre Regioni.

Per ovviare alle criticità determinate dalla discrasia tra organizzazione e finanziamento su base regionale del servizio sanitario, e libertà di scelta del cittadino del luogo di cura e delle strutture pubbliche o private presso cui fruire delle prestazioni sanitarie, il legislatore statale all’art. 8 sexies, del Dlgs. n. 502 del 1992, come introdotto dal Dlgs. n. 229 del 1999, ha previsto che “il Ministro della sanità, d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, sentita l'Agenzia per i servizi sanitari regionali, con apposito decreto, definisce i criteri generali per la compensazione dell'assistenza prestata a cittadini in regioni diverse da quelle di residenza. Nell'ambito di tali criteri, le regioni possono stabilire specifiche intese e concordare politiche tariffarie, anche al fine di favorire il pieno utilizzo delle strutture e l'autosufficienza di ciascuna regione, nonché l'impiego efficiente delle strutture che esercitano funzioni a valenza interregionale e nazionale”.

Il Ministero non ha emanato il decreto ministeriale e le Regioni si sono autonomamente attivate, dapprima nell’ambito della Conferenza Stato Regioni e in seguito a livello bilaterale, per disciplinare in modo coordinato ed unitario la reciproca gestione delle prestazioni di ricovero ospedaliero e di disciplina ambulatoriale erogate dalle strutture ubicate nella propria Regione in favore di cittadini residenti nella Regione confinante.

2.2 Poste tali premesse va quindi precisato che lo scopo dell’accordo stipulato tra le Regioni Veneto ed Emilia Romagna di cui alla deliberazione della Giunta regionale n. 1180 del 25 giugno 2012, è quello di regolamentare i flussi della mobilità passiva rispetto agli obiettivi programmatici e al fabbisogno della Regione di residenza dei pazienti che fruiscono delle prestazioni erogate da una struttura ubicata nel territorio di altra Regione.

E’ per questo motivo che la disciplina prevista dalla Regione Veneto per i pazienti residenti nel proprio territorio rispetto all’erogazione di prestazioni effettuata da strutture ubicate in Veneto non è automaticamente trasponibile alla diversa fattispecie della mobilità interregionale dei pazienti residenti nella Regione Emilia Romagna che usufruiscono di prestazioni erogate da strutture ubicate in Veneto, anche con riguardo al trasferimento del budget per attività ospedaliera al budget per l’attività ambulatoriale.

Sul punto l’accordo allegato alla deliberazione della Giunta regionale n. 3582 del 24 novembre 2009, della quale la deliberazione n. 1180 del 25 giugno 2012, costituisce atto applicativo, afferma che “i tetti finanziari sono specifici per livello assistenziale. Possono essere ammessi trasferimenti di importi economici da un livello all’altro solo in relazione a spostamenti di attività, da ricovero ospedaliero ad attività ambulatoriale, a partire da indicazioni regionali” e, per quanto riguarda la specialistica ambulatoriale, afferma che “visto l’indice di consumo ed il contributo dato a tale indice dall’attività delle strutture venete per cittadini dell’Emilia Romagna, si ritiene che il corrispondente numero di prestazioni erogate sia da ritenersi non incrementabile in relazione al fabbisogno. Tale indice di riferimento può essere modificato solo su specifica committenza, previo accordo con la regione territorialmente competente, in relazione all’andamento dell’indice di consumo standardizzato”.

Orbene, in tale contesto è evidente che, come chiarito dalle difese della Regione, il richiamo alla deliberazione n. 832 del 15 maggio 2012, contenuto nella deliberazione n. 1180 del 25 giugno 2012, laddove afferma che “per quanto riguarda i trasferimenti dell’attività tra il tetto ospedaliero ed il tetto ambulatoriale, si fa riferimento alle modalità adottate nella DGR n. 832 del 15 maggio 2012”, lungi dall’estendere la disciplina sostanziale prevista da quest’ultima deliberazione per i cittadini residenti in Veneto, che presuppone il perseguimento degli obiettivi programmatici previsti dalla Regione Veneto, ha il solo significato di rinviare alle procedure ivi previste per ottenere il trasferimento di budget da un livello di assistenza all’altro, senza riferirsi alla disciplina sostanziale ivi prevista che è espressamente derogata dalle norme dell’accordo sopra menzionate.

L’affermazione contenuta nel parere del Direttore dell’Ulss e nella deliberazione impugnata, secondo la quale il trasferimento del budget previsto per assistenza ospedaliera dei cittadini residenti nel Veneto al budget per l’assistenza ambulatoriale per i cittadini residenti nella Regione Emilia Romagna non può essere ammesso perché “non previsto”, deve pertanto essere letto non nel senso che non sia astrattamente ammissibile, ma nel senso che l’istanza non può essere accolta perché non si sono verificate le condizioni affinché in concreto possa essere disposto”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 433 del 2014

Seminario Venetoius su strade, frane e fasce di rispetto in urbanistica

14 Apr 2014
14 Aprile 2014

Venetoius, con il patrocinio dell'Ordine dei Geologi della Regione Veneto, organizza un seminario riguardante le strade, le frane che interessano le strade  e le fasce di rispetto stradale in relazione all'urbanistica.

Montecchio Maggiore, Sala delle Filande, mercoledì 30 aprile ore 9-14

Relatori saranno il geologo dott. Umberto Pivetta, l'ing. Sandro D’Agostini (Dirigente di Veneto Strade S.p.A.); Avv. Paolo Balzani (Avvocato della Provincia di Vicenza); Avv. Stefano Bigolaro (Avvocato del Foro di Padova); Ing. Gilberto Longhi (C.T.U. del Tribunale di Vicenza); Avv. Edoardo Furlan (Avvocato del Foro di Padova e collaboratore del Prof. Avv. Alessandro Calegari); moderatore l'avv. Dario Meneguzzo, curatore di Venetoius.

La partecipazione è gratuita, ma è richiesta l'iscrizione.

L'Ordine dei Geologi e l'Ordine degli Avvocati riconoscono alla partecipazione 4 crediti formativi (non è stato chiesto l'accredito agli altri Ordini e albi per la complessità burocratica della questione).

Chiusura iscrizioni venerdì 25 aprile 2014 con 200 posti disponibili (mediante e mail a venetoius@hotmail.it)

Locandina seminario 30 aprile su strade

Quando il lungo tempo trascorso dall’abuso non diventa un affidamento

14 Apr 2014
14 Aprile 2014

E' nota la giurisprudenza che richiede una motivazione particolare per i provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla commissione dell'abuso (perchè, in tal caso, vista l'inerzia della P.A., il privato si convince che vada bene così).

Tuttavia la sentenza del TAR Veneto n. 493 del 2014 precisa che la questione va esaminata in concreto, tenendo conto dei motivi per i quali è passato tanto tempo.

Per esempio, nel caso in esame: "1. E’ infondato il primo motivo nella parte in cui si sostiene che il provvedimento impugnato avrebbe richiesto una più congrua e analitica motivazione in considerazione del tempo trascorso dalla realizzazione degli abusi.

1.1 Sul punto risulta dirimente l’applicazione di quel costante orientamento giurisprudenziale, il cui contenuto questo Collegio ritiene
di condividere, nella parte in cui qualifica, quale atto dovuto, l’emanazione di un’ordinanza di demolizione nell’ipotesi in cui
l’Amministrazione abbia emanato un precedente diniego di condono.

1.2 Si consideri, inoltre, che nel caso di specie non sussistono nemmeno i presupposti per individuare un “affidamento” del privato e, ciò, considerando come l’Amministrazione a seguito dell’istanza di sanatoria avesse istruito il relativo procedimento che, a sua volta, si era concluso con un provvedimento di rigetto della stessa istanza. Detta circostanza fa ritenere che il ricorrente fosse a conoscenza del carattere abusivo dell’opera, circostanza quest’ultima che è di per sé sufficiente a rilevare l’inesistenza di un “affidamento” della ricorrente circa la legittimità delle opere di cui si tratta.

1.3 Ne consegue che a seguito di detto provvedimento di diniego non poteva non seguire, in considerazione del permanere del carattere abusivo dell’opera, l’emanazione dell’ordinanza di demolizione ora impugnata e, ciò, a prescindere dal periodo di tempo intercorso tra i due provvedimenti sopra citati".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto n. 493 del 2014

 

L’ordinanza di demolizione conseguente a un diniego di sanatoria non richiede l’avviso di avvio del procedimento

14 Apr 2014
14 Aprile 2014

Lo ricorda la sentenza del TAR Veneto n. 493 del 2014.

Scrive il TAR: "2. Devono ritenersi infondati anche il secondo e il terzo motivo mediante i quali si rileva la discordanza tra il contenuto dell’ordinanza di demolizione e la relativa comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 della L. 241/90 e, ancora, la mancanza di motivazione della stessa ordinanza di demolizione.

2.1 Sul punto va ricordato come deve ritenersi prevalente quell’orientamento giurisprudenziale, di recente peraltro confermato (T.A.R. Sardegna Cagliari Sez. II, 11-07-2012, n. 694), nella parte in cui ha precisato che “l'ingiunzione di demolizione di un manufatto abusivo, emessa successivamente all'adozione di un diniego di concessione edilizia in sanatoria, non necessita del previo avviso di avvio del procedimento amministrativo ex art. 7, l. n. 241 del 1990, trattandosi di atto vincolato e meramente consequenziale, nell'ambito di un procedimento sanzionatorio sostanzialmente unitario”.

3. Nemmeno è possibile accogliere l’eccezione diretta a rilevare l’esistenza di un difetto di motivazione e, ciò, considerando come nel
provvedimento siano esplicitate le ragioni dello stesso, queste ultime rinvenibili nel contrasto con l’art. 25 delle NTA e nell’inapplicabilità del disposto di cui all’art. 167 del D. Lgs. 42/2004.

3.1 E’, peraltro, evidente come la motivazione del provvedimento impugnato non avrebbe potuto essere che espressa succintamente,
considerando come l’ordinanza di demolizione costituisse l’immediata conseguenza del provvedimento di diniego, nell’ambito del quale, è lecito presumere, che l’Amministrazione abbia valutato la legittimità (o meno) del manufatto".

Dario Meneguzzo - avvocato

sentenza TAR Veneto n. 493 del 2014

Discrezionalità tecnica della commissione giudicatrice e limiti del sindacato giurisdizionale

14 Apr 2014
14 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 08 aprile 2014 n. 488 chiarisce l’ambito del sindacato giurisdizionale con riferimento alle scelte della stazione appaltante che implicano la c.d. discrezionalità tecnica: “l’infondatezza della censura con cui la ricorrente contesta il giudizio della commissione giudicatrice è correlata al fatto che, come è stato ripetutamente affermato, i provvedimenti discrezionali della pubblica amministrazione avente natura tecnica sono sindacabili dal giudice amministrativo per vizi di legittimità e non di merito, nel senso che non è consentito al giudice amministrativo esercitare un controllo c.d. di tipo "forte" sulle valutazioni tecniche opinabili, che si tradurrebbe nell'esercizio da parte del giudice di un potere sostitutivo spinto fino a sovrapporre la propria valutazione a quella dell'amministrazione. È ben vero che l'esercizio della discrezionalità tecnica non è di per sè idoneo a determinare l'affievolimento dei diritti soggettivi di coloro che dal provvedimento amministrativo siano eventualmente pregiudicati, ma è anche vero che il ricorso a criteri di valutazione tecnica conduce sovente ad un ventaglio di soluzioni possibili, destinato inevitabilmente a risolversi in un apprezzamento non privo di un certo grado di opinabilità: in situazioni di tal fatta il sindacato del giudice, essendo pur sempre un sindacato di legittimità e non di merito, è destinato ad arrestarsi sul limite oltre il quale la stessa opinabilità dell'apprezzamento operato dall'amministrazione impedisce d'individuare un parametro giuridico che consenta di definire quell'apprezzamento illegittimo. Con la conseguenza che compete al giudice di vagliare la correttezza dei criteri giuridici, la logicità e la coerenza del ragionamento e l'adeguatezza della motivazione con cui l'amministrazione ha supportato le proprie valutazioni tecniche. In altre parole, quando il giudizio presenta valutazioni ed apprezzamenti che presuppongono un oggettivo margine di opinabilità, il sindacato giurisdizionale, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica che quel medesimo provvedimento non abbia esorbitato dai margini di opinabilità sopra richiamati, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell'amministrazione che si sia mantenuta entro i suddetti margini”.

 dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 488 del 2014

Mancata conclusione procedura di project financing e risarcimento del danno

14 Apr 2014
14 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. I, nella sentenza del 08 aprile 2014 n. 487 si occupa del risarcimento del danno connesso da c.d responsabilità precontrattuale connesso alla procedura del project financing: “che oggetto della presente controversia è il ristoro della lesione della posizione soggettiva inerente l'affidamento ingenerato nel privato circa l'osservanza da parte della Pubblica amministrazione del dovere di comportarsi secondo buona fede in un procedimento in cui il privato stesso era rimasto coinvolto: la ricorrente chiede, in particolare, il risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale per non avere il Comune portato a conclusione la procedura avviata nel 2008 con la pubblicazione di un avviso inerente ad un intervento di riqualificazione di un’area del litorale del lago di Garda e del relativo parcheggio da realizzarsi con il sistema della “finanza di progetto”, relativamente al quale l’impresa aveva presentato la “proposta”;

che tale questione rientra pacificamente nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, I comma, lett. “e”, sub 1) del DLgs n. 104/2010;

che, quanto alla tutelabilità della pretesa ai fini risarcitori, l’assenza di atti illegittimi non elimina il profilo relativo alla valutazione del comportamento dell'Amministrazione con riguardo al rispetto dei canoni di buona fede e correttezza (da intendersi in senso oggettivo) nell'ambito di un procedimento di evidenza pubblica preordinato alla selezione del contraente: la responsabilità precontrattuale deve, infatti, ritenersi sempre configurabile quando il fine pubblico venga attuato attraverso un comportamento obiettivamente lesivo dei doveri di lealtà, sicché anche nel caso di assenza di provvedimenti illegittimi può scaturire l'obbligo di risarcire il danno nel caso di affidamento suscitato da un comportamento contrario ai canoni comportamentali legalmente sanciti;

che sussiste la responsabilità precontrattuale ex art. 1337 e 1338 c.c. di un ente locale che abbia improvvisamente ed immotivatamente interrotto il procedimento in corso relativo alla prima fase di una procedura di "project financing", nel caso – come quello di specie - in cui l'inerzia sia consistita anche nella omissione di qualsivoglia spiegazione alla ditta interessata sulle ragioni dell'improvviso abbandono del procedimento stesso, nonostante le ripetute richieste di chiarimenti da parte della ditta interessata che aveva depositato il progetto ai fini della declaratoria di pubblico interesse;

che, a tal proposito, è affatto inconferente la sentenza CdS, III, 20.3.2014 n. 1365 depositata dall’Amministrazione, atteso che la procedura di finanza di progetto ivi considerata era espressamente subordinata alla “formale, propedeutica autorizzazione alla realizzazione dell’opera”, autorizzazione che non è stata rilasciata dalla Regione (Campania) per contrasto con la disciplina pianificatoria a livello regionale in materia di rete ospedaliera: in quel caso si era verificato, cioè, un evento impeditivo alla prosecuzione della procedura di "project financing" rappresentato dal mancato realizzarsi della condizione sospensiva cui era legata l’acquisizione di efficacia delle delibere che avevano approvato la procedura stessa, e che era perfettamente nota ai concorrenti;

che la domanda di risarcimento del danno proposta dall’odierna ricorrente è tempestiva sia in relazione al disposto di cui all’art. 30, IV comma c.p.a. (il termine per la proposizione della domanda di risarcimento non decorre, infatti, fino a quando persista il comportamento inadempiente, e nel caso di specie l’Amministrazione non ha ancora ritenuto consumato il proprio potere provvedimentale: cfr. la DGC 3.6.2013 n. 88 e la nota 3.9.2013 del Comune), sia, comunque, in considerazione della natura extracontrattuale del pregiudizio di cui si chiede il ristoro;

che, quanto all’elemento psicologico dell’illecito precontrattuale, la Corte di giustizia ha reputato incompatibile con l'ordinamento comunitario la normativa nazionale che subordini il diritto ad ottenere il risarcimento al carattere colpevole del comportamento della PA (sent. 30.9.2010, C-314/09), configurando invece in modo affatto oggettivo la responsabilità dell'Amministrazione;

che, però, affinchè sussista la responsabilità per "culpa in contrahendo" a carico della Pubblica amministrazione occorre, da un lato che il comportamento tenuto dalla P.A. risulti contrastante con le regole di correttezza e di buona fede di cui all’art. 1337 c.c. e, dall'altro, che lo stesso comportamento abbia ingenerato un danno effettivo in capo al soggetto che chiede il risarcimento;

che, nella specie, è pacifica la responsabilità dell’Amministrazione per avere immotivatamente receduto dalla procedura, atteso che l'interruzione del procedimento ad evidenza pubblica si qualifica come violazione della legge (art. 1337 c.c.) che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede e correttezza nelle trattative, cagionando, conseguentemente, l'ingiusto sacrificio dell'affidamento ingenerato nella ricorrente dal pubblicato avviso di procedura, così integrando una responsabilità di tipo precontrattuale;

che - in disparte la considerazione che la clausola contenuta nell’avviso di project financing in esame, secondo cui “in nessuna delle ipotesi…i promotori avranno titolo a richiedere al Comune indennizzi o rimborsi di sorta”, riguarda esclusivamente le “ipotesi soprammenzionate” di ritenuta non fattibilità della proposta sotto il profilo tecnico, economico o del pubblico interesse (ipotesi, queste, non ricorrenti nel caso di specie) – deve considerarsi nulla, ai sensi dell'art. 1355 c.c. (che prevede il divieto di inserire condizioni meramente potestative), un’eventuale clausola secondo cui la presentazione della proposta non vincola in alcun modo l'Amministrazione, nemmeno sotto il profilo della responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c.;

che il risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale, la cui dimostrazione spetta alla parte lesa (in linea con l'inquadramento di tale responsabilità nell'ambito della responsabilità aquiliana), riguarda il solo interesse negativo, ossia le spese inutilmente sostenute in previsione della conclusione del procedimento e le perdite sofferte per non aver usufruito di ulteriori occasioni contrattuali, mentre non sono risarcibili il mancato utile correlato all’eventuale aggiudicazione ed il danno curriculare, in quanto assolutamente ipotetici (si era, infatti, nemmeno conclusa la prima fase della procedura con la declaratoria, del tutto eventuale, di rispondenza al pubblico interesse di una delle proposte presentate);

che, dunque, ai fini della prova del danno l'istante deve assolvere l'obbligo di allegare e provare i fatti posti a fondamento della domanda, dovendosi escludere la liquidazione equitativa di cui all'art. 1226 c.c., che presuppone l'impossibilità di dimostrare l'ammontare del pregiudizio subito;

che, pertanto, in ordine alla quantificazione del danno ritiene il Collegio che nella specie debba farsi applicazione del disposto di cui all'art. 34, IV comma del c.p.a. che consente al giudice, in caso di condanna pecuniaria, di stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine;

che, dunque, nel liquidare il pregiudizio patito dall’odierna ricorrente l'Amministrazione dovrà attenersi nel prosieguo alle seguenti regole d'azione:

a) entro il termine di novanta giorni (decorrente dalla comunicazione in via amministrativa della presente decisione o dalla notificazione, ove anteriore) il Comune di Torri del Benaco provvederà a proporre alla ricorrente il pagamento di una somma a corrispettivo del danno, danno relativamente al quale parte ricorrente dovrà fornire in maniera rigorosa ogni utile elemento per la sua determinazione, escludendosi - come si è detto - una liquidazione equitativa: in particolare, il lucro cessante conseguente alla “perdita di altre occasioni lavorative” potrà essere risarcito se e in quanto l'impresa documenterà di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze, lasciati disponibili, per l'espletamento di altri lavori (qualora tale dimostrazione non possa essere offerta è da ritenere, infatti, che l'impresa abbia ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per lo svolgimento di altre attività: va da sé, invero, che l'imprenditore, in quanto soggetto che esercita professionalmente una attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili, normalmente non rimane inerte, ma si procura prestazioni contrattuali alternative dalla cui esecuzione trae utili). In sede di quantificazione del danno, pertanto, spetterà all'impresa dimostrare, anche mediante l'esibizione all'Amministrazione di libri contabili e di proposte di contratto, di non aver eseguito, nel periodo che l’avrebbe vista impegnata nella redazione del progetto, altre attività lucrative incompatibili con quella per la cui mancata prosecuzione chiede il risarcimento del danno (cfr., in termini, CdS, IV, 7.9.2010 n. 6485; VI, 21.9.2010 n. 7004; TAR Veneto, I, 5.3.2014 n. 303; 8.11.2011 n. 1663)”. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 487 del 2014

Il permesso di Costruire non va comunicato al vicino-confinante

11 Apr 2014
11 Aprile 2014

Il T.A.R. Veneto, sez. II, nella sentenza del 28 marzo 2014 n. 415 chiarisce che il rilascio di un Permesso di Costruire non deve essere comunicato anche al vicino-confinante perché: “E’ infondato il primo motivo mediante il quale si sostiene la violazione dell’art. 7 della L. n. 241/90 in quanto non appare sussistere l’obbligo da parte dell’Amministrazione comunale di comunicare l’avviso di avvio del procedimento nei confronti di un proprietario confinante e a seguito di un’istanza di permesso di costruire.

Sul punto è possibile condividere l’applicazione di un costante orientamento giurisprudenziale (per tutti si veda (T.A.R. Calabria Catanzaro Sez. I, 05-07-2012, n. 696) nella parte in cui ha sancito che “Il vicino controinteressato non è un soggetto contemplato tra quelli a cui va inviata la comunicazione di avvio del procedimento per il rilascio di un titolo edilizio, ai sensi dell'art. 7, l. n. 241 del 1990, pur se lo stesso già risulti essersi opposto in precedenti occasioni all'attività edilizia dell'altro soggetto confinante. Non vi è, infatti, identità tra le posizioni di coloro che siano legittimati ad impugnare il provvedimento finale di concessione e coloro che possono intervenire o hanno titolo a ricevere l'avviso di avvio del procedimento. Infatti, ove sia stata proposta una domanda di concessione edilizia, il vicino del richiedente o il soggetto legittimato possono intervenire nel procedimento ed impugnare il provvedimento che accoglie l'istanza, ma non hanno titolo a ricevere l'avviso di avvio del procedimento. Il vicino, infatti, anche se ha provocato interventi repressivi, non assume la veste di controinteressato nei procedimenti per il rilascio della concessione edilizia: di conseguenza non esiste alcun obbligo nei suoi confronti di comunicazione di avvio del procedimento, che comporterebbe solo un aggravio procedimentale in contrasto con i principi di economicità e di efficienza dell'attività amministrativa””. 

dott. Matteo Acquasaliente

TAR Veneto n. 415 del 2014

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